L’Arminuta di Giuseppe Bonito

con Sofia Fiore, Carlotta De Leonardis, Vanessa Scalera, Fabrizio Ferracane, Andrea Fuorto, Elena Lietti

A quattro anni dall’uscita dell’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, premio Campiello 2017, e a pochi mesi dall’uscita dal seguito Borgo Sud candidato al Premio Strega 2021, esce in sala l’adattamento cinematografico per la regia di Giuseppe Bonito. All’opera terza dopo Pulce non c’è e il brillante Figli, preso in consegna dopo la scomparsa di Mattia Torre – David di Donatello per la miglior sceneggiatura originale per il film, nonché co-autore della serie cult Boris – Bonito mette in scena l’Abruzzo rurale raccontato da Di Pietrantonio con una direzione sobria e con calibrate e affascinanti intuizioni visive, pur mantenendo fedeltà al testo di partenza.
A causa di una situazione familiare poco chiara – forse una malattia della madre adottiva – una ragazza adolescente (S. Fiore) è costretta, accompagnata dal padre, ad un trasloco forzato in campagna dalla sua vera madre (V. Scalera), da sempre creduta semplicemente una zia. Così, negli spazi della casa rurale della sua famiglia originaria, l’Arminuta – la ritornata, in dialetto abruzzese – deve convivere con nuovi fratelli, con un padre chiuso e violento e con una quotidianità lontana dagli agi e dalla tranquillità economica della vita borghese a cui era stata da sempre abituata. L’unico conforto sono il fratello maggiore Vincenzo (A. Fuorto), che si invaghisce subito della ragazza e la protegge, e la buffa sorella acquisita Adriana (C. De Leonardis), con cui si trova a condividere il letto e che la introduce alla vita di campagna con l’entusiasmo infantile di chi ha trovato una nuova sorella. L’incapacità di adattarsi alla nuova situazione e di capire le ragioni della lontananza dalla madre con cui è cresciuta, una madre che si manifesta soltanto con buste piene di contanti spedite da chissà dove, frustrano però la ragazza tanto da portarla verso il punto di rottura.

Scritto dalla co-sceneggiatrice de I cento passi e dell’esordio di Giuseppe Bonito Pulce non c’è Monica Zapelli insieme all’autrice del romanzo, L’Arminuta muove dal testo di Donatella Di Pietrantonio per dare vita ad un luogo cinematografico autonomo, che immagina la storia in un Abruzzo affascinante trovato nelle terre della campagna laziale. L’universo dell’Arminuta è sospeso, distante, e contribuiscono a plasmarlo l’elegante fotografia di Alfredo Betrò (Copperman) e le sobrie scenografie di Marcello Di Carlo (Notizie dagli scavi, La mafia uccide solo d’estate), che fanno della povertà e dell’essenzialità degli ambienti il loro punto di forza. In questo contesto brullo, circondata da parenti e coetanei sempre vestiti di scuro, l’Arminuta spicca nei suoi abiti celesti, rossi, floreali invadendo con un lampo di colore la cinerea atmosfera di campagna. I costumi di Fiorenza Cipollone (Boris – Il film, Pulce non c’è, L’Universale) amplificano cromaticamente il distacco tra le due realtà, sottolineandone il presente mesto e incolore. Non è casuale che il film torni alla vita precedente della protagonista con variopinti flashback, fatti di colori saturi, in cui la macchina da presa sembra fluttuare come il suono delle onde del mare nelle orecchio dell’Arminuta, restituendo «la quota più alta di una specie di felicità» che Donatella Di Pietrantonio descrive nelle pagine del romanzo.
 

L’Arminuta spicca nei suoi abiti celesti, rossi, floreali invadendo con un lampo di colore la cinerea atmosfera di campagna


Come scriveva Selene Mattei su queste pagine parlando del libro della scrittrice abruzzese, L’Arminuta è «la storia di persone semplici, che vivono in uno spazio e in un tempo preciso, dentro una dimensione separata dalla sequenza di eventi più grandi. È da quel punto specifico che noi sperimentiamo il mondo, l’intensità dell’esistenza che passa attraverso lo scorrere del quotidiano». Un quotidiano fatto di eventi semplici, ma non per questo meno forti. Sono questi i momenti in cui Bonito ci fa sentire il suo sguardo, che sia nella fissità di un lungo e crudo piano sequenza – il pranzo a tavola in cui il padre colpisce a cinghiate il figlio maggiore raccontata da un unico punto macchina – o nel poetico dinamismo di una corsa in moto interrotta bruscamente da un incidente, dove un attimo di pienezza incorniciato dalle dolci linee delle montagne viene immediatamente spezzato dalla tragedia.

Eppure, L’Arminuta ha il sapore di un film irrisolto, indeciso tra le tante anime che lo compongono: il dramma familiare, la storia di formazione, la critica socio-economica. Da un lato la sofferenza dell’Arminuta, personaggio senza nome, ignara della vera ragione dell’abbandono della madre adottiva e in perenne conflitto con la madre biologica; da un altro la sua crescita, tra il percorso scolastico con il rifugio intimo della scrittura, l’identità trovata nella ribellione alla madre e le prime attenzioni di Vincenzo; da un altro ancora le differenze dell’Italia post boom economico, a metà anni Settanta, con l’impietoso confronto tra la ricchezza della città e della provincia borghese e la povertà delle campagne. Parlando dell’approccio al film, il regista Giuseppe Bonito ha parlato di come «la regia sia la facoltà straordinaria di accedere alle vite sospese nell’attimo in cui le si racconta, la possibilità di poterle osservare, esplorare, approfondire, senza giudicare mai», il che è certamente vero, ma in questo caso l’impressione è che la completa assenza di giudizio si risolva nella mancanza di un punto di vista forte, forse necessario in una vicenda complessa e colma di stratificazioni.
 

L’Arminuta ha il sapore di un film irrisolto, indeciso tra le tante anime che lo compongono: il dramma familiare, la storia di formazione, la critica socio-economica


La sua protagonista, Sofia Fiore, incarna in sé stessa tutta questa complessità risultando a volte delicata altre monocorde, soffrendo l’indecisione del film nel delineare la battaglia che deve affrontare e soffocando chi guarda, imprigionato nei silenzi di incomunicabilità della famiglia tradizionale e in quelli di una verità, quella sull’abbandono della ragazza, che sembra non potersi mai rivelare. Il grido dell’Arminuta, quando decide di affrontare il mondo adulto per metterlo di fronte alle sue colpe, è anche quello dello spettatore che per gran parte del film ha agognato, chiamato questa ribellione; non basta alzare la voce, come fa nel primo litigio con la madre biologica, serve gridare forte a pugni chiusi fino a finirsi la voce, fino a distorcerla, in faccia all’ex vicina di casa che non vuole dirle dov’è la sua madre adottiva. In un momento così doloroso le parole del romanzo rivivono puntuali nelle immagini di Bonito, tanto che l’incontro tra madre e figlia raccontato nel libro sembra quasi una didascalia delle immagini che vediamo sul grande schermo: «Il suo sguardo quando mi ha vista è uno dei ricordi più vivi che conservo di lei e il più dannoso, probabilmente. Aveva gli occhi di chi era presa in trappola e non trovava scampo, quasi fosse riemerso un fantasma a perseguitarla da un tempo sepolto. Ero io, poco più di una bambina, e i bambini non fanno paura».

 

Più che delle situazioni familiari e del conflitto con le madri, però, il film vive del rapporto tra l’Arminuta e Adriana, alimentato dall’acceso contrasto tra l’interpretazione trattenuta e composta di Sofia Fiore e quella ribelle e esuberante di Carlotta De Leonardis. Due sorelle che dormono al contrario nello stesso piccolo letto, «la coccia di una vicino ai piedi dell’altra», che si trovano nonostante una delle due tenti di fuggire. Sono loro le sequenze più intense, quelle che restano impresse nella mente degli spettatori, sono loro i personaggi forti dell’universo narrativo immaginato da Bonito: l’Arminuta che è più matura della madre naturale, di cui affronta a viso aperto la reticenza, Adriana che è più materna della madre adottiva, per la naturalezza con cui prende in braccio un bimbo non suo. Di questo affetto profondo, di questo amore taciuto, il film si riempie: nel calore di un letto condiviso, nel divertimento di una giornata al mare, nella crudele onestà con cui Adriana rivela alla sorella la verità di una madre che l’ha adottata credendosi sterile e l’ha abbandonata appena ha scoperto il contrario, nell’abbraccio di due bambine nelle gelide e vuote strade d’inverno.
 

L’Arminuta è più matura della madre naturale, di cui affronta a viso aperto la reticenza, Adriana è più materna della madre adottiva, per la naturalezza con cui prende in braccio un bimbo non suo


Da Adriana, l’Arminuta, da sempre figlia unica, impara la condivisione, il ritmo lento della vita nelle quattro mura di casa, le gioie rubate del gioco – la sera con lei e Vincenzo alle giostre, dove per la prima volta capisce cosa significa divertirsi e stare insieme, alzarsi in volo senza sentire la gravità e la staticità della compagnia borghese, rappresentata dalla figlia di una ex vicina di casa con cui condivide a malapena un succo d’arancia. Ad Adriana, l’Arminuta insegna invece l’orizzonte. Le insegna a guardare lontano, oltre i confini della vita che conosce, ad affrontare le proprie paure. Lì, sul limite del mare, l’Arminuta e Adriana sanciscono un’unione che è il cuore del film, un’unione suggellata da un ultimo bagno insieme che battezza il futuro comune, che consacra, su un litorale solitario, la forza della sorellanza.

 

«Sto scrivendo un racconto»
«Di che parla?»
«Di un alieno»
«Di chi?»
«Di uno come me»

ITA 2021 – Dramm. 110’ ★★½


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