I migliori film del 2021

La top ten delle migliori pellicole uscite quest’anno nelle sale italiane, tra Vinterberg e Sciamma, Trier e Sorrentino

Il 2021 doveva essere l’anno della ripartenza e invece ha messo in ginocchio il cinema come luogo sociale, ma la difficoltà di andare al cinema non ha impedito a grandi autrici e autori del nostro presente di dare alla luce opere stupende. Nella nostra classifica dei migliori film usciti in Italia quest’anno film straordinari come Un altro giro di Thomas Vinterberg o La scelta di Anne di Audrey Diwan, altri originalissimi come Sesso sfortunato o follie porno di Radu Jude o Titane di Julia Ducournau. La classifica del 2021 ci permette poi di festeggiare piccoli passi in avanti dell’industria cinematografica internazionale, che è la dimostrazione che più si valorizza e si distribuisce il lavoro di registe donne più continuano ad emergere opere notevolissime: tra i nostri primi 10 titoli, le pellicole di Audrey Diwan, Céline Sciamma, Julia Ducournau e Emerald Fennel. Come tradizione, la classifica della redazione di cinema de L’Eco del Nulla è non numerata, ma mette in ordine dieci film che secondo noi non dovreste assolutamente perdervi. Eccoli qua.

Un altro giro di Thomas Vinterberg
Martin è un professore di scuola superiore che ha ormai spento ogni passione. La sua apatia si respira sia in ambito lavorativo sia in quello familiare ed è per questo che la moglie, gli alunni e gli amici lo trovano noioso, faticando a riconoscere l’uomo brillante che era un tempo. Si prospetta però una soluzione, un esperimento “scientifico” che prende spunto dalle teorie di uno psichiatra norvegese: bere regolarmente ogni giorno per colmare la carenza di alcol che ogni uomo porta con sé fin dalla nascita. La cosa funziona, Martin e alcuni colleghi riprendono smalto e la stima degli studenti, cominciano a riassaporare il gusto della vita, ma l’asticella sale senza freno e tutto degenera irrimediabilmente. Scegliendo il filtro dell’irrazionalità e dell’alterazione, Vinterberg racconta con estrema maestria e in maniera provocatoria le contraddizioni di una società algida, in bilico tra angoscia e fallimento, libertà e sete di vita. La sua macchina da presa respira l’ossigeno dei personaggi: gioca, scherza, si ubriaca e danza con loro, nel dramma e nella gioia che è la vita. Il solco è tracciato fin dall’inizio del film e la citazione d’apertura lascia libero sfogo alle parole del filosofo danese Søren Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo: «Cos’è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto del sogno». Oscar al miglior film internazionale.

La scelta di Anne – L’Événement di Audrey Diwan
Anne è una studentessa universitaria, che vive la sua routine accademica immersa fra le pagine di Sartre e Camus. La sua passione per la letteratura corre parallela alle naturali passioni giovanili, ma nella Francia bigotta dei primi anni Sessanta il suo desiderio di donna è condannato. La ragazza scopre improvvisamente di essere incinta e decide di abortire clandestinamente: è una scelta fredda e disperata, per cui rischierà la prigione e la sua stessa vita.
Tratto dal romanzo L’evento di Annie Ernaux – che racconta l’esperienza autobiografica di studentessa incinta in un buio inverno francese del 1963 – L’Événement è un’opera potente, fisica come lo stesso titolo suggerisce. L’avvenimento che la protagonista deve affrontare, l’essere incinta e la conseguente scelta di abortire per salvare il proprio futuro, è un trauma corporale. La regia asciutta della Diwan lo rende immersivo, totalizzante, crudo, a partire dalla scelta del formato quadrato (1:37) che non lascia respiri o vie di fuga. Leone d’oro a Venezia.

Sesso sfortunato o follie porno di Radu Jude
Un filmato sessuale amatoriale senza censure: i protagonisti del video sono Emi, insegnante in una scuola secondaria, e il marito, che quando il video diventa virale sono sottoposti al giudizio collettivo. La donna, in particolare, dovrà difendersi dalle accuse scagliatele contro dal corpo genitori-insegnati. Il regista rumeno Radu Jude scandisce il film con una narrazione tripartita: nella prima parte la macchina da presa si muove lungo le strade seguendo la protagonista, che sembra una flâneur, evidenziando gli aspetti più controversi della società; la seconda è un montaggio di definizioni e pensieri del regista su usi e costumi del proprio paese; l’ultima parte è la riunione con i genitori per decidere il futuro di Emi. Nella sua stravaganza, l’opera porta alla luce le problematiche nazionali (e non solo) come il dilagante antisemitismo, sessismo, maschilismo e misoginia, il tutto affrontato con un tono tanto grottesco da scivolare volontariamente nel ridicolo risultando ancora più tranciante e provocatorio, con un epilogo in cui non si può formulare un giudizio unanime, e viene lasciata alla spettatore la possibilità di decidere in autonomia quale sarà il verdetto morale del film. Orso d’oro a Berlino.

Petite Maman di Céline Sciamma
Dopo aver perso la nonna, Nelly, una bambina di otto anni, passa qualche giorno nella casa dove la mamma Marion è cresciuta. Quest’ultima sparisce e lascia al compagno il compito di occuparsi di tutto e Nelly, rimasta doppiamente sola, gioca nel bosco. Lì incontra una coetanea, Marion, che con l’altra Marion ha molto in comune, ed è un doppio speculare di lei e della madre. Sta in questo mistero Petite Maman, che si apre davanti agli occhi come un libro per bambini, affrontando l’amicizia particolare tra due bambine, la maternità e l’elaborazione del lutto. Si tratta di un piccolo film che colpisce per delicatezza e tenerezza, di una fiaba dolce e commovente. Céline Sciamma – regista di Ritratto della giovane in fiamme il cui cinema si muove tra tempo, spazio, memoria e ricerca di identità – usa infanzia e lutto per riflettere sul presente e sul futuro, narra una realtà di stanze e di boschi abitati da fate in cui costruire capanne, è capace di infondere un senso di magia che lega Marion e Nelly. Petite Maman mescola poesia e domande in un affresco potente di emozioni dette a bassa voce, una storia di fantasmi e di materia che vive di incantesimi e di radici ancestrali.
Leggi l’intervista alla regista di Petite Maman qui ► Qualche giorno fuori dal mondo | Intervista a Céline Sciamma

La persona peggiore del mondo di Joachim Trier
Julie è una ragazza dai mutevoli interessi che arrivata alla soglia dei trent’anni ancora non ha trovato la sua stabilità né la strada per sentirsi pienamente soddisfatta. In dodici capitoli il film ripercorre alcune fasi della vita della donna, interpretata da una straordinaria Renate Reinsve – migliore interpretazione femminile al festival di Cannes – capace di dare al personaggio un tono stravagante e singolare. Gli uomini che incontra, le relazioni interpersonali, il rapporto con il padre e le difficili scelte che deve compiere per raggiungere i suoi obiettivi riempiono i capitoli del film, dando modo allo spettatore di conoscerla e venire trasportati nelle sue vicissitudini. Joachim Trier dipinge un ritratto della nostra contemporaneità centralizzando le difficoltà che la sua protagonista deve attraversare: la possibilità dell’insuccesso, il conflitto familiare e la frustrazione di non riuscire a trovare il proprio ruolo nella società. Senza perdersi in eccessivi virtuosismi, il film mantiene una narrazione lineare e penetra con delicatezza nell’intimità della protagonista facendo scaturire specularmente nello spettatore interrogativi sociali e umani senza per questo risultare mai giudicante.
Leggi qui il nostro approfondimento sul cinema del regista norvegese ► Le vite concatenate di Joachim Trier

Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi
L’attore e regista teatrale Yusuke Kafuku, specializzato in un teatro che mescola sul palcoscenico le lingue, e la moglie Oto, sceneggiatrice televisiva, lavorano alle storie di lei durante il sesso, stringendo attorno a ciò un nuovo rapporto dopo la scomparsa della figlia di quattro anni che segna il loro passato e il loro presente. Yusuke scopre però che la moglie lo tradisce, per poi perderla improvvisamente per una fulminante emorragia cerebrale. Due anni dopo, il regista teatrale si reca ad Hiroshima per mettere in scena la sua versione multilinguistica dello Zio Vanja di Anton Checov, dove gli viene assegnata una autista. Drive My Car è cinema della parola – la parola teatrale, la parola fantasmatica della moglie scomparsa con la cui voce in audiocassetta Yusuke memorizza le battute della pièce – e della lingua – la lingua giapponese, coreana, inglese, la lingua dei segni. Tratto dall’omonimo racconto breve di Haruki Murakami contenuto nella raccolta Uomini senza donne, il film di Hamaguchi si dipana attraverso una narrazione distesa lungo i suoi 179 minuti, in cui il regista giapponese entra in punta di piedi nelle vite dei suoi personaggi: il protagonista Yusuke, la moglie Oto, l’autista Misaki, l’attore Koji. In questo percorso alternato tra sale di prova e abitacoli, Hamaguchi intreccia con delicatezza parola e gesto, teatro e vita in un dialogo commovente. Golden Globe al miglior film straniero e premio per la sceneggiatura, scritta da Hamaguchi con Takamasa Oe, al festival di Cannes.

Titane di Julia Ducournau
Alexia è una provocante ballerina di un salone di automobili e porta con sé le vecchie cicatrici di una placca di titanio che le è stata applicata nel cranio in tenera età, in seguito a un incidente avuto col padre. Da quel momento quel titanio è diventato l’algida barriera nei confronti del mondo e delle persone che provano ad avvicinarlesi: poveri sventurati che la ragazza uccide senza pietà con un fermaglio per capelli. Alexia si trasforma così in una perversa macchina omicida, il cui unico rifugio intimo e appagante è il rapporto morboso con una Cadillac, da cui resta persino incinta. Costretta a fuggire, grazie alla sua fisicità androgina riesce ad assumere l’identità di Adrien, un ragazzo scomparso dieci anni prima, figlio di un comandante dei pompieri con cui istaurerà un legame speciale. Titane è il film di una resurrezione, una resurrezione che si fa carne nelle vesti di una psicopatica mutante. Alexia partorisce una nuova vita, che nasce dall’unione innaturale di due corpi senz’anima: il suo, ormai privo di umanità dopo l’incidente dell’infanzia, e quello di un’automobile, un ammasso di ferraglia inerme. Con una regia travolgente, priva di schemi e spesso barocca, Ducournau destruttura qualsiasi codice, spingendosi fin nel profondo delle relazioni umane. I ruoli si sfaldano, le categorie uomo-donna, padre-madre, figlio-amanti sembrano svanire. C’è solo l’esistenza di esseri in pena, in cerca di una nuova umanità. Palma d’oro al 74° Festival di Cannes.
Leggi il nostro approfondimento sul cinema di Julia Ducournau qui I corpi di Ducournau

Il buco di Michelangelo Frammartino
Nel 1961 un gruppo di speleologi si è calato all’interno dell’Abisso di Bifurto, un buco lungo 683 metri nel Parco del Pollino. L’anno prima, al Nord, si ultimava la costruzione del grattacielo Pirelli di Milano, a cui avevano assistito gli abitanti del sud radunati attorno allo schermo dell’unico televisore del paese. Al movimento verticale verso l’alto fa eco quello contrario verso il centro della terra compiuto dagli speleologi. Dopo Le quattro volte, Michelangelo Frammartino racconta un’impresa eccezionale, porta fuori dal buio l’evento. Fin dalla prima inquadratura umano e animale prendono il loro posto nella luce che scava la materia. Per il regista questo svelamento è momento fondamentale e i meandri dell’Abisso si scoprono a poco a poco, così la profondità del buco e il suo vuoto diventano centro di narrazione. L’occhio di Frammartino si insinua nell’intrico, accarezza la scabrosità di ogni parete, fa percepire ogni respiro degli speleologi, consegnandoci un’esperienza immersiva, rendendoci partecipi di un’impresa eroica. Frammartino, narratore di estremo rigore, compone, quasi senza parole, musica e luce, un viaggio intimo e potente, e anche “storico” tornando in quella stessa grotta, scendendo alla stessa profondità, con spirito documentaristico e a tratti perfino epico. Premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia.

Una donna promettente di Emerald Fennel
Abbandonati gli studi di medicina per un trauma del passato, Cassie vive mettendo in atto un progetto machiavellico: vendicarsi di tutti gli uomini per cui la donna è oggetto di sguardo divoratore, di molestie e stupri, riproposizione degli stilemi del male gaze, il predatorio sguardo maschile. Il film è un thriller, un moderno rape and revenge che rimodella lo schema del sottogenere portandolo ai giorni nostri. Con finezza e intelligenza, la regista statunitense pone al centro una legislatrice che scrive la propria legge, un “angelo della morte” che non ha nulla da perdere. Cassie è stata abbattuta dal dolore anni prima e ora vive in funzione di questa battaglia. Una donna promettente è un’opera epocale sulla cultura dello stupro, che mostra la violenza endemica, il pensiero tossico che abita la mente di chiunque viva la società occidentale e per questo ancora più pericoloso. Oscar per la miglior sceneggiatura originale.
Leggi la nostra recensione qui ► Una donna promettente e qui l’intervista a Emerald Fennel e Carey Mulligan ► “Vorrei che questo film fosse uscito quando ero adolescente”

È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino
In una tumultuosa Napoli degli anni Ottanta vive Fabietto, uno dei tre figli di Saverio e Maria Schisa, adolescente incerto del suo futuro, timoroso delle donne e invaghito della zia Patrizia, una donna estremamente sensuale. A muoversi intorno a lui, un vorticoso caleidoscopio fatto di scherzi materni, di un fratello che sogna il cinema, di una sorella che vive chiusa in bagno e di un parterre di personaggi quanto mai sorrentiniani. Una cornice idilliaca destinata a frantumarsi con la morte improvvisa dei genitori, lasciando un vuoto incolmabile per fare posto, forse, a un pieno di libertà creativa. In una prima parte del film pirotecnica e citazionistica da Amarcod felliniano, il film tocca da Sergio Leone fino a Roberto Rossellini: un teatro ideale, della genesi artistica del Sorrentino autore. A metà film, il regista napoletano decide di spengere tutto per fare spazio all’assenza, privandolo di tutta quella carica estetizzante tipica del suo cinema e spogliandosi di fronte a una ingombrante e deludente realtà. È stata la mano di Dio è un film privato, intimo e personalissimo che prova a ricomporre non in modo consolatorio, come il titolo potrebbe suggerire, le parti disunite di un regista che si ritrova a raccontare, in un vortice infinito, il rimpianto. Leone d’argento – Gran premio speciale della giuria a Venezia.
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Parte della serie I migliori film dell'anno

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