L’attrice che visse due volte | Intervista a Kim Novak

La vita dentro e fuori da Hollywood della stella di Hitchcock tra arte, bipolarismo e ricerca della felicità

Kim Novak si scusa per la confusione. A essere onesti, lo studio nella sua casa in Oregon è splendidamente disordinato. Dietro di lei ci sono un paio di quadri a cui sta lavorando; a destra e sinistra ogni tipo di cianfrusaglia. In fondo alla stanza il cane randagio che ha adottato, Patches, dorme con un occhio aperto, sdraiato sul divano. Di quando in quando, Sadie Ann, la pudelpointer di suo marito, fa un giro nella stanza, annusa e se ne va. 
Novak, che di recente ha compiuto 88 anni, è molto più di una leggenda hollywoodiana. La protagonista di La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock è un’artista strabiliante, un’attivista che si batte per il riconoscimento delle malattie mentali (Novak è orgogliosamente bipolare) e contro il bullismo, un’assistente veterinaria e una delle più straordinarie forze della natura con cui abbia mai parlato. Bob Malloy, il suo secondo marito, è morto da poco e lei cerca di andare avanti grazie alla pittura, tentando di lasciarsi alle spalle i toni blu della depressione come ha già fatto tante altre volte. Una decina d’anni fa, Novak ha rifiutato un milione di dollari per la sua autobiografia, ma ora ha pubblicato un meraviglioso libro con i suoi dipinti, dedicato al marito scomparso, accompagnandolo con qualche parola che fa solo cenno ai grandi eventi della sua vita, più che analizzarli a fondo. Ci sono dei ritratti delicati dei suoi genitori, dei tanti animali che ha aiutato e a cui ha dato rifugio (Malloy era un veterinario per cavalli), paesaggi vorticosi e surreali in cui le creature si mescolano con il cielo e alberi antropomorfi danzano coi loro rami. 
 

Una decina d’anni fa, Novak ha rifiutato un milione di dollari per la sua autobiografia, ma ora ha pubblicato un meraviglioso libro con i suoi dipinti, dedicato al marito scomparso


«La pittura è sempre stata accanto a me per salvarmi. Da quando Bob è morto, ho dipinto il suo ritratto così da poter comunicare con lui», racconta. La voce di Novak è più roca che mai. Si diceva che fosse il risultato di whisky e sigarette. Dice che erano tutte cazzate. «Non ho mai fumato sigarette. Sono terribili, non ti fanno stare bene. E non sono mai stata nemmeno una gran bevitrice. Fumavo erba, lo faccio ancora. Mi rilassa. Mi piacciono le cose che creano immagini nella mia mente». Aveva solo ventun anni quando ha recitato in Criminale di turno, il suo primo ruolo accreditato a Hollywood, nel 1954, insieme a Fred MacMurray, che aveva un quarto di secolo in più di lei. Ha raccontato di aver fatto una gaffe terribile sul set ed è scoppiata a ridere. «Aveva un impermeabile e l’ha aperto. Io senza pensare gli ho detto: “Oh mio Dio, quel cappotto è stato fatto l’anno in cui sono nata!” Poi ho pensato: quanto sono stupida? Ma non ho mai categorizzato le persone in base alla loro età, le ho sempre viste per quello che erano». Un anno dopo, ha recitato in Picnic, vincitore di due premi Oscar, nel ruolo di Madge, una giovane donna che si innamora del vagabondo senza impiego di qualche anno più grande, interpretato da William Holden.

Ma è per il doppio ruolo in La donna che visse due volte che tutti la ricordano, in cui a soli venticinque anni interpretò sia la gelida femme fatale Madeleine che la commessa Judy. Il detective in pensione interpretato da James Stewart, Scottie, si innamora di Madeleine e prova a rendere Judy come lei. Alla fine, si capisce che Scottie è innamorato di un’illusione, di una donna che non esiste.
Novak si sente vicina a questo genere di racconti, quelli in cui un uomo desidera l’impossibile e cerca di rimodellare una donna in modo che rispecchi il suo desiderio. Anche Malloy era così, dice. «Succede in tutti i matrimoni. Mio marito, che adoravo, mi voleva più simile all’immagine che lui aveva di me. Io, però, ho una personalità troppo indipendente. Magari stavo fuori a dipingere e lui mi avrebbe voluto più simile a una brava casalinga». E aggiunge che i magnati del cinema non sono affatto diversi. «A Hollywood, tutti pensano di volere te, ma in realtà vogliono l’idea che loro si sono fatti di te».
 

“Non capisco perché vediamo Madeleine dalla finestra dell’hotel e poi lei sparisce. Come lascia l’hotel?”, chiesi ad Hitchcock. Lui mi rispose: “Cara, non tutto deve aver senso in un film di mistero”


Nell’anno della sua distribuzione (1958), La donna che visse due volte è stato liquidato come un lavoretto stucchevole da scribacchino. L’anno scorso il British Film Institute l’ha proclamato il miglior film di sempre. Sul set, Novak disse ad Hitchcock che non comprendeva certe parti. «Gli chiesi: “Non capisco perché vediamo Madeleine dalla finestra dell’hotel e poi lei sparisce. Come lascia l’hotel?”. Lui mi rispose: “Cara, non tutto deve aver senso in un film di mistero”». Come vive il fatto che ora sia considerato il miglior film? «È fantastico. I critici sono molto più gentili di prima nei miei confronti. Penso che fossi avanti per i miei tempi. La recitazione sembra finta, ora». Novak dice che non sapeva recitare, perlopiù reagiva alle interpretazioni degli altri. Dato che recitava in drammi dove ci si aspettava, anzi erano richieste, performance sopra le righe, i critici spesso la stroncavano. In film come Pal Joey (in cui interpreta la showgirl Linda English accanto a Frank Sinatra) o in Baciami, stupido (in cui interpreta la prostituta dal cuore d’oro Polly, la Bomba, insieme a Dean Martin) c’è un distacco tra il generale tono baldanzoso e la sua calma placida. È capace di donare una sorprendente empatia e vulnerabilità ai suoi personaggi. E ritorna spesso alla vulnerabilità durante la nostra chiamata su Zoom.

Un autoritratto di Kim Novak, uno dei dipinti disponibili sul suo sito d’artista

 

 

Novak, all’anagrafe Marilyn Pauline Novak, è nata a Chicago da genitori cechi severi e austeri. Il padre era un insegnante di storia, ma divenne un controllore per le ferrovie durante la depressione; la madre, per arrivare a fine mese, lavorava in una fabbrica dove si produceva biancheria intima. La giovane Kim era così timida che si nascondeva dietro le tende quando ricevevano ospiti a casa. Vivevano in un quartiere malfamato della città, dove avvenivano numerosi stupri e omicidi. Sua madre le faceva sempre i codini e non le permetteva di truccarsi, per evitare che attirasse le compagnie sbagliate, o qualsiasi tipo di compagnia, a dirla tutta. Suo padre voleva che lei fosse una brava studentessa, lei invece voleva solo guardare fuori dalla finestra e sognare. La sua famiglia, che era cattolica, viveva in un quartiere a prevalenza ebraica e gli altri bambini la prendevano in giro. «Mi buttavano spesso a terra, mi seppellivano sotto la neve e mi lanciavano torte ammuffite del negozio di alimentari». È orribile, le dico, ma lei mi risponde che non lo era, che bisognava pensare a ciò che quei bambini avevano appena passato. «Erano bambini ebrei che cercavano vendetta per lo sterminio del loro popolo. E di certo non aiutava che avessi un nonno il cui nome era Adolf». Il modo in cui lo dice è divertente, ma lei è seria. «Nelle loro menti, poteva essere il loro vicino di casa». 
Novak racconta di essere stata violentata da ragazzina, ma non scende nei dettagli. Pensa che i suoi problemi mentali siano collegati a questo evento? «Ho ereditato il bipolarismo da mio padre, ma lo stupro deve averlo peggiorato». Le chiedo quanti anni avesse e se conosceva il suo stupratore. «Ero appena adolescente e sono stati vari ragazzi. È successo sul sedile posteriore della macchina di uno sconosciuto». Non ha mai detto ai suoi genitori di essere stata bullizzata, figuriamoci dello stupro. 

Novak ha vinto due borse di studio per entrare all’Art Institute di Chicago, l’accademia di belle arti. La madre la iscrisse a un gruppo chiamato Fair Teen Club per aiutarla a superare la sua timidezza, e il presidente del gruppo le consigliò di fare la modella. Vinse una gara di bellezza e fu proclamata Reginetta delle nevi. Nell’estate del 1953, girò per gli Stati Uniti con altre tre ragazze per presentare i frigoriferi Thor (aprivano il frigorifero e cantavano: «Come Thor non c’è nessuno») e fu incoronata Reginetta dei surgelati. Durante una visita agli studi RKO, le fu chiesto di partecipare in due film come comparsa e fu scritturata dalla Columbia Pictures, diretta da Harry Cohn. Hitchcock era famoso per torturare psicologicamente le sue protagoniste, ma Novak afferma che con lei era stato tranquillo. Cohn invece era un mostro. Le chiese di cambiare il proprio nome in Kit Marlow per essere più appetibile sul mercato. Lei rifiutò, ma scese a compromessi facendosi chiamare Kim. È vero che la chiamava la stupida e grassa polacca? «È vero», conferma. «Non mi sarebbe importato se lo fossi stata, ma non sono polacca. Sono cecoslovacca. Quando aspettavo di incontrarlo prima di una riunione e lui mi chiamava, diceva: “Fai entrare la stupida polacca” o “fai entrare quella grassa polacca”». Ma tu non eri grassa. «Voleva solo farmi arrabbiare».

Quando iniziarono a circolare voci sulla sua frequentazione con Sammy Davis Jr, Cohn decise che sarebbe stato un male per gli affari se lei avesse avuto una relazione con un nero. «Mi proibirono di avvicinarmi alla casa di Sammy. E io amavo la sua famiglia, erano fantastici. Sammy aveva già perso un occhio in un incidente e Harry Cohn minacciò di strappargli anche l’altro. Sono certa che avrebbe chiamato i suoi amici gangster per farlo. Aveva di sicuro dei legami con la mafia». Le chiedo se avesse avuto una relazione con Davis. È complicato, risponde, gli voleva bene ma non era innamorata di lui. E lui la amava? «Sì, e io non volevo ferirlo. Era un bambinone». Per Novak questo è il massimo complimento. «Era rimasto vulnerabile come un bambino, e bisogna muoversi con cautela con qualcuno di così vulnerabile».

Adorava anche Stewart, con il quale lavorò in Una strega in paradiso e in La donna che visse due volte. «Viveva nel bel mezzo di tutta quella vanità e non ne è rimasto mai contaminato». Era così insolito per un attore protagonista? «Oh, sì. Molti protagonisti adoravano il fascino delle luci della ribalta. Spesso, dopo una scena, ci sedevamo, ci toglievamo le scarpe e appoggiavamo i piedi sul tavolo, senza parlare. Passavamo del tempo insieme perché entrambi eravamo rimasti fedeli a noi stessi. Per me era difficile credere che qualcuno potesse vivere a Hollywood per così tanto tempo, proprio a Beverly Hills, senza che ciò lo cambiasse. Si merita un premio solo per questo. Uno con la targhetta: “Sono rimasto fedele a me stesso”». Sorride. «Vorrei lo stesso premio». 
Novak era amica intima anche di Sinatra, con il quale ha recitato in due bei film (Pal Joey e L’uomo dal braccio d’oro). «Io e Frank abbiamo avuto una bella amicizia durata anni». Le chiedo se sia un eufemismo. «C’è stato qualcosa di più di quello. Io e Frank siamo stati insieme. Era un uomo davvero affascinante». Era un uomo complicato? «Poteva esserlo. Se avessi lavorato con lui solo al nostro primo film, L’uomo dal braccio d’oro, me ne andrei in giro a straparlare di quanto fosse meraviglioso. Sapeva essere buono e gentile, ma sapeva anche essere presuntuoso, non voleva ascoltare nessuno se non sé stesso».
 

Il vero Sinatra era una persona molto sensibile, ma era stato influenzato da quelli che lo mettevano su un piedistallo. Ti possono lusingare fino a farti amare troppo te stesso. Ecco perché ho lasciato Hollywood


In L’uomo dal braccio d’oro, interpreta il ruolo di un eroinomane vulnerabile, mentre in Pal Joey è un donnaiolo disonesto. Quale personaggio gli somigliava di più? «Il vero Sinatra era una persona molto sensibile, ma era stato influenzato da quelli che lo mettevano su un piedistallo. Così ha perso quella parte semplice e meravigliosa di sé. Ti possono lusingare fino a farti amare troppo te stesso. Ecco perché ho lasciato Hollywood. Non volevo succedesse anche a me. Non volevo perdermi. Dovevo andarmene per salvare me stessa. Mi piace chi sono, nonostante le sofferenze, nonostante sia così vulnerabile, nonostante senta tutto così intensamente». Davvero ha pensato di poter perdere sé stessa? «Certo. È entusiasmante poter indossare vestiti bellissimi e sentirsi e vedersi sexy. È meraviglioso, ma è anche una trappola. Ti sembra che tutto quello sia abbastanza, ma più avanti nella vita scopri che non lo è affatto. È capitato a molte persone che, invecchiate e non più belle come prima, sono crollate».


Rita Hayworth, Frank Sinatra e Kim Novak posano per una foto promozionale del musical Pal Joey (1957) di George Sidney



Spiega di essere rimasta con i piedi per terra grazie ai suoi genitori. Avrebbe fatto di tutto per la loro approvazione e non l’ha mai ricevuta. Il padre ha visto i suoi primi due film, poi nessun altro. Odiava il fatto che sua figlia fosse un sex symbol. «Aveva paura di vedermi sotto una luce diversa. Una sotto la quale avrebbe preferito non vedermi». La rattristava? «Molto. Moltissimo». Gliene ha mai parlato? «Ci ho provato. Diceva sempre che voleva prendere una macchina, di quelle piccoline. Così gliel’ho comprata io e gli ho detto: “Papà, viaggeremo per il paese; ti vengo a prendere a Chicago e ce ne andiamo fino a Los Angeles”. E all’improvviso iniziò ad avere delle emicranie». Non hanno mai fatto quel viaggio. «Avrei voluto avere un po’ di tempo per fargli capire chi ero davvero. Non gli piaceva la macchina». Ha accettato il regalo? «No, l’hanno venduta».

La sua carriera hollywoodiana era già morta e sepolta nel giro di una decade. Nel 1966, dopo un matrimonio durato meno di un anno con l’attore inglese Richard Johnson, con il quale aveva recitato in Le avventure e gli amori di Moll Flanders, si era stancata del cinema. Aveva problemi di depressione sin dalla sua adolescenza e aveva paura per sé stessa. «Quando sei felice è come stare su una nuvola così alta che nessuno riesce a vederla. Ma all’improvviso la nuvola diventa grigia e comincia a opprimerti e, prima che tu te ne accorga, ti ritrovi di nuovo in fondo al buco». Era delusa dai lavori che le stavano offrendo. Cohn era morto nel 1958 e negli anni ’60 le offrivano principalmente ruoli da bomba sexy in spiaggia. Non le interessavano. «Volevo essere apprezzata per ciò che ero e per ciò che potevo offrire. Non mi sembrava che il mio lavoro avesse un gran significato. Sapevo di essere una brava artista e volevo poter esprimere i miei sentimenti. Non quelli dello sceneggiatore o del regista, volevo esprimere me stessa. Volevo recitare nel ruolo di qualcuno con una malattia mentale. Avrei potuto fare un gran bel lavoro, perché so cosa si prova».

Ci furono altri segnali che l’avvertirono che era ora di andarsene. Viveva nel Big Sur, una regione nella costa centrale della California, e perse gran parte dei suoi beni in un incendio. Rimase lì, ma poi una frana le portò via la casa. Decise che era il momento di fare i bagagli e andare avanti con la propria vita. «Così ho affittato un furgoncino e preso ciò che per me era di valore: foto, attrezzi per dipingere, pensando, “Questo è ciò che conta”. La frana mi stava dicendo: “Il tuo tempo è finito. Vattene finché puoi. Gioca d’anticipo. Non aspettare di essere vecchia e piena di rughe. Nessuno ti vorrà più”».
Finì in Oregon, sul Pacifico, incontrò Malloy e lo sposò nel 1976, costruendosi una nuova vita. Decise di aiutarlo nel suo lavoro («Mi piaceva dargli una mano durante le operazioni. “Tieni questo bulbo oculare, mentre tento di rimetterlo al suo posto”. Mi sentivo utile»). Si dedicò all’arte e alla poesia, andava a cavallo e si godeva la natura. Recitare non le mancava nemmeno un po’. Ogni tanto tornava a lavorare per la tv o in qualche film, solo per ricordarsi perché se ne era andata. Dice che, escludendo Malloy, la relazione con gli animali è stata la più importante della sua vita. «Sono sicura che sia a causa del mio istinto materno. Dato che non ho mai avuto figli, gli animali sono diventati i miei figli». Ne avrebbe voluti? «No. A dire la verità, avevo paura che avessero i miei stessi problemi e non volevo che soffrissero».

Il dipinto Finding My Way (2014), “trovare la mia strada”, tra i dipinti di Kim Novak disponibili sul suo sito
 

 

Nei primi anni 2000 le fu diagnosticato un disturbo bipolare. Da allora, ha passato il tempo a cercare di normalizzarlo, raccontando alle persone che si tratta solo di un’altra malattia che può essere curata (nel suo caso con degli antipsicotici) e non stigmatizzata. Dice che non le piaceva il litio (un’altra cura), perché le aveva fatto prendere peso. «Non voglio niente che mi faccia ingrassare. Non mi fa stare bene e il mio cavallo non lo apprezza!». Quanto pesa? «Mi stai facendo un sacco di domande personali! Alcune cose devono restare un mistero!». Novak spiega che la sua arte ha un buon effetto sul suo disturbo bipolare e viceversa. «Tutta quella rabbia e depressione ti lasciano solo quando le fai uscire. E questo è ciò che rappresenta la pittura».
Ha un bell’aspetto oggi: caschetto biondo, felpa viola e grandi occhi giallo-verdi. Ma nel 2014 è stata messa in ridicolo da Donald Trump che, in seguito a una delle sue rare apparizioni pubbliche per presentare un premio agli Oscar, ha twittato: «Kim dovrebbe fare causa al suo chirurgo plastico!». A essere onesti Novak è la prima ad ammettere che non era in forma quella sera. «Sai, accade quando ti senti insicura e pensi che qualcuno possa aiutarti. Non volevo un lifting facciale o cose simili, perciò sono andata da un dottore che mi ha iniettato del botulino nel viso. È stata la cosa più stupida che potessi fare. Soprattutto perché non ne ho bisogno: il mio volto è già fin troppo tondo. Ha riempito le mie guance e mi ha dato un aspetto diverso».
 

La serata degli Oscar le ha ricordato di non essere fatta per Hollywood. «Ho pensato di essere troppo vulnerabile per questa città. Mi prendo le cose troppo a cuore»


Non è l’unica cosa stupida che ha fatto quella sera, racconta: «Ho preso un Valium a stomaco vuoto, perché stavo cercando di non mangiare per perdere un paio di chili. Mi sono detta aaaah, non ho forze!». Ancora una volta, dice, questo le ha ricordato di non essere fatta per Hollywood. «Ho pensato di essere troppo vulnerabile per questa città. Mi prendo le cose troppo a cuore». Un paio di settimane più tardi è tornata per fare un’intervista di fronte a un pubblico. «Non volevo che pensassero di avermi sopraffatta o che quello che avevano detto mi avesse distrutta. Perciò sono andata all’intervista e ho parlato dei bulli». Da allora, ha portato avanti molte campagne contro il bullismo. «Ci sono ragazzi che si sono tolti la vita a causa di ciò che è stato detto su di loro. Ho sentito il bisogno di fare da esempio». 

Lo sguardo di complicità tra Kim Novak e Matthew McConaughey ai premi Oscar 2014, dove l’attrice annunciò il vincitore del premio miglior film d’animazione, andato a Frozen

 

Novak dice che i quarantacinque anni passati con Malloy sono stati i più felici della sua vita e che da quando è morto le cose non sono state semplici. «C’erano momenti in cui non volevo andare avanti senza di lui. Adesso accendo il camino ogni sera e preparo qualcosa di speciale, qualcosa che gli piaceva. Amava le mie polpette di pollo. Penso che avrei dovuto preparargliele più spesso». La pittura l’ha aiutata a superare il peggio. 
I suoi amici pensano che la sua casa, i quattro cavalli e i due cani siano troppo per lei. E, sì, potrebbe anche dare il cavallo di Malloy a suo figlio, ma non ha intenzione di spostarsi a breve. «Mi chiedono se ho intenzione di starmene in questa casa da sola. Amo questa casa. L’ho progettata io. Certo che resto qui. È proprio sul fiume Rogue. È meraviglioso. Vado ancora a cavallo tutti i giorni. Spero di cavalcare fino a incontrare il tristo mietitore». Fa una pausa. «No, troppo triste. Spero di cavalcare fino al paradiso». E a questo pensiero ridacchia come una ragazzina.

 

 

Simon Hattenstone è uno scrittore, giornalista e intervistatore britannico. Questo articolo è stato pubblicato sul Guardian il 15/02/2021 ► ‘I had to leave Hollywood to save myself’: Kim Novak on art, bipolar, Hitchcock and happiness | Traduzione di Valentina Pesci


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