Revenant - Redivivo di Alejandro González Iñárritu

con Leonardo DiCaprio, Tom Hardy, Domhnall Gleeson

È il 1823, Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) è un esploratore e cacciatore americano impegnato in una spedizione commerciale nelle innevate terre tra l’alto Missouri – Montana, North Dakota, South Dakota – e l’area del fiume Platte in Nebraska guidata dal capitano Andrew Henry (Domhnall Gleeson). Staccatosi dal gruppo durante un giro di ricognizione per studiare il percorso più sicuro da seguire al riparo dagli agguati della tribù di nativi americani Arikara, Glass viene aggredito violentemente da un orso grizzly. Creduto dunque spacciato per le gravi ferite riportate e ormai d’intralcio alla traversata dei compagni, viene lasciato sul posto con l’altezzoso Fitzgerald (Tom Hardy) e il giovane Bridger (Will Poulter) ai quali il capitano promette una ricompensa a patto che, giunta l’inevitabile e prossima dipartita, venga concessa all’uomo degna sepoltura. Insieme a loro, costantemente al fianco del padre in fin di vita, c’è anche Hawke (Forrest Goodluck), un ragazzo indiano. Glass resiste oltre ogni previsione ma Fitzgerald, temendo un attacco degli Arikara, tradisce il patto, uccide Hawke di fronte al padre e all’insaputa di Bridger, costringendo quest’ultimo a scappare insieme a lui e ad abbandonare il povero Hugh. Glass però sopravvive incredibilmente, animato da una viscerale commistione di spirito di sopravvivenza e vendetta.

La storia vera di Hugh Glass, già trasposta cinematograficamente in Uomo bianco, va’ col tuo dio! del 1971 di Richard C. Sarafian, interpretato da Richard Harris, trova nella pellicola di Iñárritu un adattamento non fedelissimo alle vicende storiche, più che altro basato sulla versione raccontata nell’omonimo romanzo The Revenant del 2002 di Michael Punke. Il risultato è un’esperienza cinematografica totale. Il regista stesso, a fronte dei nove mesi di riprese in condizioni estreme, dichiara d’aver pensato a volte di non essere in grado di portare a termine il film, momenti «di paura, di difficoltà, di decisioni difficili da prendere, di sacrifici. Ma siamo sopravvissuti, sono qui».
Pur su di un impianto narrativo non impeccabile e a tratti ridondante ed edulcorato, Iñárritu costruisce insieme al suo fidato Lubezki un’estetica imperiosa, nella forma già ampiamente sviscerata dal direttore della fotografia messicano nelle ultime pellicole di Malick e capace anche qui di raggiungere vette di purezza cinematografica. La macchina da presa è presente, fluttua, giustificatamente invade, irrompe nello schermo fino a sporcarsi di sangue, macchiandosi del respiro di Glass, quel respiro che lo tiene sospeso, tra vita e morte, tra presente e passato, un corpo trainato sulla neve tagliente e animato attimo dopo attimo dal calore animalesco e viscerale dell’amore, della vendetta e del brutale istinto del sopravvivere: in una dimensione metafisica bianca, in cui demoni e divinità, viltà ed eroismo, apollineo e dionisiaco si incontrano, rifiutandosi pur in una paradossale e velata accoglienza.

Davanti al pericolo della morte sono posti i due poli dell’umano. Da una parte Fitzgerald, il raziocinio cinico e privo di scrupoli; dall’altra Glass, l’impulso animale guidato da forze sospese, indicibili e inafferrabili. Straordinari Di Caprio e Hardy nel rappresentare una tale duplicità. Il primo, nell’asciuttezza cruda dell’interpretazione senza parola e di un corpo nudo e vero che si scalda dentro la carcassa di un cavallo sventrato; il secondo, nel donare l’austerità e la paura affannosa della viltà, dell’amoralità del tradimento, nel mondo cinico senza Dio (uno scoiattolo da divorare il prima possibile per fermare i morsi della fame) del suo personaggio.
In tal senso, come lo stesso Iñárritu ammette non nascondendo le influenze di Herzog, Kurosawa e Coppola, The Revenant non è un film western ma un percorso spirituale e fisico in un’epoca in cui il West non esiste ancora. E proprio come accade nei film di questi autori, l’epicità non tralascia l’intimità con i personaggi e con la loro dimensione spirituale. Dentro questa dimensione spirituale il respiro, che a fatica sopravvive nel gelo delle Montagne Rocciose, diventa così il vero tema del film, il respiro come impulso alla vita, come graffio vorace di vendetta, come grido di dolore e di paura, come gesto d’amore primitivo. Il respiro scandisce lo spazio e il tempo filmici che lo spettatore non vede, ma vive. Dentro la sala, dentro al quadro cinematografico.

  

«La vendetta è nelle mani di Dio»
USA 2015 – Avv. Dramm. 156’ ★★★½


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