Volta la carta

Ciò che sta dietro l’illusione di ogni rivoluzione

Non è raro, anzi tutt’altro, il prestare ascolto agli sproloqui giovanili riguardo la cosiddetta ‘involuzione sociale’ a cui globalmente stiamo assistendo nell’ultimo decennio: una metamorfosi attiva le cui plurime cause vengono identificate negli avvenimenti più disparati, come ad esempio il rapporto di proporzionalità inversa che questo problema sembra avere con il progresso tecnologico, o il conformismo dovuto alla massificazione culturale; a dire il vero è arduo, direi quasi impossibile, riuscire ad identificare il nucleo o i nuclei concatenati che scatenano questo fenomeno, sempre più frequente tra i giovanissimi.
Una prima analisi introduttiva al fulcro della questione ci porta a riflettere sul piano dettato da un termine che, specialmente in questo periodo, viene abusato oltre il lessicalmente consentito; insomma, è innegabile che la «crisi» sia sulla bocca di tutti.
Il fatto è che il vocabolo viene leggermente distorto grazie alla falsata percezione che ne abbiamo oggi: si crede che una crisi sia un momento di default che implica una difficoltosa e lunga ripresa, ma non è esattamente così; la krìsis greca, che si avvicina molto di più al concetto che il lemma nasconde, non è altro invece che un momento di «confronto», di «valutazione» e solo successivamente di «giudizio». La crisi diventa così il fulcro, lo snodo decisivo di ogni attimo temporale in cui è obbligatorio fare una sorta di «backup del sistema», e non formattarlo completamente (l’analogia informatica qui si è resa necessaria); e il termine che, con accezione positiva, dovrebbe smuovere le acque stagnanti del presente, viene accolto dai più come presagio nefasto di cambiamento in negativo.

Eppure la storia sembra insegnarci che proprio a partire dai momenti di difficoltà si scatenano solitamente le forze sopite nella mente del gregge umano e, creando scompiglio, arrivano a ribaltare situazioni sfavorevoli in scenari totalmente differenti in cui far spazio a nuovi orizzonti; momenti di decadimento e decadenza verificatisi all’inizio di un nuovo secolo, o al centro di periodi di bonaccia infra-secolari, non sono altro che il respiro profondo prima di un tuffo verso l’ignoto, una delle ultime grandi paure dell’uomo moderno.
Nella mente dei più serpeggia in questi frangenti il sentore della parola «rivoluzione», un concetto ampio e travisabile, nonché effettivamente travisato da coloro che ne parlano come la soluzione al dilemma della staticità di questo XXI secolo.
È innegabile che una rivoluzione in senso lato abbia lo scopo di «rovesciare» o «sconvolgere» etimologicamente un dato periodo storico, fazione politica, egemonia sociale o economica, come del resto accade ed è accaduto nel momento in cui le favorevoli condizioni storiche provocano una reazione dinamica prima nell’opinione pubblica e, repentinamente, nella popolazione stessa che «si rivolta» e «rivolge» la stessa struttura sociale con ogni mezzo a disposizione, sia esso violento o non. Ciò che viene trascurato in effetti non è tanto l’impatto che una rivoluzione, un cambiamento, una mutazione può avere a breve termine sulle fondamenta della società, quanto l’implicazione nascosta all’interno del concetto stesso che viene operato.

La parola rivoluzione è usata, oltre che nella sua particolare accezione nel contesto di cui ci siamo serviti fino a questo punto, anche in astronomia, per identificare quell’atto dei corpi celesti che sono caratterizzati da un moto rotatorio periodico compiuto sul proprio asse: in un certo senso è il pianeta, il satellite, che si «rivolta» su se stesso. Il movimento così generato dalla forza di gravitazione universale è impercettibile a coloro che sono inseriti nel sistema del movimento stesso, ma il cambiamento avviene comunque e, passato il tempo necessario, se non fosse per la retroattività del moto di rotazione attorno al Sole, i pianeti si ritroverebbero ciclicamente nella stessa identica posizione da cui erano partiti all’inizio della propria rivoluzione.
Prendendo ad esempio questo concetto, è innegabile e spontaneo il collegamento con la ‘rivoluzione’ per cui l’abbiamo intesa nel suo significato socio-storico: un attimo di rivolta, un accenno di cambiamento, ma inevitabilmente, dopo l’appianamento dei contrasti, la situazione cambia per rimanere in realtà uguale a come era stata lasciata in precedenza.
La rivoluzione non ha quindi lo scopo di sconvolgere e divenire la causa prima del mutamento politico: ha solo il compito di smuovere l’animo fiacco di coloro che troppo a lungo si sono lasciati sballottare dalla corrente per inerzia, senza voler prendere parte alla vita comune; è la miccia che esplode, ma più che a distruggere per poi ricostruire serve solo a fare più baccano del dovuto.

Ma dov’è il cambiamento, se in futuro la situazione tornerà inevitabilmente ad uno scenario precedente? Il cambiamento esterno è apparente, o temporaneo, ma quello che conta è ciò che si trasforma all’interno dell’animo umano, che al contrario delle situazioni non ruota su sé stesso, ma si muove vorticosamente a spirale, rispettando una regolarità (siamo esseri abitudinari dopotutto), ma riuscendo a procedere in avanti nonostante le illusioni ottiche provocate dalle ambiguità presenti in ogni circostanza, favorevole o meno.
Non è questa una negazione della metamorfosi intrinseca che in modo continuo avviene all’interno della società umana, anzi, è coerente con una concezione ciclica della temporalità di cui il mondo occidentale ha bisogno per distaccarsi dalla staticità della linearità; non vuole nemmeno essere una condanna della rivoluzione in sé, poiché la necessità di un dinamismo interno alla società è sempre stata presente, anche se sporcata da ideali inconsapevoli della realtà semantica dei fatti.
 


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