Ritoccare la realtà

Intervista a Fabrizio Patriarca, autore del romanzo L'amore per nessuno

Siamo a Firenze, alla libreria caffè La Cité. Alle sette di stasera Fabrizio Patriarca presenterà con Danilo Soscia L’amore per nessuno, il suo ultimo romanzo uscito per minimum fax che racconta le vicende di Riccardo Sala, autore televisivo alle prese con una Medea con protagonista Annamaria Franzoni – «La Franzoni non è un personaggio del mio libro: è un oggetto culturale di cui si parla», dice Patriarca. Prima dell’incontro coi lettori, l’autore mi concede una chiacchierata a cui fa da sottofondo una colonna sonora jazz-elettrica, mentre il locale si affolla per l’ora dell’aperitivo.

Come ti è venuta in mente l’idea di una Medea con protagonista Annamaria Franzoni?
L’idea del libro risale al 2015: stavo ultimando Tokyo Transit, e la mia agente mi chiese su cosa avrei lavorato in futuro. Io le parlai di un’idea che mi frullava in testa da un po’: uno sceneggiatore televisivo che voleva fare un programma con la Franzoni. La sua risposta fu: «Tu sei scemo», la stessa che danno quasi sempre al protagonista nel libro.
Nel libro sono assenti due capisaldi della Medea e della vicenda Franzoni: Pasolini, solo menzionato in una scena poiché inevitabile, e il plastico di Cogne di Porta a Porta. Pensavo di poterla raccontare solo adesso, sapendo che a luglio la Franzoni sarebbe tornata libera. Il giorno dell’uscita del libro poi c’è stata la coincidenza terrificante con la notizia della liberazione.
 

Dopo i fatti di Cogne, c’era una divisione tra innocentisti e colpevolisti. Io e mia madre assistevamo al bombardamento mediatico sul caso e ne discutevamo: io ero un colpevolista; lei, come molte madri, un’innocentista


Nel 2002, dopo i fatti di Cogne, c’era una divisione tra innocentisti e colpevolisti. Io e mia madre, che tra l’altro si chiamava Annamaria, assistevamo al bombardamento mediatico sul caso e ne discutevamo: io ero un colpevolista; lei, come molte madri, un’innocentista. Da anni pensavo a come raccontare quel bombardamento, e quando è morta mia madre ho cominciato a riflettere sulla vicenda in modo diverso. Nel libro c’è una scena di perdono, di una proiezione di perdono, nel momento in cui lui si chiede: «Se mia madre mi avesse ammazzato, io l’avrei perdonata?». Ho deciso di scrivere questo libro perché, in fondo, è un libro sulle madri: e il Capitolo 8, in cui si racconta la morte della madre di Riccardo, credo lo testimoni.
Non lo considero un libro sulla Franzoni, ma un libro per la Franzoni, a lei dedicato. Nel romanzo si contesta la capacità di smantellare il reale e ricostruirlo dal punto di vista televisivo: è ciò che vorrebbe il mio protagonista, che non si rende conto di quel che fa perché è un anaffettivo.

A proposito del tema dell’anaffettività, qual è per te il concetto di “amore per nessuno” confluito nel titolo e che più di una volta ricorre all’interno del libro?
Tutto nasce dall’osservazione del finale della Medea di Euripide. Nelle vicende sentimentali hai sempre a che fare con l’inatteso: Philip Roth le chiamava le «conseguenze impreviste», qualcosa che ti capita e che per uno scrittore è materia incandescente. Il problema dell’amore per nessuno è la spoliazione che avviene scenicamente alla fine della Medea: dalla tragedia ci aspettiamo la morte, l’infamia o la dannazione del personaggio. Il destino travolge tutti nella Medea, ma lei non muore, rimane sulla scena, ed è una scena vuota. Dal punto di vista mitografico Medea avrà per questo una serie di riscritture, e a suo modo anche il mio romanzo ne è una strana riscrittura. L’anaffettività è legata soprattutto alla scomparsa degli oggetti che si possono amare. Non c’è più amore non perché non c’è possibilità di sentimento: manca il bersaglio verso cui dirigerlo.
 

Quel vuoto nel finale della Medea, il panorama spoglio in cui vacilla l’orrore impotente di Giasone, non è l’estinzione dell’amore. È l’estinzione dei suoi oggetti. Perché poi Medea non crepa. Il fatto che sopravviva è il vero sterminio. La tragedia contiene un dramma scarmigliato, un disordine che durerà: non è che l’amore sparisce, è solo che non c’è più niente da amare. Medea ci lascia con l’amore per nessuno.


L’amore per nessuno è colmo di digressioni, di avvenimenti che fanno sì che gli esiti della bizzarra idea del protagonista rimanga sullo sfondo fino a tre quarti della narrazione: questa struttura era dall’inizio nella tue intenzioni o è venuta fuori scrivendo?
L’idea era di non eccedere, altrimenti sarebbe stato un libro sulla Franzoni. Nei primi capitoli ce n’è uno importante, in cui Riccardo discute col suo amico su come fare questa Medea: gli fa da specchio uno degli ultimi, dove ne ragiona con un altro amico. Volevo che al centro ci fosse Medea, non la Franzoni, che però diventa importante nel momento in cui c’è l’identificazione fallace tra mito e realtà. Il libro mira a questo: non devi mai distinguere quale sia il piano reale e quello finzionale.
Nell’epilogo c’è la Franzoni che interpreta Medea: sappiamo bene che il suo è un dramma reale, ma poi versa lacrime di scena. Questa commistione dei piani a me piaceva molto: non volevo raccontare un’idea, ma una storia; per questo seguo i personaggi, ai quali a volte è giusto abbandonarsi.

Riccardo Sala, come un po’ tutti i personaggi del romanzo, pare voglia fare i conti con un immaginario che attinge dai media più disparati (televisione, musica leggera, cinema di fantascienza e non, cultura pop). Come hai lavorato su questo aspetto, alcuni dei gusti di Riccardo corrispondo ai tuoi?
Sì, buona parte deriva dal mio immaginario personale. Se devi mettere in scena dei quarantenni come Riccardo o come Nairobi il giro di riferimenti è quasi obbligato. Loro parlano attraverso  questi riferimenti, ed è un altro segno della loro anaffettività.
È una direzione a cui tengo molto: alcuni scrittori amano avvolgere il lettore, portarlo dentro le riflessioni, mentre io voglio mostrargli l’assenza di psiche e profondità del personaggio, che trova uno sfogo naturale dal punto di vista espressivo nell’aggancio a una catena di citazioni e mondi immaginari. Vale per Riccardo e vale per Nairobi, così come nei capitoli milanesi vale per Jerry, che è uno che ha avuto i mezzi economici per dar sfogo a questa mitomania retrò, e dice una frase della quale sono convinto anch’io: Lacan ha detto che un film è buono se è metonimico. No, un film è buono se c’è un velociraptor. Tu pensa a come cambia oggi il gusto dello spettatore: il velociraptor ti racconta tutto un côté di azione, emozione, irruzione violenta dell’immagine nella quiete della platea, che è ciò che si chiede generalmente al cinema oggi. Jerry è un personaggio aderente a questa nuova estetica.
 

«Ciononostante», insistette Jerry, stropicciandosi l’interno di una coscia, intanto annuiva idealmente all’idea. Ciuffi gomitoliformi di peli argentei gli fecero capolino dall’inguine. «Una spruzzata di clonazione non ci starebbe male», proseguì, «nel senso: Jurassic-style. Un film è buono se è metonimico. L’ha detto Lacan, pace all’anima sua. Ragionava un po’ a cazzo. La verità è che un film è buono se c’è un velociraptor. Prendi The Tree of Life di Malick, film magnifico. E infatti c’è il velociraptor».


Uno dei temi centrali di L’amore per nessuno è il fallimento: non solo quello del protagonista, ma anche di chi gli sta attorno. Per esempio Nairobi, l’uomo di colore, il leopardista-filologo vede sfumare le sue prospettive di carriera universitaria e si ricicla come ghostwriter
Il fallimento mi dà modo di raccontare storie più interessanti. Non ho l’attrazione per i personaggi che chiudono bene il loro telos; anzi, mi piace se a un certo punto questo s’interrompe. Il che spiega certe chiusure brusche dei miei libri: spesso non finiscono, si chiudono con una prospettiva che sta al lettore cogliere.
Nairobi segue una parabola precisa a cui avevo pensato sin dall’inizio: aderisce ai principi della malavita e lo fa nel segno di un’adesione alla banda degli albanesi, i veri filosofi e i veri vincenti. Nel romanzo i vincenti sono gli immigrati di seconda generazione ai quali Nairobi deve aggregarsi, essendo pure lui di seconda generazione. Le parabole ben risolte nel romanzo sono quella degli albanesi e quella della ragazza italo-cinese: sono il mondo del futuro, i più adatti a sopravvivere, e non ti parlo di una colonizzazione o di una sostituzione di culture.
È stato bello raccontare questo aspetto in modo scanzonato, e c’è una posizione che il finale del libro giustifica, ossia che per me tragedia e farsa non sono generi opposti, bensì legati da una scala di riscritture in cui la farsa è la riscrittura apicale della tragedia. Tu puoi riscrivere la tragedia degradandola, travestirla e portarla altrove, addirittura all’epico. Ma riscrivendo, ti rendi conto che quando arrivi al farsesco non sono più possibili ulteriori riscritture: la farsa è l’ultima riscrittura possibile della tragedia. Quando ho iniziato a scrivere sapevo che la voce e il giro di frase da cercare dovevano essere farseschi, dato che tutta la vicenda della Franzoni in televisione, in fondo, è stata una farsa, un po’ come il rimpatrio di Cesare Battisti, circondato dal teatrino televisivo approntato da un paio di ministri.

La tua prosa è senz’altro poco scolastica e assai personale: ricca a livello lessicale, con concessioni all’alto e al basso, al dialettale e agli anglicismi, in linea con l’anima duplice e contraddittoria del protagonista, un uomo che rinnega la propria cultura per adattarsi al sistema della scrittura televisiva. In che modo hai lavorato sullo stile?
Già con Tokyo transit l’idea era di mettere sul mercato un oggetto che dicesse: «Un romanzo si può fare anche così, non è detto che si debba per forza fare l’omogeneizzato o la pronta beva». Si può imprimere al romanzo un passo per cui il lettore è costretto a girarsi nel paragrafo, a porsi domande o a ricorrere al vocabolario. Lì c’era una scrittura forzata, ad altissima definizione, come ha detto Andrea Cortellessa nel recensirlo. L’amore per nessuno voleva essere diverso, con una prosa più divertente e facile da leggere, che creasse meno intoppi nella lettura.
Andando sul problema che segnali, su quanto siano colti i personaggi e quanto piaccia a loro mostrare questa sprezzatura, ti dico che la sprezzatura è tutta nei caratteri di certi personaggi dei miei libri. Riccardo viene definito come uno che ha tolto dalla nicchia sacra Proust e Dostoevskij e ci ha schiaffato dentro Stephen J. Cannell e Donald P. Bellisario, due nomi che chi ha visto Magnum P.I. e Simon & Simon conosce bene
 

Riccardo viene definito come uno che ha tolto dalla nicchia sacra Proust e Dostoevskij e ci ha schiaffato dentro Stephen J. Cannell e Donald P. Bellisario


La mescidanza tra alto e basso, il libro farsesco dai toni seri, crea dei cortocircuiti divertenti: è un modo di agire e di scrivere che mi viene naturale. Poi, facendo il ghostwriter, sono molto invidiato per la posizione che ho: scrivo i libri che mi pare come mi pare e con l’editore che mi pare, tanto quelli che devono vendere li faccio comunque e mi pagano per farli, e quando scrivo i miei ho totale libertà. È la massima soddisfazione che traggo dallo scrivere: andare sulla pagina per conto mio e permettermi di mettere sulla pagina quella qualità tecnica che molti scrittori hanno ma sono costretti a limitare. Sono orgogliosamente contro il mainstream pur trattando temi d’interesse generale, e tra l’approccio al tema e il lavoro sulla prosa preferisco il secondo.

Tra i molti scrittori nominati nel romanzo, sia classici sia contemporanei (Amis, Deleuze, Debord, Houellebecq, DeLillo, Proust, Dostoevskij, Vittorini, Piovene, Bellow, Celine, Boccaccio, Colonna, Borges, Campana, Omero, Sade, Seneca, Tommaso D’Aquino), mi ha colpito molto il personaggio soprannominato Portnoy, il patito di Philip Roth. Non credo sia casuale l’insistenza sul grande scrittore americano, anzi mi sembra che rappresenti una delle principali influenze sul tuo lavoro.
Roth è bello perché è controverso. Per dire, Missiroli nel suo ultimo libro l’ha messo in esergo; mentre Aldo Busi, per me il più grande scrittore italiano vivente, ne dà un giudizio che è quello di un intellettuale segaiolo incapace di toccare veramente la carne e il sangue. La scena della bistecca nel mio libro allude a questo.
Roth è un auctoritas e molti scrittori italiani si considerano suoi debitori: tutto sta nel capire cosa significhi essere debitori. Ci sono autori che, mentre scrivono, dicono di non leggere romanzi per non lasciarsi influenzare. In questa posizione c’è qualcosa di nascosto e di tremendamente superbo: non mi lascio influenzare da Roth, altrimenti scrivo come lui: e quando mai? A parte che non è possibile; ma anche lo fosse, entrerebbero comunque nel giro di frase delle discrasie tipiche del nostro apporto personale, del nostro stile, del nostro schema di pensiero. No, la penso più come Jonathan Lethem: esiste un’estasi dell’influenza. Mi considero uno scrittore che si lascia influenzare molto da quanto ha letto, salvo poi sapere che quando fai un romanzo le citazioni non le metti a caso. La citazione è un gioco maledetto: ti fa capire che ogni discorso, szymborskianamente parlando, è un discorso interrotto, una ripresa di qualcosa già iniziato da un’altra parte, e contribuisce allo spaesamento dei personaggi e in parte del paragrafo. È un gioco, ma lo ritengo molto significativo. Noi stiamo operando una demolizione della nostra cultura che mai come oggi si avverte così potente; e allora mettiamola in bocca ai personaggi, nelle loro azioni, nei loro pensieri.
Se c’è una cosa che odio sono i romanzi troppo mimetici. Abbiamo parlato prima della Medea di Pasolini. Io sono un amante del cinema di Pasolini e dei suoi saggi, ma odio i suoi romanzi: sono cresciuto nelle borgate romane e mi sanno di falso; dell’uomo intellettualmente privilegiato che viene a vedere lo zoo e lo mette in scena secondo le sue ossessioni personali. C’è sempre qualcosa di laccato in quel mimetismo.

Ho trovato L’amore per nessuno un romanzo politico: dice molto sulla contemporaneità malgrado si soffermi soprattutto sugli aspetti privati dei personaggi, pur riferendosi talvolta alla politica in senso stretto – il Movimento 5 Stelle viene nominato più di una volta, e verso la fine in chiave quasi distopica. L’idea di fondo è quella di un presente sfibrato e incerto, cinico, dove un autore televisivo, pur di stupire, vorrebbe scrivere una serie con al centro un’infanticida?
Sì: scrivere è un atto politico, e soprattutto leggere è un atto politico. E il segreto per mettere la politica in un romanzo è parlare degli effetti e non delle cause, sennò diventi un politologo. Il romanzo deve raccontare dei fatti, e i romanzi che ruotano attorno alle idee di solito s’inceppano. Certo, trattandosi di un ambiente come quello televisivo, in un paio di occasioni ho parlato delle cause, stando attento a non rovesciarmi nella politologia: nei momenti in cui ho scritto dei 5 Stelle e di Matteo Renzi. Però guarda dove li ho messi: i 5 Stelle in un progetto televisivo su larga scala, evoluzione della piattaforma Rousseau; Renzi l’ho chiuso negli schermi silenziati di un bar. È la depurazione dell’immagine di cui si parla nel libro.

Oltre a essere uno scrittore, sei anche un editor e ghost per Westegg Editing, nonché saggista e studioso di letteratura – ricordo soprattutto i tuoi Leopardi e l’invenzione della moda e Seminario Montale. Come vivi queste tue differenti anime? E com’è stato vivere l’editing del tuo libro dall’altra parte del tavolo?
Sull’ultimo punto sono lieto di rispondere con un esempio. Col mio editor Alessandro Gazoia ci siamo visti spesso: non solo per lavorare sui file, ma per scambiarci opinioni e discutere. Una delle volte in cui è venuto a casa mia e si è fermato a dormire, abbiamo fatto le tre di notte a lavorare su tre o quattro capitoli del romanzo. La mattina dopo lui doveva andare in minimum fax e io l’avrei accompagnato al treno. Alle sette e mezzo vedo che c’è la luce accesa in camera sua; entro e c’è lui disteso sul letto, col tablet in mano, già vestito. Mi dice: «Vogliamo dare un’occhiata al capitolo cinque?».
 

A volte ti capita di lavorare con uno che ti mette alla frusta, e un editor bravo deve fare questo: mostrarti ciò che non va, gli inceppi, ciò che il lettore potrebbe travisare


A volte ti capita di lavorare con uno che ti mette alla frusta, e un editor bravo deve fare questo: mostrarti ciò che non va, gli inceppi, ciò che il lettore potrebbe travisare. È un lavoro bello da fare ma anche da subire. Io sono tra coloro che santificano tutti i giorni il nome del Signore perché esistono gli editor a darci una mano.
Il saggista che è in me invece sopravvive. Lo vedrai tra ottobre e novembre 2019: per 66thand2nd uscirà un mio libro di viaggi in paesi tropicali. L’autobiografia è in fondo la base di un buon saggio, e lì torna l’animus saggistico: la letteratura di viaggio come osservazione del carattere italiano quando viene trasposto in certi scenari un po’ da “vasca dei pesci”.

Nei ringraziamenti del libro dici che «i romanzi sono degli stronzi», dilungandoti poi sulla fatica e sulle difficoltà della scrittura, aggiungendo: «Quando scrivi costringi chi ti sta intorno a rimodulare giorno dopo giorno i confini della tolleranza». Anche alla fine di Tokyo Transit scrivevi che «scrivere un romanzo è una sfida alla leggerezza». Che futuro vedi per il mestiere di scrittore e per il letterato nell’epoca della leggerezza digitale e della scrittura social?
Finché ci sarà qualcuno che prova nausea nello scrivere, forse la scrittura sarà salva. L’espressione della nausea per me è fondamentale: una metafora buona non può venirti se pratichi il ritrito e il comune. La metafora non funziona sulla pienezza del linguaggio, ma sul disgusto del linguaggio. E nel romanzo tu dovresti cercare le soluzioni nel disgusto e non nella facilità.
Non credo nella felicità dello scrivere, semmai nella fatica che, quando finisci, ti fa scrivere ringraziamenti come quelli. Alla fine tu odi il romanzo: per tre o quattro anni lui diventa l’oggetto al centro delle tue giornate e ti trasforma in uno stronzo. Diventi uno che dice no alla passeggiata con la figlia, che non va a dormire con la moglie e resta alzato tutta la notte a scrivere. Immagino che per tutti quelli che scrivono seriamente un romanzo sia così. Il problema è che non sei mai soddisfatto di quello che fai, anche quando ti accorgi d’aver lavorato bene. Te ne rendi conto soprattutto di sera, quando concludi e pulisci un paragrafo, magari di notte, lo leggi e dici: «Cazzo, che capolavoro!». Poi lo rileggi la mattina e ti sembra una sciocchezza. È la condanna di sentirsi sempre un cialtrone. L’ha detto bene Aleksandar Hemon nell’Arte della guerra zombie, che comincia con una frase incredibile: «Scrivere non è altro che portare il tremendo, massacrante fardello di decisioni prive di conseguenze». Sai di giocare con una materia delicatissima che è il linguaggio, e avrai un effetto magari emozionale su chi ti legge, qualche bella chiacchierata, dei soldi se il libro vende bene. Per il resto, è un affare con te stesso che alla fine ti distrugge.


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