Maigret di Patrice Leconte

con Gérard Depardieu, Jade Labeste, Mélanie Bernier, Clara Antoons, Pierre Moure, Aurore Clément, Anne Loiret

Dopo più di trenta film e quasi cinquant’anni di attività per il grande schermo, il regista francese Patrice Leconte torna dietro la macchina da presa con un adattamento letterario, una sua specialità. Lo confermano le sue ultime tre pellicole, tre trasposizioni di altrettanti testi letterari: La bottega dei suicidi (2012) da Il negozio dei suicidi di Jean Teulé, Una promessa (2013) da Il viaggio nel passato di Stefan Zweig e Tutti pazzi in casa mia (2014), dalla pièce Un’ora di tranquillità del conterraneo Florian Zeller, sceneggiatore del film e poi regista di The Father (2020). Dopo la contemporaneità di Tutti pazzi in casa mia Leconte sceglie di tornare indietro agli anni Cinquanta di Georges Simenon, di cui aveva già adattato trent’anni prima Il fidanzamento del signor Hire, uscito nel 1989 con il titolo italiano de L’insolito caso di Mr. Hire. Stavolta però il regista francese affronta il Simenon più popolare, quello dei casi del commissario Jules Maigret.
A Parigi, una ragazza (C. Antoons) fa il suo ingresso ad un ricevimento dell’alta società indetto per il fidanzamento di Jeanine (M. Bernier) e Laurent Clermont-Valois (P. Moure), che vedendola restano sconvolti e la minacciano tentando di far sì che se ne vada. Durante la notte, il corpo della ragazza viene ritrovato senza vita in una piazza, con cinque coltellate al petto. Il commissario Maigret (G. Depardieu), chiamato ad indagare sul caso, cerca di ricostruire la psicologia e la vita quotidiana della donna scomparsa, di cui tutti ricordano lo sguardo triste e perso, facendosi aiutare dalla giovane e bella Betty (J. Labeste), smarrita e sola quanto la ragazza senza nome.

Libero adattamento di Maigret e la giovane morta, pubblicato nel 1954, il film di Patrice Leconte si prende la responsabilità di una rappresentazione totale e in un certo senso definitiva del personaggio che porta sul grande schermo fin dal titolo: Maigret. Ci vuole una certa consapevolezza (e sfacciataggine) ad intitolare la pellicola semplicemente con il nome del commissario francese, protagonista di 75 romanzi e portato su schermi grandi e piccoli da attori del calibro di Charles Laughton e Gino Cervi, Richard Harris e Jean Gabin, che fu l’ultimo ad interpretarlo in sala nel 1958. Eppure l’approccio discreto al volto e al corpo del commissario più celebre della letteratura francofona proiettano fin da subito lo spettatore in una dimensione intima, aprendo alla fragilità di Maigret attraverso i suoi problemi di salute, raccontati nella sequenza d’apertura del film con una visita dal medico. La misurazione della pressione, le prescrizioni, le raccomandazioni sul fumo e il vizio dell’alcol, fin da subito ci si preoccupa, più che per Maigret, per Gerard Depardieu, che lo interpreta diventando un tutt’uno con lui. Difficile dire se sia Depardieu ad indossare gli abiti di Maigret o il personaggio di Simenon ad incarnarsi nell’attore francese, tanto la sua interpretazione sembra naturale, come se Depardieu fosse nato soltanto per interpretare questo ruolo, come se avesse aspettato settant’anni per indossare gli abiti di questo poliziotto stanco, affaticato, malinconico e triste, incerto e umano. Se è vero, come scrive Marzia Gandolfi in un focus di MyMovies, che l’attore «rispetta il personaggio e si rivela attraverso di lui», è vero anche che il suo Maigret sembra una manifestazione silenziosa, una rivelazione del personaggio stesso tramite i suoi lineamenti.
 

La macchina da presa di Leconte si concentra sui personaggi, sui particolari dei loro gesti e dei loro sguardi, trasformando l’indagine di Maigret in un’indagine esistenziale


Nel ricreare la dimensione intima e privata del personaggio e della storia, funziona la scelta stilistica di Leconte di mettere in scena con una macchina a mano che respira insieme ai personaggi, indagando i loro volti e i loro corpi con epilettici zoom in. Se nella prima parte del film gli zoom in accompagnano i dettagli del caso, lavorando sul lato investigativo tipico del giallo – gli oggetti, gli indizi, le mappe, le fotografie –, nella seconda parte questi zoom in si concentrano sui personaggi, inquadrandoli in primi e primissimi piani, sui particolari dei loro gesti e dei loro sguardi, trasformando l’indagine di Maigret in un’indagine esistenziale. Un linguaggio efficace, accompagnato dalle musiche avvolgenti e indovinate di Bruno Coulais, che sembra quasi un pretesto per compensare l’essenzialità delle scenografie di Loïc Chavanon, a volte ricche e azzeccate – i ristoranti, l’appartamento di Louise, la bottega di Kaplan – a volte fin troppo povere e posticce – l’ufficio di Maigret, la farmacia. La livida fotografia di Yves Angelo non sempre riesce a nasconderne le pecche, ma sfrutta tonalità grigie e verdi per ammantare l’universo del film del sentimento che abita Jules Maigret, tingendo ogni cosa dei colori con cui il commissario vede il mondo, gli stessi della giovane morta.

Non c’è serenità in questa visione, non c’è gioia. C’è una grigia quotidianità fatta di solitudini e perdite, di strade da ritrovare, di vite incomplete. La racconta lo sguardo triste della ragazza senza nome, che Clara Antoons rende straziante senza dire una parola; la racconta la vaneggiante sofferenza del vecchio Kaplan interpretato da André Wilms, attore per Chabrol, Ozon e per cinque pellicole del finlandese Aki Kaurismäki, che lo volle protagonista di Miracolo a Le Havre (2012). Tra le sue prime interpretazioni per il cinema, come un segno, ci furono Le Tartuffe (1984) diretto da Depardieu e L’insolito caso di Mr. Hire (1989) di Leconte. Oltre a loro, in un cast indovinato spicca la Betty di Jade Labeste, che sul fondo di una vita che ella stessa compatisce porta negli occhi il cinismo e la speranza, in cui non crede ma che ritrova nonostante tutto in un padre putativo che ha il volto del commissario.

Nella seconda parte di Maigret, si fa largo l’intreccio di vite di tre padri – Maigret, Simenon, Depardieu – che Leconte riesce far filtrare tra le maglie del film


Questo inaspettato rapporto genitoriale, che chiama la perversione ma risponde con la dolcezza, apre ad una lettura ulteriore che porta il trauma a cavallo tra realtà e finzione. Per Jules Maigret è la scomparsa della figlia ancora in fasce, per Georges Simenon il suicidio della figlia Marie-Jo, per Gerard Depardieu la morte prematura del figlio Guillaume. Nella seconda parte del film il rapporto padre-figlia, costruito di riflesso su Betty, occupa di prepotenza lo spazio dell’investigazione, che si sposta lentamente sullo sfondo, come un attore che ha fatto la sua parte e torna a confondersi tra la folla. Al suo posto si fa largo l’intreccio di vite di tre padri – Maigret, Simenon, Depardieu – che Leconte riesce far filtrare tra le maglie del film, che vive i suoi momenti più dolci quando si sofferma sul volto confortato del suo protagonista: il lieve sorriso davanti allo specchio, mentre ascolta la moglie e la ragazza ridere sedute alla tavola della colazione, immaginandola la figlia che non ha visto crescere, e l’ultimo saluto prima che lei se ne vada, sulla porta di un vecchio autobus. «Grazie», le dice. «Di cosa?», risponde Betty. «Di niente, di tutto».

Il film di Leconte non si intitola Maigret per arroganza, per un tentativo velleitario di esaurire la visione cinematografica del personaggio di Simenon; si intitola Maigret perché a Leconte interessa l’uomo prima che l’indagine, le questioni umane prima che il delitto. La giovane morta non c’è, nel titolo, perché non è il caso da risolvere, e perché la giovane non è davvero morta, per il commissario – il film lo dice in un commovente finale dove, sul grande schermo, la defunta Louise compare immortalata un’ultima volta (e per sempre) nel ruolo di comparsa di un vecchio film. È vero, Louise non c’è più, vittima innocente di una società spietata che non lascia spazi alle anime sole, e non c’è più sua figlia, ma per ogni giovane vita che se ne va prematuramente ce n’è un’altra che può vivere, un’altra che si può salvare.

 

«Cosa fa per far parlare i sospettati?»
«Li ascolto»

FRA 2022 – Giallo 89’ ★★★


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