Perez. di Edoardo De Angelis

con Luca Zingaretti, Simona Tabasco, Marco D'Amore, Massimiliano Gallo, Gianpaolo Fabrizio

Fuori concorso alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia, nella sua opera seconda il napoletano Edoardo De Angelis porta con sé gran parte del reparto tecnico – la cinerea fotografia di Ferran Paredes Rubio (Febbre da fieno, Zoran, Il mio nipote scemo), le musiche di Riccardo Ceres – e artistico – Luca Zingaretti, Gianpaolo Fabrizio, Massimiliano Gallo – del suo originale esordio Mozzarella Stories, d’ispirazione altrettanto campana, virandone i toni grotteschi verso il dramma di una città notturna e fosca restituita dalla soffocante e spettrale verticalità dei grattacieli del Centro Direzionale di Napoli.
L’avvocato Demetrio Perez (L. Zingaretti) ha scelto una vita da ultimo, rinunciando alla carriera in favore di un’apparente stabilità. Ma quando la figlia Tea (S. Tabasco), l’unica cosa a cui tiene e a cui tutto il suo mondo ruota attorno, s’innamora del camorrista Francesco Corvino (M. D’Amore), figlio di uno dei più potenti boss della zona, la sua situazione si complica.

L’apertura è folgorante. Un’alba sporca, un silenzio surreale, la macchina da presa scende tra i grattacieli, si immerge nel mare di finestre, nel mondo di Perez. L’avvocato esce dal portone, di spalle, per la corsa mattutina. Corre nel silenzio deserto del mattino. Una voce amica urla il suo nome, un sorriso, un tonfo sordo. La raffinatezza della regia di De Angelis sta tutta qui, nella dolcezza con cui si cala nel fango, con cui indaga la dimensione intima del crimine, del dolore, in un quadro di solitudine dipinto con una fotografia livida e scavata come il volto di Luca Zingaretti, un Perez che porta con sé il peso dell’ignavo, una vita in sordina al riparo dall’infelicità. Nel metterla in scena De Angelis, che è anche autore della sceneggiatura con Filippo Gravino, tesse fini nodi di scrittura e modella sequenze suggestive, dall’incontro finale tra i pini illuminati da squarci di luce alla potenza dell’intermezzo bucolico – il toro imponente, l’indiano silenzioso –, in un catartico rapporto con la natura, lontano da un’umanità sintetica. E nonostante la pericolosa spontaneità della Tea di Simona Tabasco e la problematicità del Corvino di Marco D’Amore, scavano ancora più a fondo i personaggi secondari, dall’ambigua onestà del boss Buglione all’estrema drammaticità del collega e amico Ignazio Merolla – uno strepitoso Gianpaolo Fabrizio – che ha perso il figlio e vive una vita al limite della sopravvivenza. «A volte piango» dice «ma non sento niente».

Per la riuscita del film tanto si deve alla particolare cura del suono, in un alternarsi evocativo di vetri, venti, rumori stradali e metropolitani. «Ho cercato soprattutto di utilizzare molti rumori di fondo, molti oggetti che avevo in casa, da anelli a bicchieri», dice Riccardo Ceres, autore di un’eterogenea colonna sonora fatta di fiati caldi e gravi e di improvvisi sfoghi elettronici. «Ogni città ha un rumore di fondo suo particolare e non dichiarando palesemente in che città è ambientato il film, pur intuendola, ho cercato di creare un suono di quel luogo», il suono rarefatto della città di Perez. Stridente, instabile, sintomo di un equilibrio precario e di un ordine di cose sempre sul punto di infrangersi. Perez non è soltanto un protagonista, Perez è un luogo dell’anima, cupo e opprimente, che tende alla luce ma resta perennemente immerso nel buio. «Mi ha sempre affascinato la zona grigia in cui criminali e persone per bene si incontrano» dice il regista «è la zona non geografica più vasta dell’umanità». È la zona grigia della solitudine, la zona grigia di un rapporto prima incrinato ora ricongiunto di fronte ai fuochi delle ville di Baia Domizia. Un padre e una figlia, due legami spezzati. Le note, la voce rotta di Powa dei tUnE-yArDs in sottofondo. Due bicchieri già vuoti, due anelli sul tavolo in un bar deserto. È di nuovo l’alba.

 

«Ora ti sei calmato, è vero, perché credi che peggio di così non può andare? Sbagliato»

ITA 2014 – Noir 94' ★★★½


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