Triangle of Sadness di Ruben Östlund

con Harris Dickinson, Charlbi Dean, Zlatko Buric, Woody Harrelson, Vicki Berlin, Dolly De Leon

A cinque anni dal successo internazionale del suo precedente The Square, che vinse la Palma d’Oro nel 2017, Ruben Östlund torna dietro la macchina da presa per mettere in scena una satira dissacrante su ricchezza e apparenza, disuguaglianza e privilegio. Triangle of Sadness, opera sesta del cineasta svedese, gli è valso a Cannes la seconda Palma d’Oro consecutiva, un primato raggiunto soltanto dal danese Billie August, con Pelle alla conquista del mondo (1987) e Con le migliori intenzioni (1992), e dall’austriaco Michael Haneke, con Il nastro bianco (2009) e Amour (2012).
Carl (H. Dickinson) e Yaya (C. Dean) sono una coppia consolidata nel mondo dell’alta moda e costruiscono la propria vita intorno al lavoro nelle sfilate e a quello da influencer, modellando la quotidianità intorno all’immagine da vendere al proprio pubblico e vivendo tra un battibecco e l’altro. Per promozione, vengono invitati a prendere parte ad una lussuosa crociera popolata da super ricchi tristi e grotteschi – imprenditori viziati, magnati russi, produttori di armi, mogli trofeo – serviti e riveriti da uno staff istruito a dire sempre di sì. I passeggeri che abitano le stanze della nave, guidata da un capitano assente e ubriacone (W. Harrelson), sono affidati alle cure dal primo ufficiale Paula (V. Berlin) che cura il loro benessere più di ogni altra cosa, ma la superficiale serenità della crociera è destinata presto a naufragare.

Strutturato in tre capitoli di crescente lunghezza – “Carl & Yaya”, “Lo Yacht”, “L’isola” –, Triangle of Sadness mostra le dinamiche grottesche della società dell’apparenza, dove le esperienze sono scambi commerciali e la bellezza merce da barattare in cambio di comodità e benessere. Al vertice della piramide di questo bizzarro presente, in cui uomini e donne diventano volti e corpi vuoti, trovano spazio personaggi incapaci di qualunque azione basilare per la propria sopravvivenza, che viene demandata a interi comparti della società (qui rappresentati dall’equipaggio della nave) che per loro guidano, puliscono, cucinano preoccupandosi letteralmente di evitare che muoiano di fame. Non è un caso che per rappresentarlo Östlund scelga il mondo della superficialità per eccellenza, l’alta moda, raccontandone tutte le contraddizioni fin dall’incipit e dal titolo, Triangle of Sadness. «È un termine utilizzato nell’industria cosmetica», dice il regista raccontandone la genesi nel booklet del film. «Un’amica ad una festa si è seduta accanto ad un chirurgo plastico e, dopo uno sguardo veloce al suo volto, lui le ha detto: “Ah, ha un triangolo della tristezza piuttosto profondo… ma posso sistemarglielo in 15 minuti con il Botox”. Si riferiva ad una ruga tra le sopracciglia. In svedese si chiama ‘ruga dei problemi’ e suggerisce che tu abbia dovuto faticare molto nella tua vita. Ho pensato che raccontasse qualcosa a proposito dell’ossessione della nostra epoca per la bellezza e per cui il benessere interiore è, sotto certi aspetti, secondario».
 

Triangle of Sadness mostra le dinamiche grottesche della società dell’apparenza, dove le esperienze sono scambi commerciali e la bellezza merce da barattare in cambio di comodità e benessere


Come nel film precedente di Östlund, la satira prende vita in una cornice estetica elegante e raffinata, che aderisce all’universo narrativo del film ma crea un contrasto stridente con il suo contenuto: da un lato la fotografia di Fredrik Wenzel dall’altro la scenografia di Josefin Åsberg, entrambi collaboratori del regista svedese per Forza maggiore (2014) e The Square (2017), contribuiscono a raccontare e rappresentarne il lusso sfrenato – trovato sui ponti della Christina O, fregata della marina canadese trasformata in uno yacht di lusso dall’armatore greco Aristotele Onassis, che lo dedicò alla figlia (la O del nome sta per Onassis). Lo yacht, che ospitò la compagna Maria Callas e la moglie Jacqueline Onassis ma anche incontri tra Churchill e Kennedy, Ranieri III di Monaco e Grace Kelly, Sinatra, Liz Taylor, John Wayne e tanti altri, è la rappresentazione perfetta del lusso senza freni e dell’opulenza, e l’ambiente azzeccato per la parte più riuscita del film: l’esaltazione vuota della ricchezza dei partecipanti alla crociera, tanto raffinati e composti, e la lunga (e estrema) notte di maremoto che li spoglia di tutte le apparenze riducendoli ad una massa terrorizzata tra fughe e pianti, vomito e escrementi. «È molto difficile rendersi conto di quanto hai spinto perché tu stesso ti abitui molto al materiale», ha raccontato Östlund sulle pagine del Los Angeles Times. «Per questo quando ero seduto in sala di montaggio dicevo “Questo è niente”, perché l’avevo visto centinaia di volte. E poi quando abbiamo fatto la prima proiezione del film mi sono reso conto: “Oh cazzo, forse ho esagerato”. Forse avrei dovuto essere un po’ più cauto. Forse sarebbe dovuto durare un po’ meno. Forse alla fine era eccessivo. Mi sono scusato con il pubblico, ma era troppo tardi per rimontare il film».

La seconda parte sullo yacht dà la possibilità alla scrittura di Östlund, anche sceneggiatore, di esprimersi in tutta la sua intelligenza, in tutta la sua forza e freschezza, nonché ad un cast in grande forma di dare il proprio meglio. Tutti i bizzarri e riuscitissimi partecipanti alla crociera, la compostezza di Vicki Berlin nella parte del primo ufficiale Paula, lo straordinario Zlatko Buric (indimenticato co-protagonista della trilogia di Pusher diretta da Nicolas Winding Refn) che interpreta il magnate russo con il mito di Ronald Reagan, il capitano marxista e ubriacone di Woody Harrelson che alla raffinatissima cena con i passeggeri mangia hamburger e patate fritte, la dinamica sentimentale surreale della coppia protagonista, il Carl di Harris Dickinson – di un’idiozia ammirevole – e la Yaya di Charlbi Dean, che sul grande schermo rischia la vita e che nella realtà la vita l’ha persa davvero, a causa di un malore improvviso nell’estate del 2022 che l’ha strappata al cinema poco dopo la vittoria del film al festival di Cannes. La narrazione esagerata e apocalittica del maremoto, gonfiata dall’opulenza altisonante delle musiche barocche, sembra sempre sul punto di esplodere, rovinando su se stessa, eppure la messinscena eccessiva – i rigurgiti sui tavoli, le tazze dei bagni che esplodono – rimane sempre in ammirevole equilibrio e raggiunge spassosi picchi satirici. Il capitano e l’oligarca che ubriachi si rilanciano citazioni comuniste e capitaliste, urlando ai ricchi passeggeri di pagare le tasse tramite l’interfono della nave e leggendo testi marxisti e poesie, i passeggeri che continuano a rialzarsi e cadere colpiti da oggetti o a scivolare su acqua e escrementi, le ricche anziane che vomitano nei cappelli e vengono trascinate in sottoveste tra water e pareti. La vetta la mattina successiva, quando la coppia di anziani fabbricanti d’armi esplode a causa di una bomba a mano di loro fabbricazione che arriva sul ponte della nave, che è scampata al naufragio ma non scampa all’assalto dei pirati e costringe i sopravvissuti sulla spiaggia di un’isola.
 

La narrazione esagerata e apocalittica del maremoto, gonfiata dall’opulenza altisonante delle musiche barocche, sembra sempre sul punto di esplodere, eppure la messinscena rimane sempre in ammirevole equilibrio


Nell’idea originale di Östlund, il naufragio sull’isola deserta rappresenterebbe la distruzione dei meccanismi sociali raccontati nei primi due capitoli: se nel primo capitolo si raccontano la bellezza come moneta e le dinamiche distorte del patriarcato e nel secondo l’oscenità della ricchezza e delle differenze sociali, il terzo capitolo costringe i personaggi a ricostruirsi in una struttura nuova, mostrando come i rapporti di potere possano ribaltarsi, in un matriarcato che si ripresenta però con la forma sociale diseguale della piramide. Per quanto interessante nella riflessione sulla funzione sociale della bellezza – Carl che in apertura di film rimprovera a Yaya la freddezza con cui la modella considera la relazione con lui come un rapporto commerciale e che non si fa scrupoli ad utilizzare poi la propria bellezza come merce di scambio per del cibo e per un trattamento di favore – Triangle of Sadness si arena sulla stessa spiaggia su cui relega i suoi naufraghi. Il terzo capitolo, a metà tra Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto e Parasite, stempera la forza dirompente e l’originalità del film soffocandone la satira grottesca in un discorso sociale già affrontato e indagato con maggiore brillantezza e profondità. Stupisce soprattutto, in un’opera dallo spunto tanto singolare, l’ingenuità nel non cercare la distanza da due pellicole così iconiche e di enorme successo internazionale come i film di Lina Wertmüller e di Bong Joon-ho – un classico del 1974 e un cult istantaneo del 2019 capace di vincere Palma d’Oro e Oscar – le cui influenze risuonano nel film di Östlund con tanta forza da diventare ridondanze, da renderlo quasi appendice di un discorso già affrontato.

Ruben Östlund, al centro, con il cast di Triangle of Sadness. Da sinitra Vicki Berlin (il primo ufficiale Paula), Henrik Dorsin (il programmatore Jorma Björkman), Zlatko Buric (il magnate russo Dimitrij), Charlbi Dean e Harris Dickinson (Yaya e Carl)

 

Nella stessa intervista al Los Angeles Times, Östlund parla così delle scelte narrative legate all’isola: «Voglio mettere i personaggi in un angolo», dice, «voglio metterli in un angolo e costringerli ad affrontare dei dilemmi: “Hai due opzioni, nessuna delle due è semplice. Come affronti la cosa?”». In un angolo però non mette soltanto i suoi personaggi, ma anche lo spettatore e se stesso, costringendosi in un ambiente immobile che non giova al film e lo costringe a dinamiche ripetitive: c’è il ribaltamento dei ruoli e delle posizioni sociali, con la Abigail di Dolly De Leon che da responsabile dei bagni si trasforma in una capobranco, e c’è il rapporto di forza e di gelosia del triangolo Abigail-Carl-Yaya che è uno spunto per parlare del sesso, delle relazioni femminili, dei rapporti di potere. Eppure c’è anche un’occasione mancata. 

 

In un angolo però non mette soltanto i suoi personaggi, ma anche lo spettatore e se stesso, costringendosi in un ambiente immobile che non giova al film e lo costringe a dinamiche ripetitive


C’è un film straordinario per puntualità, intelligenza e satira nella prima parte e nella seconda c’è un film statico, già visto e talmente pieno di linee tematiche da non trovare una direzione lineare. A parte alcune gag molto riuscite – il magnate che piange la morte della compagna sfilandole i gioielli, la vedova tedesca che parla urlando solo In der Wolken! – che però non aggiungono niente all’efficacia già dimostrata nella prima parte, Triangle of Sadness paga questa assenza di direzione, soffrendo l’indecisione narrativa e un finale debole. Resta però una certezza, oltre al rimpianto di quello che sarebbe potuto essere grande film: che Östlund sia uno dei pochissimi autori del panorama cinematografico internazionale ad affrontare a viso aperto le surreali contraddizioni del mondo contemporaneo, combattendole con la vitalità di una sana e corrosiva iconoclastia.
 

«Pagate le tasse!»
SVE-GER-FRA 2022 – Sat. 142’ ★★½


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