È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino

con Filippo Scotti, Teresa Saponangelo, Toni Servillo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri

Leone d’argento alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia e candidato italiano agli Oscar 2022, È stata la mano di Dio è il nono lungometraggio di Paolo Sorrentino che torna sul grande schermo dopo la parentesi televisiva di The Young Pope (2016) e The New Pope (2020) e il discutibile Loro, uscito in sala in due parti nel 2018 e forse peggior film della sua cinematografia. Prendendo spunto da una forte base autobiografica, il regista napoletano ambienta le vicende negli anni Ottanta della sua gioventù e della sua Napoli, facendo della vita passata il presente del film e del suo protagonista – interpretato da Filippo Scotti, premio Mastroianni per il miglior attore emergente a Venezia – un alter ego che abita i luoghi del giovane Sorrentino.
 

Prendendo spunto da una forte base autobiografica, il regista napoletano ambienta le vicende negli anni Ottanta della sua gioventù e della sua Napoli


Fabietto Schisa (F. Scotti) vive un’adolescenza spensierata divisa tra le mura di casa con il padre Saverio (T. Servillo) e la madre Maria (T. Saponangelo), che stanno completando l’acquisto della loro casa di montagna a Roccaraso, e le domeniche trascorse con i bizzarri componenti della sua famiglia: il cinico zio Alfredo (R. Carpentieri), Geppino, la malevola signora Gentile, il fratello Marchino (M. Joubert), con velleità d’attore, la prosperosa e disinibita zia Patrizia (L. Ranieri), che accende le sue prime fantasie. Tutto sotto il sole partenopeo nella desiderosa attesa della conferma del colpo di calciomercato del secolo: l’acquisto di Diego Armando Maradona da parte del Napoli.

El pibe de oro è sempre stato, per l’autore napoletano, un’enorme fonte d’ispirazione. Lo ringraziò la notte dell’Oscar conquistato con La grande bellezza insieme a Martin Scorsese, ai Talking Heads (a cui già aveva dedicato This Must Be The Place) e a Federico Fellini, altro modello di riferimento di È stata la mano di Dio insieme a Maradona – non è un caso che tra i suoi cinque film preferiti ci siano La dolce vita, 8 ½, Roma e Amarcord (il quinto è C’era una volta in America, che rimane in VHS sopra il televisore di casa Schisa per tutto il film). In questo personale Amarcord, il calciatore argentino non è soltanto colui che per primo, a detta dello stesso Sorrentino, gli ha insegnato il senso dello spettacolo, ma è anche il suo salvatore. «A me Maradona ha salvato la vita. Da due anni chiedevo a mio padre di poter seguire il Napoli in trasferta, anziché passare il weekend in montagna, nella casetta di famiglia a Roccaraso; ma mi rispondeva sempre che ero troppo piccolo. Quella volta finalmente mi aveva dato il permesso di partire: Empoli-Napoli. Citofonò il portiere. Pensavo mi avvisasse che era arrivato il mio amico a prendermi. Invece mi avvertì che era successo un incidente». L’incidente è quello raccontato in È stata la mano di Dio. «Papà e mamma erano morti nel sonno. Per colpa di una stufa. Avvelenati dal monossido di carbonio. Io avevo sedici anni». 

Questa dimensione personale si distacca dai grandi temi del secondo Sorrentino, perfettamente aderenti all’estetica e al linguaggio visuale magniloquente eppure soffocanti per il loro tentativo immediato di mirare alla grandezza: l’olocausto di This Must Be The Place, la Città Eterna e l’amore ne La grande bellezza, la vecchiaia e la morte in Youth, l’Italia berlusconiana in Loro, persino Dio e la Chiesa in The Young Pope e The New Pope.  L’incipit di folgorante surrealismo di È stata la mano di Dio – con un San Gennaro in abiti borghesi che porta Patrizia all’incontro con il Monaciello, in un salone deserto dove al centro giace un lampadario crollato e ancora illuminato – è il marchio del Sorrentino post-Divo che abbiamo imparato ad amare o ad odiare negli ultimi dieci anni. Ben presto però, quel canone così riconoscibile comincia ad inscriversi all’interno della storia familiare e privata del giovane protagonista, riportando il percorso onirico che in apertura sembra già scritto (e già visto) in una dimensione del reale molto lontana dai terreni solcati dall’autore che conosciamo. Il linguaggio, allora, si stacca dall’estetizzazione estrema e dallo sguardo oleografico e riconduce la componente visuale a contatto con una cornice narrativa più sobria. Questo Sorrentino intimo, lontano dai vezzi de La grande bellezza e più vicino alla tragica quotidianità de L’uomo in più, convince piegando il suo stile forte al servizio del dolore di Fabietto, stretto tra un futuro che non sa ancora percorrere e un presente che non riesce ad interpretare.

In un film intriso di cinema, Fellini e Capuano sono i maestri dichiarati, l’uno maestro di cinema l’altro di libertà. Nel suo percorso Fabietto li incrocia entrambi. Federico Fellini, incontrato a distanza durante una serie di provini da cui viene scartato il fratello Marchino, è una voce eterea fuori campo, un suono dolce al di là di una porta – la voce di Fellini è di Maurizio Di Girolamo, quella di Maradona di Edoardo Ferrario – che apre per lui mondi nuovi. Da un lato quello del cinema, immaginato per la prima volta grazie al fratello di ritorno dal provino, – «A un certo punto lo chiama un giornalista, e Fellini gli dice: “Il cinema non serve a niente! Però ti distrae”, e secondo me il giornalista gli ha detto qualcosa tipo: “Ti distrae da che cosa?”. E Fellini gli fa: “Dalla realtà, la realtà è scadente”». «Solo questo ha detto?». «E ti pare poco» – dall’altro quello delle donne, intraviste in una serie di fotografie su una lavagna di sughero, nella stanza dei provini del Maestro. Le due vocazioni di Fabietto, il cinema e le donne, si incrociano nella figura di zia Patrizia, femmina felliniana per antonomasia, metà tabaccaia e metà Gradisca, e al contempo ispirazione per la futura carriera: «Cosa vuoi fare da grande, Fabie’?», gli chiede la zia dal manicomio dove si è fatta rinchiudere. «Il regista di film, questo vorrei fare». «Che bella idea, Fabie’! Se ci riesci mi vieni a chiamare? Così sarò la tua musa». «Tu sei già la mia musa».
 

Federico Fellini e Antonio Capuano sono i maestri dichiarati, uno è una voce eterea fuori campo, un suono dolce al di là di una porta, l’altro è un corpo vivo, ribelle e anarchico


Antonio Capuano invece, incontrato da vicino prima durante le riprese alla Galleria Umberto I poi una notte in un piccolo teatro napoletano, è un corpo vivo, ribelle e anarchico. I due stanno guardando a teatro lo spettacolo di un’attrice che da mesi agogna di essere vista in scena da Capuano, e il regista napoletano si alza in mezzo alla sala, la insulta per l’interpretazione della sua Salomè e la applaude per il solo fatto di essersene andata via in lacrime. Fabietto lo insegue fuori dal teatro per le strade notturne di Napoli: «Io sono sconvolto. Cioè, non sapevo che si potesse fare che uno si alza a teatro e si mette a protestare», «E infatti non si fa. Sono io che facc’ ‘o cazz’ che me pare, io so’ libber’. Tu si libber’?». E si incamminano insieme in un dialogo che è il picco di intimismo del film, una drammatizzazione surreale del conflitto interiore di Fabietto – lui da una parte, Capuano (un violento e impressionante Ciro Capano) dall’altra –, nei sotterranei di un palazzo che si immerge nelle acque del mare. Da un lato la volontà di partire alla volta di Roma, dall’altro il legame indissolubile con la città che lo ha plasmato. «A Roma? La fuga?», gli dice Capuano. «Sol e strunz vann a Rom». La reazione violenta con cui Sorrentino si rimprovera di aver lasciato Napoli, è anche la consapevolezza che Napoli non si può mai lasciare, che di Napoli esonda il suo immaginario. «Alla fine torni sempre a te, Schisa. E torni qui». Sorrentino ci ha messo vent’anni e nove film per tornare, lì nel condominio di via San Domenico, nel Vomero, dove aveva vissuto, lì a raccontare se stesso nel confronto con un suo maestro. Un maestro che, sentendogli dire di come vorrebbe far cinema, gli chiede urlando: «La tien ’na cosa da raccuntà?!».

«Nel film il dialogo con Capuano è una combinazione delle molte conversazioni che abbiamo avuto, non soltanto lavorando insieme, ma anche nel corso della nostra lunga amicizia», ha detto Sorrentino. «Riassume con precisione il tipo di essere umano che è Capuano – un individuo che amo e odio al tempo stesso, perché ha questo suo modo di provocarmi a disvelare me stesso, a essere completamente nudo sul piano emotivo e a rivelare quello che realmente sono. È bello e raro incontrare una persona come lui, ma implica anche un grosso sforzo per qualcuno come me». Lo confessa lo stesso Capuano, in un’intervista al Venerdì di Repubblica. «Sono stato vittima del mio brutto carattere. Nel mondo del cinema certe cose le paghi. A volte non mi sopporto più. Mi dico: “Cambia, Capuà! Esci da te. Vattenne! Pigliate ’na vacanza”». Come vorrebbe essere? «Più formale, bugiardo. “Travestiti, Capuano!”. Non ci sono mai riuscito. Non ho mezzi toni». Ha sempre polemizzato con i borghesi. «Prenda il rapporto con Paolo. È fraterno. C’è stima. Ma siamo diversi. È come se io fossi rimasto selvaggio, e loro educati, loro sono come bisogna essere, e io no».

I due registi si conobbero a fine anni Novanta, presentati dal produttore Nicola Giuliano, per la stesura della sceneggiatura di Polvere di Napoli (1998) dove recitava tra gli altri una giovane Teresa Saponangelo, qui nei panni dolci della madre Maria, in gara di candore con il padre interpretato da Toni Servillo. La dialettica tra Capuano e Sorrentino, fatta di complicità e distanza, è una dinamica reale che il regista mette in scena in un faccia a faccia che dà corpo ad un rapporto spesso persino onirico. «Paolo lo sogno spesso», confessa Capuano al suo intervistatore. «Come? “Con la camicia azzurra. Con il bavero di pelliccia. E poi lo chiamo, e gli racconto il sogno”». Quel sogno che è ispirazione felliniana e contaminazione allo stesso tempo è in contrasto con una realtà scadente eppure essenziale, nelle parole del maestro partenopeo. «La realtà ci nutre. ‘Prendete il tram se volete scrivere’, esortavano Age & Scarpelli. Se non guardi il reale che cosa vuoi raccontare? Anche Paolo è partito dal suo dolore».

Un dolore che nutre di verità un film che, pur asciugato della sua magniloquenza, resta disseminato di grandi segni del cinema sorrentiniano: la comparsa del Monaciello, il fischio d’amore tra Saverio e Maria, le splendide eteree musiche di Lele Marchitelli, la celebrazione collettiva del gol di mano di Maradona contro l’Inghilterra a Messico ’86 (“la mano di Dio”, come si giustificò il numero dieci) e il televisore che trasmette poco dopo, solitario nella casa vuota, il gol del secolo, l’amico Armando (un delicato e commovente Bruno Manna), il gioco con le arance di Maria, già raccontato in una toccante sequenza di The Young Pope ed evidentemente radicato nel passato di Sorrentino, gli scafi di off-shore che vanno a duecento all’ora e fanno tuff, tuff, tuff. E la sorella Daniela, che non vediamo mai perché sempre chiusa in bagno a prepararsi, che esce soltanto nel finale, quando Fabietto se n’è appena andato di casa, e piange. In sottofondo alle sue lacrime, le strade di Napoli festeggiano la vittoria dello scudetto, mentre il suono dei tamburi si trasforma nello sferragliare del treno per Roma dove siede il fratello.
 

In una dolorosa contraddizione, è la morte dei genitori a benedire il futuro di Fabietto, costretto a lasciare un nido ormai freddo e silenzioso


La fuga da Napoli, la fuga da quel calore familiare che somiglia ad una melassa viscosa che lo culla e lo incatena ad un presente senza prospettive, fatto di memorie e zuppa di latte. In una dolorosa contraddizione, è la morte dei genitori a benedire il futuro di Fabietto, costretto a lasciare un nido ormai freddo e silenzioso. «Come mai non eri a Roccaraso? A te piace sciare», gli chiede lo zio Alfredo al funerale. «C’era il Napoli allo stadio. Dovevo vedere Maradona». «È stato lui! È stato lui che t’ha salvato!», s’illumina zio Alfredo. «Ma lui chi, zio?». «È stata la mano di Dio!». La benedizione nella maledizione, per Fabietto, e per Sorrentino: perdere tutto il calore, l’affetto, l’amore, pe’ tené ’na cosa da raccuntà.

 

«Sai come si chiama questa cosa che ha fatto Maradona?»
«Le punizioni?»
«Si chiama perseveranza. Io non ce l’avrò mai, e tu dovrai avercela per forza Fabie’»
ITA 2021 – Dramm. 130’ ★★★


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