I migliori film del 2020

La top ten delle migliori pellicole uscite quest’anno nelle sale italiane, tra Fincher, Larraín, Sam Mendes e Ken Loach

Il 2020 è stato un anno particolare per il cinema, in Italia e nel mondo. Per questo la nostra consueta classifica dei migliori film usciti in Italia quest’anno comprende molti titoli che gli spettatori non sono riusciti a vedere in sala, date le aperture epilettiche di un anno segnato da pandemia e conseguente chiusura, per due volte (e con ragioni a dir poco discutibili), dei teatri e delle sale cinematografiche. A salvarsi i pochi titoli usciti tra gennaio e febbraio 2020, come 1917 di Sam Mendes e Sorry We Missed You di Ken Loach, mentre a soffrire gli italiani Favolacce e Volevo nascondermi, ma anche il nuovo film di Terrence Malick La vita nascosta - Hidden Life. Vita più facile invece per titoli come Mank, uscito direttamente su Netflix e comunque rientrato nei primi 10 film dell’anno. Come tradizione, la classifica della redazione di cinema de L’Eco del Nulla resta non numerata, una serie di film che secondo i nostri redattori dovreste vedere (o rivedere) assolutamente. Eccoli qua.

Favolacce di Fabio e Damiano D’Innocenzo
In un quartiere periferico romano, chiuso nel verde della vasta campagna, la vita è scandita dalle geometrie patinate delle villette a schiera e dal canto martellante delle cicale. Il cicaleccio però è anche quello dei suoi abitanti che, frustrati, falsi e invidiosi, mettono in scena l’ostentazione plastificata di uno status sociale forse faticosamente raggiunto ma che non li soddisfa appieno, sotto il vaglio timido e ambiguo dei loro figli. La potentissima opera seconda dei fratelli D’Innocenzo riflette sul male annidato negli antri della società contemporanea, a partire da un mondo dal sapore borgataro e dal cuore marcio, popolato da orchi e streghe che agiscono nell’ombra di un caldo estivo. Con lo sguardo visionario che li identifica, i due giovani registi dipingono così un ritratto umano che nella distorsione fiabesca trova la sua verità più intima e sconcertante: i bambini sono condannati a respirare la malignità degli adulti, una malignità che subiscono ma che al contempo assorbono ed esercitano come fosse il solo e inevitabile rifugio concesso. Orso d’argento per la miglior sceneggiatura al Festival di Berlino.
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Sorry We Missed You di Ken Loach
In una grigia Newcastle, Ricky e Abbie vivono una situazione lavorativa precaria che a poco a poco s’insinua pericolosamente nel delicato rapporto con i figli. L’uomo, stufo di doversi arrangiare con diversi mestieri, si convince che l’occasione per garantire una maggior serenità economica alla famiglia sia quella di intraprendere un’attività da corriere freelance, ma la situazione peggiora e si ritrova a lavorare quattordici ore al giorno in una dimensione alienante in cui l’unico ago della bilancia della sua vita diventa lo scanner elettronico che monitora senza alcuna pietà le sue consegne. Attingendo a contesti lavorativi impietosi, che non celano espliciti riferimenti alle grandi multinazionali come Amazon e al pensiero capitalistico imperante, il cinema di Ken Loach torna a mettere in scena lucidamente la brutalità del reale e le sue contraddizioni. Con uno sguardo algido e disincantato ma al contempo dissidente, il cineasta britannico racconta ancora una volta l’impotenza dei poveri lavoratori, vittime inghiottite in un meccanismo ingovernabile che spesso svilisce e annienta le loro vite, non lasciando scampo all’umanità.
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La vita nascosta – Hidden Life di Terrence Malick
Durante l’ascesa del Terzo Reich in Austria, il contadino Franz Jägerstätter è l’unico abitante del villaggio Sankt Radegund a guardare con sospetto la figura di Adolf Hitler e a vedere con chiarezza le contraddizioni e le violente ingiustizie del nazismo. Dopo un primo periodo da recluta, matura la scelta di rifiutarsi di giurare fedeltà al Fürher qualora venisse richiamato a combattere, consapevole che potrebbe significare la condanna a morte per tradimento. La sua decisione, fondata sulla sua profonda fede in Dio e su ciò che ritiene sia il bene, attira sulla sua famiglia l’odio di tutti i concittadini, che pian piano isolano lui e la moglie Franziska, sempre più tormentati dall’attesa della lettera che richiamerà Franz alle armi. Con La vita nascosta Terrence Malick torna a innervare nella propria visione una struttura narrativa lineare, dopo il percorso di allontanamento dalla narrazione canonica iniziato con The Tree of Life (2011) e portato all’estremo con Knight of Cups (2015) e Song to Song (2017). Questa narrazione, per quanto dilatata e aperta da violenti squarci poetici, contribuisce a dare forza e ad innalzare le vette emotive della pellicola del regista texano che utilizza tutti gli strumenti filmici del suo cinema – i grandangoli esasperati, la voce narrante, i maestosi sguardi sulla natura – per esprimere la dimensione interiore di Franz Jägerstätter, personaggio realmente esistito e il cui gesto eroico di disobbedienza civile contro il Reich gli valse la beatificazione nel 2007. Straordinaria fotografia di Jörg Widmer e colonna sonora di James Newton Howard di bellezza commovente.

Undine - Un amore per sempre di Christian Petzold
Berlino, a un tavolino di un bar ci sono un uomo e una donna seduti l’uno di fronte all’altra in quello che sembra essere l’ultimo caffe prima della loro definitiva separazione e la fine del loro amore. L’uomo cerca di rassicurarla ma la donna con sguardo serio reagisce dicendo: «Non puoi andartene. Se mi lasci dovrò ucciderti. Lo sai». Inizia così a muovere i suoi primi passi l’ultimo film di Christian Petzold, scegliendo ancora una volta come protagonista una donna sola e abbandonata a sé stessa, una figura presente nella maggior parte dei suoi lavori, a partire da Yella (2007) e Jerichow (2008) fino ai suoi più famosi La scelta di Barbara (2012) e Il segreto del suo volto (2014). In Undine il regista si spinge ancora oltre riuscendo a bilanciare perfettamente l’aspetto sentimentale con quello mitologico e suggerire un parallelismo tra le trasformazioni della sua città con quelle dei protagonisti del film. Petzold riesce così a raccontare la fine di una storia d’amore – e l’inizio di un’alta ­­­– utilizzando un tono da thriller­, a tratti persino horror e fantasy, con la solita eleganza e delicatezza del suo sguardo registico. Orso d’argento per la miglior attrice a Paula Beer.

Mank di David Fincher
Nel 1940 il giovane prodigio del teatro e del cinema Orson Welles ingaggia lo scafato (e quasi mai sobrio) sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, detto “Mank”, per scrivere la sceneggiatura del suo prossimo film. Mank si trova a farlo in poco più di 60 giorni, prigioniero di una casa di campagna e di un letto, dove scrive dettando lo script ad una segretaria mentre sta sdraiato con una gamba ingessata rimediata con un incidente d’auto. Per la storia attinge al suo passato di sceneggiatore nelle file della MGM e al suo rapporto con Louis B. Mayer, William Randolh Hearst e sua moglie Marion Davies: la sceneggiatura che nascerà sarà quella di Quarto potere, uno dei più grandi capolavori (se non il più grande) della storia del cinema. Ispirato al libro Raising Kane (1971) di Pauline Kael e sceneggiato negli anni Novanta dal padre Jack, Mank è il ritorno al grande schermo di David Fincher, un ritorno in un classico bianco e nero che è un omaggio e un dialogo con l’epoca del film di cui racconta la genesi. Fincher immerge lo spettatore nella Hollywood degli anni Trenta e Quaranta in un affresco del mondo del cinema che scende nel profondo della dimensione politica e umana del mezzo cinematografico, dal punto di vista di un Don Chisciotte interpretato con mimesi magistrale da Gary Oldman, protagonista al contempo sprezzante e umile, fragile e imponente.
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Il lago delle oche selvatiche di Diao Ynan
Un uomo, una donna. La pioggia cade inesorabile. Lui è Zhou Zenong, importante esponente di una banda di rapinatori, in fuga per l’omicidio accidentale di un poliziotto durante un regolamento di conti. Lei, Liu Aiai, giovane prostituta che lavora sulle spiagge del Lago delle oche e che lo aiuta a mettersi in salvo dalla polizia. Si incontrano sotto i piloni di una stazione dove lui pensa di trovare la moglie. Il lago delle oche selvatiche è un noir metropolitano che si costruisce su spazi, luci, forme e movimento, che a poco a poco si dispiega lasciando che siano gli stessi personaggi a raccontarsi. Al centro c’è la caccia al fuggitivo che si costruisce come uno scontro corpo a corpo, una coreografia perfetta in cui si alternano malavitosi e poliziotti; ed in mezzo c’è la donna, una indefinibile femme fatale interpretata da Gwei Lun-mei. La pellicola diretta del regista cinese Diao Ynan è un film colto e complesso che strizza l’occhio al cinema di genere e al contempo cambia forma di fronte ai nostri occhi, passando dalla violenza esasperata alla nostalgia, che dilata il tempo e si destreggia nel caos fatto di ombre, oscurità e sangue.

I miserabili di Ladj Ly
Montfermeil, periferia di Parigi. L’agente Stéphane Ruiz prende servizio nella squadra mobile affiancando Chris e Gwada, poliziotti dell’anticrimine. Bastano pochi sguardi e Ruiz capisce come funzionano le cose nella banlieu, dove le tensioni tra le gang locali e tra queste ultime e le forze dell’ordine sono la norma. In quello stesso giorno un cucciolo di leone viene rubato dal circo, e si dà inizio ad una caccia all’uomo. Ladj Ly immerge la sua storia a Montfermeil, luogo che il regista francese conosce bene, facendo de I miserabili più cose insieme: è il racconto della felicità, dell’esultanza per la vittoria ai Mondiali, solo una piccola parentesi, ma anche di una tangibile, di una violenza che è pronta a esplodere. Sta tutto lì, in quel luogo dove l’equilibrio è instabile, dove accanto ai poliziotti vivono Issa che salva il leone e Buzz che col suo drone riprende ciò che non dovrebbe. Quello di Ly è un film fatto di sguardi, quello di Ruiz, Chris e Gwanda, quello dei ragazzi della banlieu e quello del drone che dall’alto si fa testimone inconsapevole, una narrazione amara che mostra la deflagrazione di un mondo, di un sistema, e un’opera di denuncia che non può lasciare indifferenti.

Ema di Pablo Larraín
A Valparaíso, in Cile, il matrimonio tra la ballerina Ema e il coreografo Gastón è alle corde per le conseguenze della scelta di rimettere in affidamento Polo, il figlio adottato dalla coppia per la sterilità di Gastón e tenuto in affido per meno di un anno, a causa dei suoi problemi comportamentali che lo hanno portato a bruciare il volto della sorella di Ema. Dopo i due film biografici Neruda (2016) e Jackie (2016), il regista cileno Pablo Larraín mette in scena una storia di vita particolare, sfocando il contesto cileno e filtrandolo attraverso l’esperienza di Ema, un personaggio estremo dal punto di vista umano, emotivo, sessuale. La sua visione libera della danza e della sessualità diventano parte di un piano elaborato ed estremo per ricomporre la propria vita e la necessità di maternità. Nel raccontarla, Larraín gestisce con disinvoltura gli incastri temporali tra flashback e flashforward che si muovono avanti e indietro nella storia, contrappuntati dalle musiche di Nicolas Jaar (già compositore di Deepan – Una nuova vita di Jacques Audiard) e dalla combinazione delle luci di Sergio Armstrong e delle scenografie di Estefanía Larraín. Un’intensa interpretazione di Mariana di Girolamo e di tutto il gruppo di ballerine, la cui visione comune e condivisa (per quanto controversa) racconta la portata sociale e politica della danza.

1917 di Sam Mendes
Dopo la scoperta di una falsa informazione che getterebbe in una trappola mortale un intero battaglione dell’esercito britannico, i caporali William Schofield e Tom Blake vengono incaricati di portare alle prime linee l’ordine di interrompere l’attacco all’esercito tedesco. Nella scelta di un lungo piano sequenza mascherato che trascina lo spettatore nel fango delle trincee della prima guerra mondiale, Sam Mendes unisce il suo sguardo alle luci di Roger Deakins per mettere in scena immagini e sequenze di grande impatto emotivo e visivo. I corpi dei protagonisti George MacKay e Dean-Charles Chapman – in un cast di altissimo livello tra cui Mark Strong, Richard Madden, Andrew Scott, Benedict Cumberbatch – si muovono tra villaggi in fiamme, trincee infangate, lunghe distese di terreno brullo e campi verdi. Più che una rappresentazione fedele dell’esperienza bellica, 1917 è un’immersione totalizzante nella dimensione intima della guerra, in cui scrittura e narrazione aprono a grandi momenti evocativi e squarci lirici di grande potenza.
Leggi il nostro approfondimento qui ► 1917 | Ossessionati dal piano sequenza

Volevo nascondermi di Giorgio Diritti
Biografia poetica del pittore e scultore Toni Ligabue, dalla difficile infanzia svizzera al vagabondaggio in Italia fino alla scoperta del dono della pittura e al successo. Opera quarta del regista bolognese Giorgio Diritti, già autore di Il vento fa il suo giro (2005), L’anno che verrà (2009) e Un giorno devi andare (2013), Volevo nascondermi racconta la storia di Antonio Laccabue distaccandosi dai vincoli narrativi del biopic per muoversi liberamente nel vissuto e nello spazio intimo di Toni, pittore segnato da traumi infantili, dalle malattie e da un precario equilibro psichico. Lo sguardo di Diritti e la fotografia di Matteo Cocco fanno del percorso di vita del pittore, tra il vagabondaggio e il periodo tra Gualtieri e i paesi intorno a Reggio Emilia, un vero e proprio viaggio emotivo nella vita interiore del protagonista, interpretato da un Elio Germano che veste con delicata energia il corpo del pittore. Un film tinto di ironia e poesia, dramma e commedia, che ricostruisce la complessità di un’artista dalla spontanea forza della sua arte – rimessa in scena anche nelle fasi di creazione scultorea e pittorica – alla umanità semplice e scontrosa dell’uomo appassionato di soldi, di donne e di moto. Orso d’argento per il miglior attore per Elio Germano al Festival di Berlino.
Leggi il nostro approfondimento qui  Il ruggito animalesco di Toni Ligabue


Parte della serie I migliori film dell'anno

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