L’impassibilità delle acque

Sul romanzo Grande fiume senza cuore, venticinque anni lungo le sponde di un Po tanto immaginario quanto autentico

È possibile andare incontro al proprio futuro, in un luogo che sembra non avere più né tempo, né anima? Rinverdire e coltivare le proprie radici, sepolte sotto la brina? Rinascere e resistere, insieme alla propria terra? Sono solo alcune delle domande che nascono leggendo Grande fiume senza cuore, ultimo romanzo di Giulio Pedani, edito da effequ. È un libro che sa di fango e di nebbia, di terra e di acqua, quello di Pedani. Una storia che sa, insieme, di rabbia e di speranza.
Grande fiume senza cuore ha come protagonisti il Regio, un vecchio dalla barba lunga e dal carattere piuttosto introverso che, da sempre, ama pescare aspettando l’alba sul suo barchino; Altea, sua nipote, una bambina vispa e sensibile, capace di leggere e intrepretare i pensieri di chi le sta accanto, anche quelli degli uomini più schivi; Miro, un calciatore in erba restio alle gerarchie imposte dai suoi compagni di squadra; Fogliani, soprannominato il Muto, un adolescente decisamente poco loquace e dalle fattezze da uomo, che sa già fare qualsiasi tipo di lavoro. I destini di questi personaggi si incrociano e confluiscono nelle acque del fiume più importante del paese: fiacco, sfruttato, ma dal corso pur sempre immortale, il Gigante – così Pedani ribattezza il fiume in cui il lettore può riconoscere distintamente il nostro Po – è la creatura mitica al centro della narrazione.

Il romanzo si sviluppa in un arco temporale di venticinque anni – dal 1986 al 2011 – e segue, intrecciandole, la crescita dei suoi protagonisti e l’evoluzione dei luoghi, sospesi tra realtà e finzione. Pedani ambienta infatti il suo racconto lungo le sponde di un Po tanto immaginario quanto autentico, reinventando una personalissima geografia locale, fatta di toponimi fantasiosi ed evocativi, come il Paese Giallo, la Prima Città o ancora il Fiume Bianco. Elementi, questi, che vanno a costituire il teatro rurale della vicenda: i fiumi, gli affluenti, gli argini, le golene, le distese di campi, le case in fila indiana, ma anche le fabbriche, le centrali e con esse il degrado ambientale, l’inquinamento e in generale il guadagno, lo sfruttamento spietato della natura da parte dell’uomo.
Quello di Pedani è un viaggio sulle rive di un fiume di cui tutti conosciamo la storia, e che è al contempo un piccolo spaccato etnografico di una comunità: c’è la pesca, tradizione che il Regio, chiamato così dai suoi compaesani, porta avanti con inesorabile dedizione, ma c’è anche l’esecuzione dei maiali, a cui assiste da bambina, priva di ribrezzo, Altea, per seguire suo padre Alberto alla Cascina – la Cascina, un riferimento spazio-temporale immutabile, dove ogni anno, prima di Natale, arrivano i macellatori; tra questi Fune, un uomo alto magro e con i denti neri, e Lana, l’«artista del coltello», accompagnati da Fogliani, il Muto, che grazie alla sua forza può domare le bestie impazzite.
 

Quello di Pedani è un viaggio sulle rive di un fiume di cui tutti conosciamo la storia, e che è al contempo un piccolo spaccato etnografico di una comunità


In questa cornice, tutto è realistico: le urla, le bestemmie, la durezza dei volti e la ruvidezza degli animi, delineati in conformità dell’ambientazione. La macellazione – uno dei passaggi che restano più impressi nella mente del lettore – viene riportata dall’autore in modo quasi documentaristico, rispettando i codici e le abitudini dei posti narrati. In questo senso, un aspetto molto coinvolgente della lettura riguarda proprio la capacità di Pedani di calarsi con estrema naturalezza nei vari personaggi e di adottarne il punto di vista, come nel caso di Altea che partecipa all’evento con attenzione e insito distacco, «sollevata all’idea che la sua presenza non impedisse a nessuno di essere sé stesso».
 

Nel contesto della Cascina era solo una bambina, e come tale, giustamente, veniva considerata. Dietro la presunta indifferenza di suo padre, a ben guardare, poteva nascondersi una manifestazione di fiducia, un invito a non piangersi addosso, una spinta all’indipendenza buona per abituarla all’idea che non si poteva crescere protetti da campane di vetro, che erano necessarie volontà e autosufficienza, specie tra le radici del loro mondo rurale. Per ora Altea temporeggiava nel suo spazio calcolato, pedinando da lontano suo padre, i macellatori e la realtà. Cominciando a convincersi che forse il suo destino era quello di seguire con interesse tutto, senza appartenere a niente.


Un mondo, quello rurale, che se da un lato educa all’indipendenza, all’autosufficienza, dall’altra lo fa in modo ostile, spesso ostacolando le dinamiche di inclusione. A farne le spese nel romanzo vi è il giovane Miro, vicino di casa del Regio e quasi coetaneo di Altea. Il calcio nelle realtà di provincia, si sa, può essere considerato e vissuto come un fenomeno catalizzatore: tra i giovani che abitano in questi contesti, determina chi è dentro e chi è fuori, chi può far parte del gruppo e chi invece no. Un vero e proprio rito a cui aderire, più o meno volontariamente, per riconoscersi ed essere riconosciuti, rispettandone le implicite regole – cosa che Miro, più intraprendente (forse troppo) fatica ad accogliere.
 

Forse il calcio, e più ancora del calcio i rituali che lo circondavano, permettevano di provare un’appartenenza anche nella solitudine


Miro è difatti il più giovane della squadra e a causa della sua indole e delle sue doti sportive troppo premature sembra non essere in grado ad adeguarsi alle norme del gruppo: è per questo quello più odiato, osservato dai suoi compagni «come l’esemplare di una specie diversa». Nonostante i feroci atti di bullismo subìti, Miro sa che il calcio resta una delle poche vie d’accesso alla vita della comunità e proprio per questa ragione non può rinunciarvi così facilmente. Addirittura, si fa coinvolgere in questa dimensione anche dal Regio, il suo solitario vicino di casa, che in una sorta di proiezione decide di seguire per andare insieme allo stadio («Forse il calcio, e più ancora del calcio i rituali che lo circondavano, permettevano di provare un’appartenenza anche nella solitudine»).


Barche sulle sponde del Po al confine tra Emilia-Romagna e Lombardia nel 2011, l’anno che chiude gli eventi narrati nel romanzo. Foto di Giorgio Galeotti



È in questo microcosmo provinciale che si intersecano e si legano, in un secondo momento, i percorsi di Altea e Miro. Cresciuti in un ambiente così ruvido, indifferente, i due giovani, e poi giovani adulti, cercano inizialmente una via di fuga: si spostano, cambiano città, cambiano lavoro, ma sentendo, sempre e nonostante tutto, un attaccamento profondo per la loro terra. Un sentimento che risponde a un richiamo sotterraneo e che li spinge in qualche modo a non allontanarsi; a non farsi trascinare via dalla corrente, a resistere, adeguandosi alle regole del posto – il loro – anche a costo di andare incontro a difficoltà e sconfitte certe. Se da una parte, in Grande fiume senza cuore, il desiderio di ricucire un’appartenenza, un legame con i propri luoghi è uno degli impulsi più forti, dall’altra è impossibile non percepire tra le pagine anche lo sprezzo, la rabbia nei confronti dell’incuria dell’uomo e della sua azione. Il cinismo, il calcolo con cui il Gigante è stato deturpato e sventrato, insieme alle sue rive e alle sue valli, vengono osservati e raccontati in modo chirurgico e straziante; la critica nei confronti della delinquenza e del profitto a discapito dell’ambiente, del disinteresse per l’interesse, riecheggia forte e decisa nel romanzo di Pedani, che si attacca con estrema sensibilità e precisione alla realtà delle cose.
 

Quanto al primo motore, il cuore, era evidente che avessero cercato di asportarlo: da una parte in senso fisico, con lo sventramento delle sponde, la vampirizzazione statale per scopi energetici e la torbida cancrena mafiosa; e dall’altra in senso astratto, portando la gente, a poco a poco, ad allontanarsi, a cancellarlo anche e soprattutto come luogo dello spirito. Eppure era proprio mentre lo vedeva fragile, sporco e dimenticato, che Miro ne sentiva le pulsazioni; il Gigante aveva resistito agli ultimi decenni, e non sarebbe morto mai. Veniva prima degli umani, e agli umani sarebbe sempre sopravvissuto.


In Grande fiume senza cuore, Pedani torna così a occuparsi delle tematiche che più gli stanno a cuore e che già avevano caratterizzato il suo romanzo d’esordio L’iguana era a pezzi (effequ, 2019): la crescita e la formazione, sia personale che sociale, il paesaggio naturalistico, l’ambiente. Il suo romanzo è una collezione di eventi che tratteggiano l’evoluzione di una piccola realtà di provincia, marginale, tra affarismo, avidità, abbandono, ma anche immagini di struggente bellezza, che si fanno grido di speranza e invitano a osservare la natura che ci circonda.
 

Lo sfruttamento del Gigante aveva strappato via tante persone dalla miseria, aveva dato loro case più lontane dall’acqua, cioè dalla nebbia eterna, dall’umidità che entrava nelle ossa, dall’incubo della piena, aveva regalato loro la scelta di vestiti differenti, caldi e colorati, di automobili in serie, di supermercati, di gioielli di rango o di bigiotteria, e strade, tante strade. […] Da tutti, in cambio, aveva preteso un baratto: abbandonare il fiume, almeno come forza attiva, vivente; farlo vivere non più nella sua effettiva sostanza, cioè nella vischiosa mistura di acqua limacciosa e composti chimici che ormai si trascinava lentamente avanti, ma solo nella sua residua immagine: nella bruma dell’alba, nell’esplosione di verde delle golene a maggio, nel fuoco dei tramonti d’estate; ché su quell’acqua, e su quella luce, resistevano frammenti di un passato, e sarebbero rimasti sempre, insieme alle voci delle sue vicende dimenticate, dei suoi destini scomparsi. Forse solo le immagini avrebbero conservato qualcosa dell’antico fiume, il suo eterno movimento, la sua capacità di rinascere.


Sono immagini senza tempo, che Pedani descrive con amore e commozione: il Po, nella sua rappresentazione letteraria del Gigante, si manifesta in tutta la sua maestosità; il suo distacco apparente, la sua impassibilità, non sono altro che il risultato dell’indifferenza dell’uomo – la nostra oltre gli orizzonti e le luci ovattate dall’umidità e della nebbia invernale. In apertura del suo diario di viaggio Verso la foce, Gianni Celati scriveva che, lungo la valle padana, lungo il Po inquinato e il paesaggio ammalato circostante, «è difficile non sentirsi stranieri», facendo anche riferimento a «domiciliati intercambiabili, senza patria né destinazione». I personaggi di Grande fiume senza cuore cercano, dal canto loro, di lottare contro questa tendenza e prendersi cura del luogo in cui vivono, e pur riconoscendone l’abbandono sono consapevoli che il Gigante continuerà il suo corso, che sulle sue acque continuerà a riflettersi il suo passato antico, mitico, «il suo eterno movimento, la sua capacità di rinascere».


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