L'Eco del Nulla N. 4 - Conflitti

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Why so series? - Peaky Blinders di Andrea Caciagli
La Grande Guerra nelle teste e nelle lame dei gangster inglesi
Scioperare stanca di Leonardo Zanobetti
I problemi dei sindacati e la protezione del cattivo lavoro
Il sultano è nudo di Francesco Balgo
La Turchia al centro dell'emergenza migratoria europea
Un'Europa unita per restare umani di Giulio Saputo
Contro l'Europa delle barriere, per l'inclusione dei migranti e il mantenimento di Schengen
Jihad made in Germany di Emanuele Giusti
E se la battaglia musulmana e antieuropea fosse nata dall'iniziativa dell'europeissima Germania?
La mappa dei focolai globali di Tullio Filippone
Nel periodo dell'urgenza antibellica, un'analisi delle guerre del mondo moderno
Fritz Haber di Emanuele Giusti
Il pane dall'aria, l'oro dall'acqua, la morte dalla vita. Vita, morte e miracoli di un'ebreo di Germania
Umano troppo umano di Simone Donati
Il pane dall'aria, l'oro dall'acqua, la morte dalla vita. Vita, morte e miracoli di un'ebreo di Germania
La grande illusione di Emanuele Giusti
Riflessioni sulla Grande Guerra, a cent'anni dall'attentato a Francesco Ferdinando​
Lettere dal fronte di Lorenzo Masetti
Le trincee della prima guerra mondiale raccontate dalle parole dure dei figli alle proprie madri
Immaginare la Grande Guerra di Andrea Caciagli
La guerra mondiale nelle immagini del cinema, da Lewis Milestone a Stanley Kubrick
Superfici Crespe di Luca Galasso
Il conflitto come essenza e progressione della realtà umana e cinematografica
La guerra della realtà di Martina Lo Mauro
La lotta dell'uomo nella continua battaglia del reale

La pulce e l'elefante di Lorenzo Masetti
L'amicizia futurista tra l'incendiario Marinetti e il mite Palazzeschi
La menzogna di Tolstoj 
di Lorenzo Masetti
La generazione futurista perduta inseguendo la favola bella della guerra
Fantasmi sul fronte italiano di Vanni Veronesi
Le sfumature delle terre di confine e il sangue dei tagli netti dei nazionalismi scatenati dalla Grande Guerra
Fascistizzare Cicerone di Tommaso Barsotti
La retorica fascista e l'invenzione dell'italiano
La forza degli elementi di Niccolò Sbolci
Carl Schmitt e l'incontro scontro di elementi che definiscono e determinano la vita dell'uomo
La fisicità dell'immagine 
di Antonio Costa
Barry Lyndon e la guerra del cinema
Inquadrare è distruggere di Massimiliano Coviello
Cinema e guerra, cinema è guerra. Dal blog lavoro culturale
Contrattempi di Maria Grazia Rutigliano
Cronaca della partenza di una studentessa palestinese
Il conflitto del corpo di Andrea Caciagli
Intervista a Saverio Costanzo, regista di Hungry Hearts La solitudine dei numeri primi

Questo e tanto altro nel quarto numero de L'Eco del Nulla, in cui parliamo del conflitto come elemento fondante dell'uomo e della realtà che viviamo, con illustrazioni di Andrea BarattinSilvia Rizzo, Francesca Maetzke e Katarzyna Pacholik e fotografie di Anna Sanesi, Anita Scianò e Mirko Lisella.

Conflitti di Andrea Caciagli
Nell’estate del 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, il National Interest pubblicava il saggio di Francis Fukuyama The End of History?, che ebbe grande fortuna e tre anni dopo divenne il libro La fine della storia e l’ultimo uomo. Nel saggio, il politologo statunitense rifletteva sul processo di disgregamento dell’URSS e sul fallimento sociale e politico dell’era comunista che avrebbe di lì a poco determinato la risoluzione dello scontro con gli Stati Uniti, e affermava: «Ciò di cui siamo testimoni potrebbe non essere soltanto la fine della guerra fredda, o il trascorrere di un particolare periodo della storia del dopoguerra, ma anche la fine della storia in quanto tale, e cioè la conclusione dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma finale del governo degli uomini». Questo concetto, fondato o meno, contestato prima dai suoi critici e rivisto poi dallo stesso Fukuyama alla luce dell’attacco alle Twin Towers, è entrato nel sentire comune suggerendo o definitivamente suggellando l’idea, già sussurrata, che si sia giunti davvero a una fine della storia, a un punto definitivo nello scorrere degli eventi che, con «la conclusione dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale», porterebbe automaticamente con sé il benessere e una pace perpetua fra gli uomini. E i paesi non occidentalizzati, quelli che non hanno completato l’evoluzione ideologica? Semplicemente quando arriveranno a capire che la democrazia liberale occidentale è la miglior forma di governo si metteranno in moto e ci «raggiungeranno», e Fukuyama utilizza proprio questo termine, come se ogni piccolo Stato del globo fosse, volente o nolente, il concorrente numerato di una grande corsa alla civilizzazione. Tralasciando la tesi, intrisa di un nauseante e limitato paternalismo occidentale, è innegabile che questo sentimento sia radicato nel nostro profondo, che siamo imbevuti della convinzione di vivere, parafrasando Leibniz, nella migliore delle società possibili. Le altre, di conseguenza, devono essere peggiori. Ma quali sono i metri per definire il livello di evoluzione di una società? Ovvio, la libertà e la violenza; perché dove non c’è libertà c’è restrizione dell’individuo e, soprattutto, dove c’è violenza non c’è umanità.
«Che differenza c’è», scriveva Emanuele Giusti due numeri fa proprio su queste pagine, «tra il coltello del boia del Califfato e il cacciabombardiere di un qualsiasi esercito regolare?». Soltanto la presunzione di essere migliori, l’arroganza di credere che delle diverse declinazioni dell’essere umani ce ne sia una che è intitolata alla superiorità morale. E si potrebbe discutere su quanto sia ampia la discrepanza morale tra la barbara uccisione di un uomo in un paese del Medio Oriente – non dimentichiamoci che al contrario l’Oriente Estremo è tutt’oggi visto con rispetto, compresa la Cina che lo scorso anno si è confermata leader mondiale degli omicidi di Stato con 2.400 esecuzioni capitali, perfettamente legali e quindi, a quanto pare, giustificate – e la morte colposa per fame e per freddo di un senzatetto in un paese a scelta della benestante e tanto democratica società occidentale. Se c’è una cosa che l’emergere dello Stato Islamico ha riaffermato con forza è che ciò che noi crediamo essere umano non è altro che una versione edulcorata di noi stessi. E che siamo ancora nazisti, colonialisti, dittatori e terroristi, che siamo ancora tutto quello che pensavamo il Novecento ci avesse insegnato a non essere più. Ma non perché dobbiamo completare una qualche immaginaria evoluzione ideologica, semplicemente perché siamo uomini. E ciò che siamo non si insegna, non si impara. Si educa, forse, può cambiare il modo in cui questo nostro essere si declina in rapporto alla natura, alla società, ma il suo nucleo rimane, immobile. I settant’anni di pace interna hanno anestetizzato l’Occidente al conflitto e alla violenza che vi è connessa: da un lato questa violenza ci sconvolge, dall’altro la guardiamo come se fosse qualcosa che non ci riguarda, qualcosa di lontano da noi. Dobbiamo tornare a riconoscerci anche nelle azioni violente che continuano e continueranno ad essere compiute, per fame, disperazione o, semplicemente, per crudeltà. Nella sua storia, lungi dal vedere una fine, l’uomo ha sempre razziato e violentato, derubato e ucciso, ma ha anche sempre curato e aiutato, donato e protetto. E con questo suo conflitto interno vive e deve convivere, non scacciarlo come se non gli appartenesse. Avete presente quei barbari arretrati e violenti che nella notte del 13 novembre scorso a Parigi hanno ucciso uomini e donne innocenti a colpi di kalashnikov? Quelli, siamo noi.


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