Haneke Horror Show

L'incombenza del male da Funny Games a Amour

Fresco di Oscar e nominato in numerose edizioni del Festival di Cannes, ha vinto la palma d'oro due volte. Regista acclamato sia dalla critica che dal pubblico, capace di offrire uno sguardo nuovo sulla contemporaneità cogliendo con acume l'ansia, l'inquietudine e il pervasivo terrore della quotidianità.
L'eterna percezione del pericolo che governa l'essere umano trova un'adeguata espressione nella cinematografia del regista austriaco. A pochi passi di distanza, in Germania, c'è chi teorizza una società del rischio globale fondata sulla sua percezione più che sul rischio effettivo. Crisi economiche, terrorismo, epidemie globali contribuiscono a fondare il regno dell'allarmismo sociale, su questo comune sentire il cinema di Michael Haneke entra in campo, sicuro di una componente che non vacilla: l'universalità della natura umana.

L'incombenza del male La violenza si libera da qualsiasi vincolo cercando una forma pura. Il regista, nelle prime opere, mette in scena i suoi personaggi evitando di fornire motivazioni al loro sadismo, estremizzando quest'ultimo e dichiarandolo caratteristica congenita dell'uomo; si delinea un confine sociale e personale della violenza, sia essa diretta – Benny's video, Funny games – o indiretta e velata d'ipocrisia – 71 frammenti di una cronologia del caso. In un film maturo come Amour il male corrode l'uomo dall'interno ma non scaturisce da esso, trattandosi di malattia trova ragione prima nella Natura e viene quindi depurato dal giudizio. Si nota nel percorso registico di quest'autore uno spostamento d'asse causale nell'analisi della violenza: se all'inizio essa resta confinata in un recinto antropocentrico, pian piano si libera da questa gabbia per determinarsi come condizione immutabile e pervasiva dell'esistente.

Stasi, tormento e fuori campo Elegante nella realizzazione, Haneke trasmette quest'eterna incombenza con una prevalente immobilità della macchina da presa a cui affianca una recitazione impeccabile ed intrisa d'inquietudine, sgomento e rigore. Se infatti l'uomo è condannato alla sua natura, le inquadrature fisse e l'immobilità della macchina da presa restituiscono un senso di pericolo immanente che perdura per la durata del film. Complice anche la totale assenza di colonna sonora e un'accorta gestione dell'audio in presa diretta, mirato sempre a creare tensione tramite silenzi e flussi costanti.
Una menzione particolare è dedita al fuori campo, usato per evocare la violenza senza mai mostrarla, perfetto emblema del percorso concettuale sopra accennato. Se l'inquadratura rappresenta la centralità dell'arte cinematografica ed in senso lato lo scibile come unica porzione di spazio analizzabile, è al fuori di essa che la violenza viene perpetrata; lo spettatore ne ha coscienza poiché ne subisce il rimando ma non facendone quasi mai esperienza diretta non attiva un meccanismo di fruizione empatico ed identifica il male come forza esterna.

Azione, dolore e tolleranza Nel suo ultimo film il regista austriaco ci mostra tutto, sezionando momento per momento la degenza di una donna fino alla sua morte, e questa volta la violenza fisica si compie all'interno dell'inquadratura. La violenza rispecchia un cambio concettuale, invadendo la vita in tutte le sue forme. Se quindi il male diventa pervasivo come le malattie che affliggono l'uomo, esso ci viene finalmente mostrato per quello che è, una forza visibile e impalpabile che divora dall'interno l'essere umano, una forza priva di una valenza  positiva o negativa ma concreta. Flessibile alle più disparate motivazioni e indirizzabile verso i più svariati fini diventa una variabile naturale, presente in ogni azione o pensiero con infinite sfumature, dalla più incisiva e decisa morte della carne al più dolce e pietoso sentimento che spinge un marito a togliere la vita alla propria moglie.

Dualismo e inversione È dunque chiara l'evoluzione di quest'autore che fin da subito mette in luce una visione pessimista della realtà, ma se in un primo momento ciò che di peggiore abita l'animo umano viene ricondotto ad una precisa volontà la quale si perde nelle pieghe dei conflitti sociali, velandosi come un'incombenza a cui nessuno riesce a porre rimedio e (non) mostrandosi nell'omertà del fuori campo, in un secondo momento la natura umana appare suddita di una biologia su cui la volontà non può interferire e si palesa in tutta la sua attualità. L'accettazione di una condizione immutabile dell'esistenza muove il cambiamento di un regista che con il passare degli anni conferma il suo talento, capace di evolvere con coerenza stilistica e dal quale non resta altro che aspettarsi l'ulteriore tassello di una cruda visione.


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