Le Juif, voilà l’ennemi - Parte Seconda

L’irruzione dell’elemento ebraico nella «genealogia degli errori moderni»

2. La mano e l’oro di certi Ebrei

Alla metà del secolo XIX, una nuova ondata rivoluzionaria scuote il continente e porta in strada i dirompenti effetti dei cambiamenti sociali suscitati da un’industrializzazione ormai avviata in buona parte dell’Europa centro-occidentale. Se da una parte sono i ceti minacciati nel loro status quo a percepire pericolo e paura crescenti per lo sgretolamento del proprio sistema di valori, dall’altra sono le classi emergenti e in via di formazione a sentirsi schiacciate su una condizione di precarietà: il fronte della protesta contro la civiltà moderna e i suoi beneficiari si amplia e si articola tra naturali avversari e potenziali collettori. Mentre la Chiesa si ripiega sempre più sul pensiero intransigente, decisa com’è a chiudere gli spiragli di dibattito ancora aperti nella prima metà del secolo, i temi antiebraici si spandono fuori dagli ambienti confessionali e mettono radici ai poli opposti del panorama politico, nutriti dalla vistosa e inarrestabile ascesa degli Ebrei. Come nell’ebreo la nascente cultura socialista vuol vedere il simbolo della borghesia e insieme l’espressione dell’alienazione religiosa, così i movimenti nazionalisti in fermento vorranno trovarvi l’alfiere di quella modernità che mette a repentaglio la tenuta dei valori tradizionali e contro il giudaismo secolarizzeranno pensieri, parole e opere dell’antiebraismo cristiano. In particolare, quell’idea fondamentale che è un guasto originale a pervertire la natura del popolo ebraico sarebbe stata riformulata con grande successo in termini razzistici sostituendo la maledizione divina con la qualità del sangue.

Facile e istintivo, quindi, rilevare empiricamente dall’ambito politico e sociale che gli Ebrei van cavando grandi benefici da quella civiltà moderna di cui, come si è detto, chi osserva i tempi Bibbia alla mano rintraccia l’origine in una grande cospirazione anticristiana. Qui, ancora in seno all’idea della strumentalità del popolo ebraico, si procede al riarmo di un arsenale antico di stereotipi, credenze e giudizi negativi. Così nell’Ebreo di Verona, romanzo a puntate che il padre Bresciani pubblica sul foglio vaticano «La Civiltà Cattolica» nel 1850: «Gli Ebrei d’Italia, di Germania, di Polonia, di Boemia e d’Ungheria ci prestano aiuti d’ogni ragione. Essi danaro, essi tipografie, essi libri, essi stampe d’ogni bulino; ma ciò che importa meglio, essi uomini d’ogni condizione, d’ogni età che viaggiano sotto vista di commessi di commercio, e ci recano un servizio che mai più fedele e sicuro.[…] non è grandezza d’animo, non è generosità, non cortesia che ce li affratella così strettamente, è la rabbia di Giuda. Purché la risurrezione d’Europa ricrocifigga e riseppellisca il Nazareno ci darebbono insino alla pelle.[…] gli Ebrei d’oltre i monti […] son liberi, colti, ricchi, frequentano le università, s’avvolgono fra le gentili brigate, hanno traffichi in tutti i porti, banchi in tutte le metropoli: sono adoperati in tutti i carichi dai governi,e poco meno che non sono gentiluomini di camera ne’ palazzi reali». Chi parla è un massone ed eccoli, questi Ebrei, con le mani in pasta; eppure ancora servili. Altri autori ancora non si discostano da questo paradigma; ma nel 1858, e destinato a rapide ristampe, esce L’Église romaine en face de la révolution di Jacques Crétineau-Joly. Riepilogando sette decenni di rapporti tra la Chiesa e la civiltà moderna, il fervente francese non esita a dire che «Non sarà difficile per la storia sorprendere la mano e l’oro di certi Ebrei, tedeschi o italiani, nel suscitare le rivolte e nell’aprire la strada alle passioni anarchiche. È una vendetta di diciannove secoli quella che i deicidi complottano contro il Calvario». È una prima chiara formulazione della responsabilità degli Ebrei negli sconvolgimenti moderni; una prima formidabile lettura del dato empirico tratto dalla politica e dalla società del tempo secondo gli schemi intellettuali di una tradizione antiebraica straordinariamente capace di dare continuità e omogeneità storiche agli oggetti della propria critica. Certo, Crétineau-Joly insiste col rintracciare ancora nelle eresie, nel giansenismo, nel gallicanesimo, nel filosofismo, nella massoneria, insomma nelle varie sette tutte tra loro interconnesse il cuore pulsante e le arterie della rivoluzione, e sottolinea che «Il numero dei ebrei che intraprendono questo commercio di odio e di vendetta è assai ristretto». Ma la condizione dell’esistenza di una tradizione antiebraica, ovvero della continuità storica del giudizio sugli ebrei, è proprio il riconoscimento di una condizione collettiva all’origine del ruolo nefasto che Israele mena nella storia. Ci sarà pure spazio per sentimenti strettamente individuali,  ma fuori dal circuito dei rapporti affettivi interpersonali non possono permettersi mezzi termini nel giudicare gli ebrei; in potenza, non si può non vedere in ogni ebreo quel certain Juif la cui mano si cela dietro le révoltes e le passions anarchiques, non si può non fare di quei certains Juifs l’espressione dell’intero popolo ebraico.

L’Église romaine en face de la révolution ha una diffusione sensazionale e diventa il vademecum di ogni antigiudeo presente e futuro; ne sia prova che il dettato di Crétineau-Joly confluirà, aggiornato, nel materiale all’origine Protocolli dei savi di Sion. Rilanciati e rielaborati anche da forze secolarizzatrici e nutriti del dato sempre fresco dell’attualità politica, i vetusti temi antiebraici rifioriscono nella penna dei pubblicisti di fazione e forniscono argomenti e obiettivi al nascente antisemitismo cattolico, che del tradizionale antiebraismo cristiano rappresenta la declinazione nel momento sociopolitico presente. In tale complessa dinamica giocano un ruolo ugualmente fondamentale il fattore politico e sociale e quello teologico e religioso, che vorrebbero sostenersi e illuminarsi a vicenda. Un uso esclusivo della categoria del capro espiatorio sarebbe riduttivo e pericoloso, nel momento in cui si estenderebbe a tutti gli attori politici la paternità del discorso e della mentalità antisemiti, e quindi se ne confonderebbero le origini rischiando di nasconderne la radice essenzialmente cristiana. Da secoli la tradizione antiebraica cristiana decreta l’estraneità di Israele rispetto al corpo sociale e l’accusava di ritardare la salvezza promessa da Cristo con l’ostinato rifiuto di quella conversione che, come dicono le Scritture, avrebbe aperto il Regno dei Cieli; senza questo nutrimento intellettuale e operativo, difficilmente la sola analisi dei fatti contemporanei porterebbe alla radicalità delle proposte di un antisemitismo sempre più spietato e preciso nell’individuare negli ebrei i principali fautori di una civiltà moderna di cui, di volta in volta, si stilizzano singoli aspetti per produrre una condanna totale; che se ne abbia in odio lo spirito borghese e liberale, quello laico e anticlericale, quello democratico, socialista o internazionalista, dipende  dallo schieramento da cui pure sa levarsi un crescente e coerente sentimento antisemita. A questa predisposizione mentale di cui l’Europa volente o nolente è tutta imbevuta vanno incontro rivelazioni spettacolari, falsi costruiti secondo le attese, elucubrazioni storico-teologiche rispondenti ai canoni e ai procedimenti della cultura confessionale. Un’esperienza millenaria afferma che gli ebrei sono colpevoli; che di qualsiasi male i cristiani facciano loro sono essi stessi i responsabili con le loro atroci malefatte; basta scriverlo sui giornali per dare alle accuse e agli accusati di un tempo la forza travolgente dell’attualità e dei contemporanei. Alla fine degli anni Sessanta, sull’onda lunga dell’opera di Crétineau-Joly, la carta stampata ha già preso a suggerire all’opinione pubblica un universo di manipolazioni, rielaborazioni, pastiches giornalistico-letterari che delineano sempre meno nebulosamente la presenza dell’Ebreo dietro alla drammatica scristianizzazione che il mondo civilizzato sta mettendo in atto. Ma manca ancora il nesso finale, l’anello che chiuda il cerchio tra i pregiudizi del passato e le osservazioni del presente, l’analogia definitiva che proietti sui malfattori di un tempo la responsabilità dei mali del tempo.

Ed ecco il 1870, annus terribilis. Nel giro di poche settimane, tra l’estate e l’autunno, crolla a Sedan il Secondo Impero di quel Napoleone III che aveva fondato il suo potere sul consenso della gerarchia ecclesiastica e che con la forza delle armi aveva a lungo impedito che Roma cadesse nelle mani dei patrioti italiani, vera masnada di serpi massoniche. È quel che succede il 20 settembre 1870, coi bersaglieri che varcano Porta Pia sbrecciata e la Roma capitale della cristianità trasformata d’un tratto nel fulcro di uno Stato fieramente anticlericale; il Santo Padre, quel Pio IX che a qualcuno, nel 1846, era parso il «papa di Gioberti» e che poi nel 1864 aveva detto chiaro e tondo nel Syllabus che la modernità col Vaticano non aveva nulla da spartire, prigioniero in casa propria, novello Cristo crocifisso. Di lì a poco il kulturkampf promosso da Bismarck nel nuovo Impero tedesco, la «concentrazione repubblicana» che in Francia minaccia di scalzare per sempre il cattolicesimo dal suo ruolo di guida della società, i liberali austriaci che fanno denunciare il Concordato del 1855 accentueranno il senso di accerchiamento che nei terribili anni Settanta spinge Pio IX e con lui i settori dominanti della gerarchia ecclesiastica a sigillarsi definitivamente nel rifiuto della storia. È dalle pagine de «La Civiltà Cattolica» che, per la penna del padre Raffaele Ballerini, nel 1876, la paura odierna si salda all’antica, e gli attuali persecutori indossano, per un attimo fugace ma incancellabile, i panni degli antichi aguzzini: «Variano in ciascuno Stato i gradi del morbo: ma tutti ne sono infetti. Quale per profonda malizia, quale per interesse politico, quale per vano timore, tutti […] si sono in qualche modo accordati nel mettersi contro Dio e contro il suo Cristo, nel romperne la santa legge e nello scuoterne il giogo salutare […]. Tutti, in una parola, si sono intesi per escludere Gesù Cristo dalla loro civiltà, ripentendo il detto della Sinagoga contro Cristo Re: “Nolumus hunc regnare super nos” (Luc. XIX, 14): vogliamo vivere separati dalla Chiesa, per la quale e nella quale Cristo regna; vogliamo la secolarizzazione universale».


Parte della serie Impossible antisémitisme

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