Figli di Giuseppe Bonito (e Mattia Torre)

Con Valerio Mastandrea, Paola Cortellesi, Stefano Fresi, Valerio Aprea

La macchina da presa si avvicina lentamente alla finestra dell’appartamento di un condominio romano, le mura gialle e le imposte dipinte di marrone. Una voce femminile fuori campo: «Non sei solo amore, devi cominciare a pensare anche agli altri, Nicola, sì!». Nicola entra al centro del salotto con le mani in faccia, peluche e biberon dappertutto, il divano nel caos, un cesto per i giochi del bambino. La voce irrompe raccogliendo oggetti e giocattoli intorno a lei, e poi a Nicola: «Tu non fai niente!» - «Io sto sempre qua, Sara, sempre!» - «Avevamo detto 50 e 50, e invece m’accollo tutto io». La macchina da presa sorpassa le ante della finestra e entra nel salotto, Sara e Nicola sono faccia a faccia. «Non è vero, perché io sto trascurando il lavoro, non dormo, sono uno zombie». Sara lo rimprovera a muso duro: «Allora dimmi cos’hai fatto oggi» - «Io stamattina ho fatto la lavastoviglie, l’ho mandata, m’hanno visto tutti» - «Ma vaffanculo, va’».
La vita di Sara (P. Cortellesi) e Nicola (V. Mastandrea), coppia romana di mezza età, viene sconvolta dall’arrivo del secondo figlio. Nonostante gli avvertimenti di tutti e in particolare di un amico costantemente sopraffatto dai due figli piccoli (S. Fresi), i due decidono di accettare la gravidanza: «Anche un gesto eroico è, in questo paese a crescita zero dove nessuno fa più figli». La scelta di tenere il bambino si scontra però con le difficoltà di essere genitori nell’Italia di oggi – raccontate in capitoli – tra ristrettezze economiche e problemi di ogni sorta: il sonno, la fatica, l’accettazione della prima figlia Anna, la rottura della serenità familiare.

Nato dal monologo “I figli ti invecchiano” dello sceneggiatore, regista e autore teatrale Mattia Torre – la serie cult Boris (con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo), il film Ogni maledetto Natale, le opere teatrali 456, Qui e ora, Perfetta – e già portato a teatro da Valerio Mastandrea, Figli è un film sull’essere genitori e allo stesso tempo un caso produttivo e artistico molto particolare. Dietro la macchina da presa c’è Giuseppe Bonito, aiuto regista per Boris e Boris – Il film, che raccoglie il testimone da Torre dopo la sua scomparsa nel luglio 2019 a seguito di una lunga malattia raccontata nella serie La linea verticale, in cui lo stesso Bonito aveva curato la regia della seconda unità e di cui sempre Mastandrea era protagonista. Tutto il cast, che vive soprattutto di ruoli secondari capaci di dare corpo alla storia e al gruppo di amici della coppia protagonista, è un grande omaggio all’arte e alla vita di Mattia Torre: c’è Valerio Aprea, c’è Carlo De Ruggieri, c’è Luca Amorosino, ci sono Paolo Calabresi, Cristina Pellegrino, Massimo De Lorenzo, Andrea Sartoretti. Un coro di interpreti che danno voce, per l’ultima volta, alle parole di uno degli autori più originali e brillanti del panorama televisivo, cinematografico e teatrale italiano degli anni Duemila.
 

Dalla penna di Torre sgorga un’onestà irrefrenabile: tutto in un attimo diventa comico, drammatico, grottesco, con un tocco, con una battuta, con una semplicità e una freschezza rare


Nel film colpisce immediatamente la brillantezza della messinscena, tra sequenze realistiche e astrazioni teatrali simili a quelle viste in La linea verticale, e della scrittura: la struttura ripetitiva del racconto non stanca mai e ogni espediente narrativo diventa un appuntamento con la risata – il pianto del bambino sostituito dalla sonata n.8 di Beethoven, il continuo salto suicida dalla finestra del salotto – e fa da contrappunto alla cronaca della vita di famiglia. Dalla penna di Torre sgorga un’onestà irrefrenabile, una tale bravura nella rappresentazione della realtà da essere in grado di piegarla a suo piacimento: tutto in un attimo diventa comico, drammatico, grottesco, con un tocco, con una battuta, con una semplicità e una freschezza rare e senza allontanarsi per un secondo dal realismo. Guardando Figli si ride tanto e si piange, subito e senza sapere perché, esausti come la coppia dalla pediatra guru, per la capacità del film di colpire nel segno, di essere immediatamente e irrimediabilmente vero.
Nel restituire questa verità Mastandrea brilla, in un’interpretazione misurata e divertentissima, e Paola Cortellesi – nonostante l’evidente maschera d’attrice che indossa e che anche qui fa fatica ad abbandonare – è al suo meglio in un personaggio sopra le righe perfetto per le sue corde esuberanti. Con loro tutti gli attori, serviti da un testo e da una regia vivaci, concorrono a ricreare un microcosmo di amicizie che è anche uno spaccato della società, in un film in grado, caso più unico che raro nel cinema romanocentrico delle borgate e delle periferie, di ambientarsi nella capitale ma di parlare anche al di fuori del grande raccordo.

Figli vive di piccoli quadri, della rappresentazione di una vita sociale e familiare contemporanea nelle sue difficoltà lavorative e sentimentali, affettive e intime: su tutto la delicatezza con cui viene rappresentato il rapporto con la figlia Anna, complesso e comico nell’estrema maturità della bambina, a sei anni ben più matura del padre, come quando si presenta già in cappotto pronta a uscire per una festa di compleanno – «Anna però tu non puoi avere una vita già da adolescente, eh. C’hai una vita sociale più intensa della nostra! Feste, cene in pizzeria, pigiama party, eventi sportivi, pilates. E dai!».
Una serie di sequenze di vita quotidiana così lucide e ben tratteggiate da diventare abitudine, all’interno del film, ma che abitudine non sono affatto, nei caratteri del cinema italiano: l’amico abbattuto dai figli piccoli a colpi di spade di plastica, la cena di carnevale in costume con Mastandrea vestito da drugo di Arancia meccanica e la Cortellesi in tuta gialla e nera come la sposa di Kill Bill, l’amico Andrea che festeggia commosso il pareggiamento del conto con l’Agenzia delle Entrate.
 

La voce fuori campo di Nicola, in modo a volte didascalico altre metaforico, si lancia in digressioni che sono un’opportunità – per lui e per lo spettatore – per confrontarsi con l’Italia di oggi


Il film non si limita a raccontare (benissimo) le dinamiche di una famiglia di quattro persone, ne approfitta anche per riflettere sullo stato del nostro paese, sul suo presente, sul suo futuro. La voce fuori campo di Nicola, in modo a volte didascalico altre metaforico e a tratti inaspettato, si lancia in digressioni che sono un’opportunità – per lui e per lo spettatore – per confrontarsi con l’Italia di oggi attraverso gesti quotidiani e figure archetipiche. Figure che rappresentano il conflitto generazionale del nostro paese, diviso tra anziani incancreniti e cinquantenni frustrati; anche se di fronte alle difficoltà dei quarantacinquenni ci si chiede cos’avrebbero da dire molti venti e trentenni di oggi, che neanche possono permettersi una casa o una famiglia – e il film lo riconosce, quando nella carrellata iniziale di genitori e figli racconta le coppie anziane, i padri separati, e poi loro: «Ci sono i giovanissimi: venticinquenni, flessibili e dinamici, non hanno paura di niente. I figli si arrampicano su scogli pericolosi, vanno da soli a scuola. Sono responsabili e maturi, ma in Italia non ne abbiamo». Figli, in questa altalena tra casa e stato, usa i colori di una famiglia per provare a dipingere un affresco, sfumato e mai manicheo, di tutto un paese. A pensarci bene, alla fine, la vita di coppia di Sara e Nicola sembra il ritratto di un’Italia stremata, che si ama profondamente e che però sta andando in pezzi, e che alla nascita di un altro suo figlio lotta, si urla addosso, piange e poi si guarda in faccia con gli occhi gonfi: «Scusami, sono così stanca». «Passerà». «Passerà?». «Non lo so».
 

«Noi facciamo un altro figlio, eh!»
«Esticazzi!»
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ITA 2020 – Comm. 97' ★★★


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