Post Tenebras Lux di Carlos Reygadas

con Adolfo Jimènez Castro, Natalia Acevedo, Willebaldo Torres

Anti-narrativo. Tale sembra essere il giudizio comune di fronte alle operazioni artistiche sperimentali. Un giudizio poco intellegibile, se si prende come assioma della narratività l'articolazione di un pensiero logico composto da tesi, antitesi e sintesi. Non esiste cinema anti-narrativo, esiste solo un maggiore o minore grado di coinvolgimento, e quindi di abilità narrativa da parte dell'autore, nello sviluppo di un discorso cinematografico. Un indice di questo grado è individuabile nella congruenza tra forma e contenuto. Una coerenza che in Post Tenebras Lux non è pienamente perseguita. La forma scelta guida senza coinvolgimento la decodifica, risultando criptica e perdendo così il fuoco sul contenuto. Reygadas sceglie di muoversi tra natura e cultura, con riferimenti alti, stratificando il pensiero.

In principio l'ingenuità dell'inesperienza muove i primi passi dell'umanità, in una natura tanto concreta quanto indifferente alle peregrinazioni di un infante che scoprirà ben presto l'umiliazione della conoscenza sotto i tuoni e i fulmini della stessa Madre Terra e, dopo le tenebre, la luce, con tutte le demoniache conseguenze di un profondo atto di coscienza. In questa direzione Reygadas mette in scena, nel suo quinto film, una sequenza iniziale di forte impatto dove una bambina cammina nel verde, tra cani e altri animali, cercando con la voce sua madre e suo fratello. Troverà un temporale, ed a seguire, in un' abitazione anonima, un diavolo entrerà con la sua cassetta degli attrezzi. La conoscenza si è messa all'opera, la partita di rugby sta per iniziare.

L'uomo sceglie di avere il predominio sull'ambiente, la società si divide in classi, un tagliaboschi sega un albero imponente, Juan (A. J. Castro) vive nella sua villa, impartisce ordini ai suoi dipendenti, percuote e colpisce i suoi cani. L'istinto obbedisce ad una volontà tediata che sfocia nel vizio. Il sesso, ambito naturale per eccellenza, è il dominio su cui l'assertività culturale presenta maggior potere normativo: è quindi l'esistente a definire in sé le proprie categorie interpretative o la prescrizione culturale a mediarne l'interpretazione? Reygadas prende posizione dal momento in cui Juan e Natalia (N. Acevedo) si muovono nelle orgiastiche saune dedicate ad Hegel e Duchamp, così se il primo asserisce che l'ideale è reale, il secondo decreta, in senso husserliano, l'assoluta indipendenza dell'atto di coscienza dalla realtà naturale, la non consequenzialità di causa-effetto tra percezione e assunzione di verità, superando il conflitto di partenza. Se l'oggetto, dopo Duchamp, è libero dal suo significato, cambiando forma a tal punto da diventare esso stesso un nuovo referente, Natalia è libera di donare il suo corpo ad una moltitudine di uomini.

Fondato il discorso sulla dicotomia Natura/Cultura, queste si rivelano complementari, e si rincorrono superandosi a vicenda. Così Juan e Natalia entreranno in crisi. Juan verrà ferito da un colpo di pistola durante una rapina nella propria abitazione, un personaggio si autoinfligge una decollazione in un campo, una pioggia di sangue e la caduta di un albero sanciscono definitivamente il dominio fenomenologico dell'essere coscienza. Una coscienza che Reygadas traspone con sentire autarchico, sfocando pressantemente i bordi dell'inquadratura e sdoppiando spesso i personaggi al suo interno. Una scelta stilistica che svilisce la riflessione che vi soggiace per il suo essere diretta, scadendo nella trivialità della manifestazione amatoriale. Inoltre la struttura narrativa perseguita predispone lo spettatore alla visione allegorica ma non convince mai della propria arbitrarietà, impedendo all'interpretazione di radicarsi nei sensi, restando quindi solo un buono spunto di riflessione.

 

«Scusate, sapete dov'è la sala Duchamp?»

MEX-FRA-PAESI BASSI-GER 2012 – Dramm. 120’ **½


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