Lo sguardo al flâneur

Baudelaire e il mondo fuori dalla finestra

A quella che si vede apparire
per un secondo alla finestra
E che, rapida, scompare via,
Però la sua sagoma snella
è tanto graziosa e sottile
da rimanere rasserenato...
Antoine Pol

Una finestra si frappone fra osservatore e osservato. L’osservatore può vedere, guardare, o osservare. Una finestra che si affaccia sulla strada, sulla vita nella sua assordante quotidianità. Una finestra come un palchetto che guarda sul palcoscenico. Lo spettatore si sente estraneo alla scena e matura le sue considerazioni in virtù della distanza dall’ambiente dove vede svolgersi la quotidianità. I passanti recitano la loro parte e offrono la possibilità di affacciarsi sulla loro vita, si lasciano guardare, lasciano ascoltare frammenti di conversazioni, squarci di pensieri, poi se ne vanno, spariscono dietro l’angolo della strada, escono dalla visuale ed entrano nella memoria. Sembrano appartenere ad un piano diverso della realtà, è raro l’incrocio di sguardi e, nel rituale, è qualcosa di profondamente sbagliato, la violazione di un’intimità che ha il diritto di rimanere tale, una profanazione. Nella stanza che si apre al mondo grazie alla finestra, l’osservatore si sente al sicuro, lontano dallo scorrere appiccicoso e continuo della gente e del tempo, da lassù gli è impossibile essere travolto dal flusso, si è messo al riparo dall’atomismo della città. Eppure guardando si confonde e quasi si perde nel pensiero, si trova come smarrito in se stesso. Guarda ma non riesce a vedere.

Non è la possibilità di vedere dall’alto la strada e le persone, ma l’ostacolo alla vista, l’esperienza del limite, a portare oltre il pensiero. È la siepe che “il guardo esclude” a legare ragione e immaginazione nella rappresentazione poetica. Annota infatti Leopardi nello Zibaldone: «L’anima immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario». Nel momento in cui lo spettatore vede e diviene conscio del fatto di non poter partecipare, iniziano a coesistere ragione ed immaginazione; lo sguardo del reale si fonde con uno sguardo interno rivolto all’esperienza e alla memoria. Da questa somma nasce qualcosa di diverso, una produzione di immagini che non sono presenti se non nella mente dello spettatore, infinite possibilità di dialoghi e gesti, oltre i limiti del concreto, nel regno della percezione sensoriale e dell’invocazione poetica. Il rapido circoscriversi e svanire dell’esistenza dei passanti conferisce loro un’inconsistenza simile a quella dei personaggi immaginari di una rappresentazione, dai caratteri prevedibili, i contorni chiari ed una sola faccia. La loro esistenza è limitata al tempo scenico, il primo atto sulla strada, il secondo atto nella mente. I passanti inconsapevoli, distratti, che improvvisano commedie e balletti, che si accordano e si armonizzano fra loro imitandosi l’un l’altro, seguono un rituale noto, cercando un registro comune, e sotto il significato enunciativo ed esplicito dei loro discorsi s’intuisce una nota sotterranea, che si muove sotto le parole, che nasce dal primo saluto e muore con l’ultimo e danza come loro nel loro muoversi insieme.

Qualcuno di loro però potrebbe non essere un passante come gli altri, completamente a bagno nel caos frenetico. Qualcuno di loro potrebbe essere un flâneur, anch’egli un osservatore che guarda attorno a sé anonimo e silenzioso, che si mescola al flusso ma allo stesso tempo se ne astrae, alla ricerca di niente di preciso se non di quello che attira la sua attenzione, per iniziare l’atto creativo di immaginare lasciando liberi i pensieri di muoversi nel tempo e nello spazio. Diventa a sua volta soggetto osservato anche se si sente osservante. «La folla è il suo regno, come l’aria è il regno degli uccelli, e l’acqua è quello dei pesci. La sua passione e professione è sposare la folla. Per il perfetto flâneur, per l’osservatore appassionato, è causa d’immenso godimento prendere dimora nel numero, in ciò che fluttua e si muove, è fuggitivo o infinito. Essere fuori casa e sentirsi dappertutto a casa propria; vedere il mondo, esserne al centro e rimanergli nascosto: ecco alcuni dei più comuni piaceri di questi spiriti indipendenti, appassionati, imparziali, che la lingua fatica a definire», scrive Charles Baudelaire ne Il pittore della vita moderna. La differenza fra il flâneur e chi guarda dalla finestra è proprio nel tempo dell’immaginazione che manca al primo. Il confine fisico al quale la finestra costringe diventa nel tempo dell’immaginazione il punto di partenza: all’occlusione dello sguardo naturale corrisponde l’apertura dello sguardo interiore. La classificazione dei passanti come fossero personaggi avviene per mezzo della memoria. Si tratta di una relazione ambigua fra due termini: ragione e immaginazione. Il tempo della ragione si fa rappresentazione che, una volta conclusa, dà il via ad uno sguardo rivolto verso l’interno dove ciò che si crea attinge la propria autenticità dalla memoria. La riflessione porta l’io verso la proiezione fantastica al limite del proprio essere per tornare di qui al presente, trasformato così in ricordo. Tutto quello che appartiene all’esperienza è memoria, e così anche il presente. Con la memoria si compie l’atto creativo dell’immaginazione, che è costruzione ordinata di frammenti scomposti del vissuto o del conosciuto.

Grazie alla finestra i suoni assordanti della strada diventano ovattati, la città può essere vista così da una certa altezza e distanza e i ritmi che si sovrappongono visti nello stesso istante, e nello stesso istante immaginati e giudicati. «Chiusa e in posizione soprelevate la finestra offre vedute che sono più che spettacolari. Prospettive che sono prolungate nella mente in modo tale che le implicazioni di codesto spettacolo portino con sé le relative spiegazioni […] sono implicate opacità e orizzonti, ostacoli e prospettive che si complicano, si sovrappongono fino al punto di permettere all’ignoto, alla città gigante, di essere percepito o indovinato», scrive Lefebvre. La “città gigante” si agita sotto la finestra, si mostra e coinvolge cose e persone. In altri momenti si riposa, e dalla finestra entra il silenzio. Allora lo sguardo si ferma sulle cose, sui riflessi di luce, su altre finestre, ingressi di mondi altri e ancora più chiusi e lontani, nascosti, più intimi e veri. Poi, qualcosa strappa l’osservatore alla strada, una realtà concreta ma superficiale interrompe i pensieri e bruscamente lo spinge indietro, di nuovo verso il suo flusso personale, con la sua storia lasciata a metà sul bordo del davanzale.

 


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