1917 | Ossessionati dal piano sequenza

Sul film di Sam Mendes e la mania del cinema in una sola inquadratura

Due giovani soldati inglesi, Tom Blake e William Schofield, vengono incaricati dai loro superiori di consegnare un messaggio al generale Mackenzie ordinandogli di annullare un attacco contro i tedeschi. I protagonisti si avventurano tra le linee nemiche, sopravvivono alle loro trappole esplosive, vedono e vivono da vicino le atrocità della guerra facendo i conti con i suoi orrori. 1917 è una corsa contro il tempo, un viaggio ricolmo di violenza e morte, dove le lunghe carrellate in mezzo primo piano a seguire il cammino dei soldati in trincea ricordano il Kubrick di Orizzonti di gloria (1957). Il regista Sam Mendes decide di filmare dando l’illusione che il suo film di guerra sia un unico prodigioso piano-sequenza, la sua regia, supportata da una fotografia straordinaria firmata da Roger Deakins (L’uomo che non c’era, Non è un paese per vecchi, Blade Runner 2049), è tecnicamente impeccabile: eppure, difficile da credere, il problema del film, assieme ad una sceneggiatura poco strutturata, è proprio nella scelta di utilizzare questa tecnica di ripresa. Guardando 1917 siamo invasi da una sensazione paradossale: siamo di fronte ad un capolavoro registico ma abbiamo allo stesso tempo la sensazione che questa scelta non sia azzeccata per il film. Questo pedinamento della cinepresa, nella maggior parte dei casi con movimenti laterali, a precedere e a seguire, crea una sorta di flusso circolare incessante, un movimento di macchina centripeto che invece di immergerci dentro l’atmosfera di paura e terrore crea distacco, una sorta di filtro protettivo che mantiene lo spettatore lontano dall’epicentro bellico. Perché?

Il termine piano-sequenza (dal francese plan-séquence) venne coniato dal critico francese André Bazin attorno al 1950 durante la stesura del suo primo volume sul cinema di Orson Welles – celebre la sequenza di apertura del suo L'infernale Quinlan (1958). Il neologismo indica un’inquadratura unica che senza stacchi di montaggio mette in scena un’intera sequenza mantenendo linearità temporale e narrativa, da questa descrizione si evince come questo metodo di ripresa sia in netta antitesi con il montaggio analitico tipico del cinema classico. Ma questo modo di filmare non inizia con Welles, nasce inconsapevolmente assieme al cinema stesso, infatti – come scrive Sandro Bernardi ne L’avventura del cinematografo – «dal punto di vista filologico il piano-sequenza è la forma pura e originaria del cinema: i film dei Lumière erano uniche inquadrature […] senza montaggio, momenti di osservazione che duravano quanto la pellicola, un minuto circa». Il primo ad utilizzare questa tecnica in piena coscienza fu Jean Renoir che a partire dai suoi primi lavori, La cagna (1931) e Boudu salvato dalle acque (1932), fino ai suoi film più celebri, La grande illusione (1937) e La regola del gioco (1939), fa del piano-sequenza il marchio stilistico inconfondibile del suo cinema. Le opere del regista francese sono contraddistinte da lunghi movimenti di macchina che seguono i personaggi tramite carrellate e panoramiche, così facendo l’obiettivo della cinepresa assume un aspetto soggettivo, divenendo un personaggio che vive la scena come i protagonisti che esso stesso riprende. Questo crea un effetto di forte realismo, garantisce una linearità temporale effettiva e uno spazio d’azione unitario.
 

Il regista che per primo tentò l’impresa di filmare un’opera con un unico piano-sequenza fu Alfred Hitchcock nel 1948 con Nodo alla gola, girato per restituire la scansione unitaria temporale dell'opera teatrale da cui era tratto


Renoir però non è l’unico ad appropriarsi e servirsi di questa tecnica: proprio negli stessi anni Howard Hawks filmava con un lungo piano-sequenza l’incipit di Scarface - Lo sfregiato (1932) mostrando l’ombra dell’assassino che si avvicina alla sua vittima; mentre Max Ophüls danzava con la macchina da presa tra i salotti della Vienna post-asburgica, le sue carrellate circolari – evidenti in pellicole come Il piacere e l’amore (1950), Il piacere (1952) I gioielli di Madame de… (1953) – conferiscono al suo lavoro un aspetto elegante, raffinato e anche un po’ barocco. Ma il regista che per primo tentò l’impresa di filmare un’opera con un unico piano-sequenza fu Alfred Hitchcock nel 1948 con Nodo alla gola. Il soggetto del film è tratto dalla pièce di Patrick Hamilton Rope (letteralmente "corda", che è anche il titolo originale del film), la rappresentazione teatrale aveva un andamento continuo con la stessa durata d’azione da quando si alzava il sipario fino alla sua conclusione. Come si legge ne Il cinema secondo Hitchcock, il celebre libro-intervista con François Truffaut, la domanda che il regista inglese si pose fu: «come posso tecnicamente filmare questa storia mantenendo lo stesso adattamento della commedia? La risposta era evidentemente che la tecnica del film avrebbe dovuto produrre la stessa continuità e che non si sarebbe dovuto fare nessuna interruzione […]. Allora mi è venuta questa idea un po’ folle di girare un film costituito da una sola inquadratura». L’idea era straordinariamente innovativa ma il problema era costituito dalla durata massima di dieci minuti delle bobine, quindi si necessitava di alcune interruzioni obbligatorie per poter cambiare il nastro, l’abilità di Hitchcock sta nell’essere riuscito a mascherare il montaggio con delle trovate stilistiche davvero originali considerando i mezzi tecnici a sua disposizione (gli stacchi a nero sui costumi dei protagonisti, il passaggio di un personaggio davanti all’obiettivo per oscurarlo nel momento in cui la pellicola finiva).

Ma per assistere realmente alla visione del primo film girato in una sola inquadratura dobbiamo aspettare i primi anni dell’epoca digitale dove non si necessita più di un supporto fisico – la pellicola – per imprimere l’immagine filmata dalla cinepresa, questo rende l’impresa ugualmente ardua però effettivamente realizzabile. Ed è così che nel 2002 Aleksandr Sokurov ambienta nell’opulento Palazzo d’inverno di San Pietroburgo il suo Arca Russa, realizzato in un unico piano-sequenza di 96 minuti dove tramite l’ocularizzazione di un personaggio (altro tratto stilistico innovativo) del quale sentiamo solo la voce, ci muoviamo e osserviamo le sale di quello che è divenuto il Museo dell’Ermitage, ripercorrendo la storia nazionale spostandosi rapidamente da un’epoca all’altra. Il film del maestro russo rimane, insieme all’adrenalinico Victoria (2015) di Sebastian Schipper, uno dei pochi esempi di lungometraggio girato in un’unica inquadratura, ma negli ultimi anni, soprattutto dopo lo straordinario e meritatissimo successo di Birdman (2015) di Iñárritu, sempre più frequentemente si legge di film senza stacchi di montaggio, dichiarazioni che spesso risultano fuorvianti o inesatte.
 

Mentre nel passato la scelta di girare una scena con questa tecnica era dettata da una necessità poetica di adesione al reale (vedi Renoir e Hitchcock), nella contemporaneità il piano sequenza diventa essenzialmente cinematografico


Quello che invece risulta lampante osservando la produzione contemporanea è come la propensione nel filmare con inquadrature molto lunghe sia un marchio stilistico che accomuna molti più autori rispetto al passato. Lo sviluppo tecnologico ha semplificato operazioni che prima erano inattuabili, è vero, ma sembra che nel cinema di oggi girare opere in  piano-sequenza sia divenuto un metro di riferimento per distinguere un ottimo regista da uno mediocre, per aggiudicarsi premi e meritarsi la stima dei critici. Mentre nel passato la scelta di girare una scena in piano-sequenza era dettata da una necessità poetica di adesione al reale (vedi Renoir e Hitchcock), nella contemporaneità l’uso di questa tecnica di ripresa assume un tono essenzialmente cinematografico, in qualche caso virtuosisticamente ridondante ma soprattutto superfluo per le esigenze narrative. E se in Birdman di Iñárritu e in La La Land (2017) di Chazelle la scelta del piano-sequenza pur avendo una valenza prevalentemente estetica, con movimenti di macchina rapidi e perpetui, riusciva a dettare il ritmo delle sequenze, rendere accettabili gli sbalzi temporali e donare quel tocco magico a ciascuna inquadratura, lo stesso discorso non può essere fatto per l’ultimo film di Sam Mendes 1917.

Dopo il fenomenale esordio alla direzione di American Beauty (1999) – vincitore di cinque premi Oscar tra cui miglior film e miglior regia – il regista britannico si è cimentato in svariati generi dimostrandosi particolarmente versatile, passando dal gangster (Era mio Padre, 2002) al drammatico-sentimentale (Revolutionary Road, 2008), dalla commedia (American Life, 2009) allo spionaggio, dirigendo Skyfall (2012) e Spectre (2015) della serie di James Bond. In 1917 decide di tornare al genere bellico mostrando gli orrori della prima guerra mondiale, genere già affrontato in Jarhead (2005) ambientato durante la prima guerra del golfo, e sceglie di farlo girando lunghissimi piani-sequenza montati poi assieme in modo artificioso creando l’illusione di un’unica inquadratura. E l’illusione cinematografica è quella che ci troviamo effettivamente davanti, un risultato stridente se pensiamo che la tecnica di ripresa adottata dovrebbe esaltare e intensificare «un effetto di reale» – usando ancora le parole di Bernardi – non mitigarlo. Mendes gira un piano-sequenza snaturato, che invece di gettarci dentro la realtà della prima guerra mondiale sembra edulcorarla. Questo sicuramente è dettato anche da alcune scelte narrative che risultano in antinomia con il concetto stesso di realtà, in assoluto la scena finale dove il soldato determinato a consegnare il messaggio a Mackenzie esce dalla trincea durante il bombardamento, un’azione di eroismo sfrenato che appare antitetica e persino un po’ stucchevole se si pensa alla ricerca di realismo che il regista tenta di infondere al film. La corsa del soldato viene filmata con un movimento a precedere che partendo lentamente acquista velocità con l’avanzata del protagonista che tra terra, polvere, esplosioni e corpi inerti, riesce a portare a termine la sua missione accompagnato trionfalmente dalla colonna sonora tesa ad esaltare il suo poco credibile eroismo.
 

La regia di Mendes è ineccepibile, ma la scelta di girare in piano sequenza non riesce a sopperire ad aritmie e cali di tensione che con l’utilizzo del montaggio (elemento stilistico tipico del genere) sarebbero stati evitabili


Mendes accetta la sfida di girare un film di guerra in un’unica inquadratura – con un impressionante sforzo produttivo, fotografico e scenografico raccontato nel backstage –, tenta di filmare una storia con una tecnica che dovrebbe avvicinarsi alla realtà non riuscendo però a sopperire ad aritmie e cali di tensione narrativi che con l’utilizzo del montaggio (elemento stilistico tipico del genere) sarebbero stati tranquillamente evitabili. La sua regia è tecnicamente ineccepibile, ma il risultato finale è sbavato e trasforma quello che sarebbe potuto diventare il suo capolavoro in un film dove l’ossessione di girare con inquadrature sempre più lunghe (ormai la moda di Hollywood) ha sminuito e svalutato l’intera opera. In molti casi recenti questo ricorso al piano-sequenza suona solo come un eccesso di stile dettato dal desiderio di essere riconoscibili a tutti costi, attitudine che invece finisce per trasformare l’unicità di uno sguardo in un linguaggio comune (se invertissimo i nomi delle regie di 1917 e di The Revenant, per esempio, chi potrebbe davvero distinguere i registi tra loro?). Insomma nel cinema di oggi sono sempre più i registi disposti ad adottare tecniche poco compatibili con le esigenze narrative dei propri film: affascinanti dal punto di vista stilistico, ma che finiscono costantemente per preporre l’aspetto estetico a quello poetico.

 

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