Bardo di Alejandro G. Iñárritu

con Daniel Giménez Cacho, Griselda Siciliani, Ximena Lamadrid, Íker Sánchez Solano, Francisco Rubio

Il vento soffia pungente su una distesa desertica, sospingendo l’ombra di un uomo che pare in fuga. Il sole la staglia sui pochi ciuffi di vegetazione spenta e a tratti i passi si sollevano da terra spiccando il volo, un volo liberatorio ma precario, forse illusorio, un volo a mezz’aria tra la terra e il cielo. Il quadro che apre Bardo – La cronaca falsa di alcune verità di Alejandro G. Iñárritu è una finestra che si apre sul mondo onirico di Silverio Gama (D. Giménez Cacho), celebrato giornalista e documentarista messicano trasferitosi ormai da tempo a Los Angeles, che si ritrova a dover tornare nel suo Paese con la famiglia per ricevere un importante premio internazionale. Ben oltre la prestigiosa vetrina che lo attende, però, deve affrontare un complesso viaggio interiore tra paure e demoni che mescolano passato e presente, costretto a fare i conti con la crisi identitaria di un uomo perennemente sospeso tra Messico e Stati Uniti, un «migrante di prima classe» – come si definisce – che soffre sottopelle la precarietà di una non-nazionalità e del suo successo, percepito come il suo più grande fallimento. Nell’ombra, vive silente il dolore mai del tutto elaborato della perdita del figlio Mateo avuto con la compagna Lucia (G. Siciliani), morto poco dopo essere venuto alla luce, un dolore che Silverio esorcizza costruendo nei suoi ricordi l’assurda immagine di una piccola creatura che consapevole della malvagità del mondo decide di rientrare nel grembo materno.

«Questo film, a differenza degli altri, non è stato fatto con la testa ma con tutto il mio cuore». È con questa dichiarazione che Iñárritu rompe idealmente un silenzio lungo sette anni, gli anni che lo separano dalla sua precedente fatica cinematografica Revenant – Redivivo (2015) che nel 2016 strappava 3 Oscar su 12 nomination, tra cui quello al miglior attore protagonista per Leonardo DiCaprio. In un sottile filo di coincidenze Bardo – opera che segna il “ritorno a casa” di Iñárritu dopo le parentesi hollywoodiane, portando sul grande schermo l’epico viaggio dell’alter-ego Silverio Gama, protagonista del film che come lui vive l’impasse di essere «troppo messicano per essere americano» e viceversa – viene presentato alla 79ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il 1° settembre, a ventuno anni esatti dal trasferimento di Iñárritu negli Stati Uniti. Non si può non pensare allora a quanto accadeva proprio a Venezia pochi anni prima, quando il conterraneo Alfonso Cuarón vinceva il Leone d’Oro nel giorno del compleanno di “Libo”, Liboria Rodríguez, la domestica della sua infanzia a cui l’opera a larghe tinte autobiografiche Roma (2018) era ispirata e fu dedicata nel corso della premiazione con «immenso amore», un’opera che anche in quel caso segnava il “ritorno a casa” intimo e nostalgico di un regista messicano. Il parallelismo e il filo di coincidenze tra le due pellicole proseguono anche lungo le reciproche e dichiarate atmosfere felliniane, che se in Cuarón trasparivano con misura e garbo pur su di un impianto maestoso, nell’opera di Iñárritu irrompono in maniera esplicita e debordante, confacendosi all’estetica imperiosa che contraddistingue il suo cinema più recente; una giostra visiva drammatica e potente che, come già accadeva in Birdman, apre senza freni a vorticose evoluzioni della macchina da presa che raccontano il mondo frastagliato di un artista in crisi. Ed è così che per molti Bardo si trasforma subito nell’8 ½ del regista messicano.
 

Le atmosfere felliniane che in Roma di Cuarón trasparivano con misura e garbo pur su di un impianto maestoso, nell’opera di Iñárritu irrompono in maniera esplicita e debordante


L’universo filmico e simbolico che Iñárritu costruisce va però al di là del semplicistico parallelo felliniano. Il regista messicano, a specchio della sua personale condizione di abitante-ospite di una terra di mezzo, mette in scena un “bardo”, un limbo la cui matrice linguistica va intercettata nel Libro tibetano dei morti in cui con questo termine si fa riferimento al fitto reticolo di esperienze di uno «stato intermedio» fra sonno e veglia, morte e rinascita. Questa condizione di provvisorietà è insita nel delicato processo che conduce da una dimensione a un’altra perché, ben oltre la morte fisica, l’energia che possediamo in quanto esseri umani ha, secondo il Libro, le caratteristiche spirituali dell’eternità. Facendo leva sulla corporalità del suo smarrimento, il regista messicano usa allora la sua arte, il cinema, come strumento di indagine della sua crisi, quell’arte che ha anch’essa le caratteristiche spirituali dell’eternità e che, come il Libro tibetano dei morti, libera dall’opprimente condizione dello stato intermedio chiunque sia disposto a riceverne le cure, chiunque sia disposto ad affrontare e comprendere in profondità le origini del proprio male per rinascere dalle sue ceneri.

Alejandro G. Iñárritu dirige Daniel Giménez Cacho nella parte del protagonista Silverio Gama sul set di Bardo 

 


Alejandro G. Iñárritu, alias Silverio Gama, è dunque il cantore del suo smarrimento – insistendo sui diversi contesti etimologici del termine bardo, qui con riferimento all’origine celtica del significato di antico poeta cantore – e la sua operazione cinematografica è in gran parte linguistica, in un tesissimo dialogo con se stesso che investe il mondo, i personaggi, i ricordi del passato e il presente, il suo pubblico, un dialogo in cui parola e lingua si scontrano e destrutturano di continuo. La voce di Silverio scandisce infatti la narrazione del film ponendosi come filtro attraverso cui accedere a una dimensione intima e personale che plasma il mondo al di fuori di lui. Il suo vagare introspettivo accende e spegne di continuo i canali della sua attenzione rivolta a cose e persone, conferendogli talvolta anche il dono della simultaneità, come accade nelle splendide sequenze della festa per la proiezione del suo documentario. Iñárritu sceglie di inanellare uno dopo l’altro momenti di totale isolamento, dal frenetico ballo in cui Silverio sente solo ed esclusivamente un asciutto cantato di Let’s Dance di David Bowie, senza alcun accompagnamento strumentale, fino al forte scontro verbale con l’amico Luis (F. Rubio), suo acerrimo accusatore che a un certo punto inizia a urlargli addosso generando un improvviso disperdersi sonoro delle parole, segno del deliberato rifiuto di Silverio di ascoltarle. Il picco è poi raggiunto dall’inaspettato dialogo con la madre, che l’uomo incontra attraversando un corridoio metafisico che dalla festa lo conduce direttamente in casa dell’anziana signora; d’un tratto, il tenero confronto fra i due si trasforma e la voce di Silverio comincia a riverberarsi nell’aria senza che la bocca si schiuda, muta come un pesce: «figliolo, parla con la bocca, mi fai impazzire», gli dice la donna spazientita.
 

Bardo è un film malinconico e divertente, che riflette con umorismo su cose esistite e poi scomparse, su fatti forse mai successi ma che sarebbero potuti accadere


Il flusso di coscienza di Bardo è irrefrenabile e con il sottotitolo La cronaca falsa di alcune verità Iñárritu dichiara apertamente – in primis forse anche a se stesso – che si muoverà al confine della menzogna, un concetto di per sé fondante tanto del cinema, che per sua natura plasma il reale superandolo, tanto della dimensione onirica in cui si compie il viaggio interiore di Silverio Gama. Tutto questo si trasforma in un film malinconico e divertente, che riflette con umorismo su cose esistite e poi scomparse, su fatti forse mai successi ma che sarebbero potuti accadere. In questa menzogna scivolosissima sembra però rimanere invischiato lo stesso regista, che sovraffolla il suo racconto di simboli e richiami, in bilico tra intima poesia e ironia politica, libertà espressiva e sfarzo barocco, trionfante autocompiacimento e senso di colpa. Del resto, nel calderone delle controversie della storia tra Stati Uniti e Messico, colonizzatori e colonizzati, è lui stesso a sentirsi sia vittima che artefice, di certo a partire dalla sua deliberata adesione allo star system hollywoodiano e a una vita da americano, da gringo – come i detrattori accusano Silverio nel film. «Avevamo grandi progetti, pensavamo di starci un anno e invece ne sono passati ventuno: è questo che ha dato origine al film. Quando lasci il tuo Paese c’è qualcosa della tua terra che ti rincorre ogni giorno», afferma il regista ricordando il suo trasferimento negli States.

Pur perdendosi nel barocchismo che investe alcune scene del film – dalla grande piramide di cadaveri ispirati ai desaparecidos farcita da rimandi al poeta messicano Octavio Paz e dall’azzardato dialogo con Hernán Cortés, condottiero spagnolo che conquistò il Messico distruggendo l’antico impero azteco, alla grande fuga dei migranti al confine tra Messico e Stati Uniti che autocita il suo precedente lavoro in realtà virtuale Carne Y Arena –, la potenza visiva dello sguardo di Iñárritu rimane limpidissima. Di straordinario impatto concettuale, per esempio, è il modo in cui il regista riesce a raccontare ironicamente la storia messicana mettendo in scena la parodia di battaglie in cui sono gli stessi messicani a vestire i panni degli americani con parrucche posticce bionde; una scelta che nelle intenzioni sembra un gioco a parti invertite che scimmiotta il cinema bianco manicheo incarnato da film come Nascita di una nazione di David W. Griffith – un capolavoro indiscusso del cinema muto che esaltava il mito della fondazione degli Stati Uniti con una chiara matrice ideologica e razzista, individuando nella Guerra di Secessione l’evento edificante della nazione americana – in cui tutti i personaggi neri o mulatti erano interpretati da attori bianchi col viso dipinto.
 

La dimensione onirica scelta dal film è forse la più consona per esplorare il senso di tumulto e dislocazione di identità fratturata condiviso da Iñárritu e dal suo protagonista Silverio


La totale e cristallina libertà esplorativa di Iñárritu è dunque al contempo virtù e vizio del suo Bardo, un costante conflitto che sembra racchiudersi in una battuta dell’intenso dialogo in cui Luis accusa duramente Silverio sostenendo che l’onirico sia una sorta di confortevole pretesto per mascherare la sua mediocrità. Fatto sta che quella stessa dimensione onirica, seppur rischiosa e piena di insidie, è forse la più consona per esplorare il senso di tumulto e dislocazione di identità fratturata condiviso da Iñárritu e dal suo protagonista Silverio – un intenso Daniel Giménez Cacho a cui, coerentemente alla struttura frastagliata del film, è stata lasciata la più libera improvvisazione interpretativa. «Quando lasci un Paese, tutto ciò che guadagni e tutto ciò che perdi finisce in un posto strano. Fare i conti con tutto questo e fare questo film sono stati per me una necessità che condivido con milioni di immigrati», afferma lo stesso regista in una delle presentazioni americane del film. Con Bardo il cinema di Iñárritu si fa volo liberatorio, strumento che plasma ancor più prepotentemente spazio e tempo per reinterpretare emotivamente la realtà e un personale ricordo, in altre parole per sognare e far sognare: «Luis Buñuel diceva che il cinema è un sogno diretto da qualcuno, i sogni non hanno tempo, i confini sono indecifrabili e per me il cinema è questo».

Dentro questo sogno, attraverso il quale il cineasta messicano traspone sul grande schermo il suo smarrimento, il senso del ritorno a casa si sfilaccia nell’immagine potentissima di un’abitazione allagata dispersa nella landa desolata, in cui Silverio si muove nell’acqua inseguendo dei pesci che guizzano via. Sembra una continua fuga a ritroso, in cerca delle proprie origini, della propria identità, del proprio senso nel mondo, ma che allo stesso tempo ha l’impeto di uno slancio vitale in avanti, pur nella strana terra di mezzo in cui sia Alejandro sia Silverio sono imprigionati. Questo slancio del film chiude il cerchio anche della faticosa elaborazione della perdita del piccolo Mateo, che preferiva rientrare nell’utero materno piuttosto che rimanere in un mondo troppo brutto per essere vissuto. Quel corpicino indifeso che non esiste più, ormai cremato, trova pace nel mare, e in una sequenza di puro cinema Silverio, Lucia e i due figli adolescenti lasciano finalmente le ceneri del bimbo alle acque dell’Oceano: a contemplazione del dolore e di ciò che resta eternamente sospeso fra morte e rinascita.
 

«Il Messico non è un Paese ma uno stato mentale»
MES 2022 – Dramm. 159’ ★★★½


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