Sergio, uomo mortale nell'Olocene

Su Ricrescite di Sergio Nelli e la lettura incrociata con L'uomo nell'Olocene di Max Frisch

Ci sono opere delle quali è difficile parlare, poiché molte sono le sfumature e i significati che si portano dietro. Il rischio è quello di perdersi dei pezzi per strada, oppure di banalizzarne gli aspetti più complessi, magari nascosti in una singola frase, in un sintagma, in un verso. Ricrescite di Sergio Nelli (Tunuè) appartiene a questa schiera di testi. È un libro «magico», come scrive Antonio Moresco nella Prefazione, e «a parlarne troppo, a starci troppo addosso, lo si soffoca». Da qui, l’esigenza di presentarlo, lasciando sempre al lettore il privilegio della scoperta.
Ricrescite esce la prima volta per Bollati Boringhieri nel 2004, finendo in seguito tra i fuori catalogo. Si sa, la vita dei libri sugli scaffali delle librerie è sempre più breve, specie quando si tratta di gioielli che necessitano di tempo e ponderatezza per essere capiti e amati. Lodevole è dunque l’operazione di Tunué, che inaugura una serie di recuperi editoriali all’interno della sua collana di narrativa con un titolo esemplare sia per l’indubbio spessore letterario, sia per il suo singolare sguardo sulla vita e sulla scrittura.

Il libro è costruito come un diario che si apre il 31 dicembre 1999 e si chiude all’alba del 2000. Dentro alle sue pagine, Sergio pare annotare tutto in maniera indiscriminata: ma proseguendo di poco, il lettore si accorge della sua attenta costruzione, dell’alternarsi di descrizioni, appunti e aneddoti. Il narratore ripercorre ricordi non sempre idilliaci, come quello della meningite che lo colpì da bambino; si sofferma spesso sulla malattia nelle sue varie declinazioni, non disdegna passaggi nei quali con disinvoltura si spazia dalla filosofia alla cacca, dall’interessamento quasi maniacale per i vulcani al mestiere d’insegnante precario. Non è poi un caso che Sergio faccia tenere un diario anche ai ragazzi della sua classe, in memoria dei Diari di San Gersolè (1949), dove la maestra elementare Maria Maltoni mise assieme osservazioni e disegni dei bambini di una scuola nei pressi di Impruneta, in provincia di Firenze. Luogo ricorrente nel testo anche per bocca di Federico, il figlio del protagonista, vero campione d’inventiva e leggerezza.
 

Federico: «Volete gli occhiali dalla pelle lunga o la lancia che va da tutte le parti?»… «Volete il naso che scappa o l’angelo che scende dal quadro?»… «Volete il libro in trappola o il piede tagliato?»… «Volete il dente che va nel cesso o la scimmia col culo infiammato?»… «Volete Sergio che fa la cacca o Milvia la più bella?».


Sono gli interventi di Federico a spezzare e inframezzare un racconto che altrimenti potrebbe anche risultare doloroso, perché il narratore non dà solo voce all’inesorabile fluire delle piccole angosce quotidiane. Per esempio, riporta interviste agli alcolisti anonimi, coi quali intrattiene un rapporto che potrebbe apparire ambiguo ma che, al contrario, è segnato da una sana curiosità per le loro vicende umane. Sergio cerca appigli nelle poesie di Carver e nel John Barleycorn di Jack London per entrare nel loro mondo nebuloso, ritornando poi di nuovo a Federico e alle sue domande impossibili, ai suoi giochi, a un altro universo fatto di cartoni animati, ovini Kinder (come li chiamiamo in Toscana) e folgorazioni per i film di Charlot.
 

Se da un lato l'Io narrante maneggia la prosa come fosse poesia, dall'altro c'è la volontà di descrivere e raccontare la realtà per mezzo dei versi


Ricrescite non è solo un diario, ma anche un prosimetro, giacché il testo alterna le sue prevalenti zone di prosa ad accenni poetici. Se da un lato, in alcune parti narrative, l’Io narrante maneggia la prosa come fosse poesia («C’è un cielo diventato minestrone. E io l’annuso come fosse cibo d’ospedale», «Il presente è gravido, si riempie, si espande. È una matrice che spurga»), dall’altro c’è la volontà di descrivere e raccontare la realtà per mezzo dei versi: un po’ alla maniera del già citato Carver e ponendosi inoltre nel solco della tradizione secondo-novecentesca italiana di nomi quali Sereni o Caproni.


[Le cose che vedo]

Per te lo dico.
Vedo gli stop che s’accendono
all’inverno che se ne va,
mentre uno zingarello sofferente
si affaccia alle vetture con due occhi
che sembrano castagne strofinate.
Gli zingari non hanno nemmeno la capacità
di inscenare una sofferenza verosimile
e si affidano negligenti, neghittosi, distanti
a quella specie di piccola caricatura…
Ponte dell’Indiano è un nodo, un legame,
e il cono d’ombra su
Monte Morello un altro richiamo.
Vedo una lunga fila di nubi
sugli Appennini, sulle Apuane;
nubi in linea ordinata, raggiante,
mentre di nubi pullula l’occidente marino.
 

Non va quindi sottovalutata la presenza di queste poesie, che contribuiscono a rendere il libro ancor più stimolante, grazie anche ai ritratti proposti di luoghi più o meno periferici di Firenze e dintorni: paesaggi e vegetazioni intraviste in lontananza uniti a caselli autostradali e anonimi scorci di provincia.

Ma la miglior definizione di Ricrescite l’ha forse scritta il suo stesso autore: «[il romanzo è] una di quelle esperienze eccezionali in cui non succede nulla e succede tutto, mentre la sua composta letterarietà si rovescia in altro, come sempre si rovescia in altro una scrittura che dà vita a qualcosa di necessario». Parla poi di «scrittura come strumento di resistenza al dolore e alla sofferenza dell’esistere, insieme al ripensamento di un’etica laica sulla finitezza e alla costruzione di una pietas asciutta e secca come un fossile». Queste parole Nelli le ha però spese per l’introduzione a L'uomo nell’Olocene di Max Frisch (1979, Einaudi 2012), un libro sotto molti aspetti sovrapponibile al suo, tanto per la forma-diario quanto per il legame dei due protagonisti con i fenomeni naturali: i tuoni, i dinosauri, l’origine della specie e del mondo prendono parte al collage dello scrittore svizzero e ritornano parzialmente nell’opera dell’autore fiorentino, specie sotto forma di vulcani, «finestre spalancate sulle viscere del pianeta».

Il Sergio di Ricrescite è comunque diverso dal signor Geiser di Frisch: uno parla in prima persona e l’altro in terza; il primo vive immerso nel mondo, a contatto con la moglie, col figlio, gli studenti, gli amici e le persone che incontra, mentre il secondo si trova in un isolamento pressoché totale, in un’esistenza prossima alla fine. Quello che li unisce è però proprio questo: la constatazione della loro fine, di essere entrambi uomini mortali nell’Olocene, viventi non più in crescita ma in de-crescita. Dove Geiser rimira in solitudine il trascorrere del tempo, lo sfaldarsi della sua memoria e l’alternarsi dei fenomeni atmosferici, Sergio vede il suo rifiorire nel figlio ancora bambino: «Federico cresce, io ricresco», scrive. E gli occhi del protagonista aperti sulla crescita di Federico sono forse l’anelito di tenerezza restituito dall’autore al lettore, che nel contempo si trova nelle mani un libro prezioso, multiforme, ironico e commovente, capace di germogliare e crescere nel corso della lettura e della rilettura.


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