Zoran, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto

Giuseppe Battiston, Rok Prašnikar, Roberto Citran

Premio del pubblico per il miglior film alla 28esima Settimana della Critica a Venezia, Zoran, il mio nipote scemo è l’esordio al lungometraggio di Matteo Oleotto e del Friuli, raramente ritratto al cinema con tanta passione e fedeltà.
Paolo Bressan (G. Battiston) è un quarantenne alla deriva che passa le sue giornate a bere, a evitare i vigili urbani e a lanciare sassi alle vetrate della casa di Alfio (R. Citran), datore di lavoro e nuovo compagno di un ex moglie di cui è ancora innamorato. La sua vita cambia quando è costretto dalla morte di una zia sconosciuta ad occuparsi del nipote Zoran (R. Prašnikar), singolare ragazzino sloveno dagli enormi occhiali e dalla parlata forbita.

D’inestirpabile cinismo e di rara, umana cattiveria il mattatore Battiston – fisicamente ben più di un alter ego del regista, che gli ha scritto il personaggio addosso – mette in scena un personaggio aspro e dolente, costantemente ebbro di un vino che colma gli affetti perduti. Lo circonda uno strepitoso microcosmo che prende vita nell’osteria di Gustino, in mezzo a un pugno di simpatici ubriachi; dall’Alfio di Citran all’Ernesto di Maranzana, fino alla piccola Anita della deliziosa Doina Komissarov a nessun personaggio è negato l’affetto sincero dell’autore.
E l’esordiente Rok Prašnikar, forse persino aiutato dalla sua non conoscenza dell’italiano, restituisce con estrema bravura la spaesata, tenera figura di Zoran Spazapan, adolescente fuori dal tempo che ha imparato l’italiano con due romanzi: Lampi sull’Isonzo di Giulio Previati e Lacrima di fanciulla di Enrico Cosulic. Due capolavori.

Pervaso da una malinconia balcanica fotografata nel verde bruno della terra friulana, Zoran si immerge nella sua tradizione enologica e mettendo in guardia dalle derive più grigie ne sugge la cultura e la freschezza, il brio e l’aspetto conviviale che da sempre ha reso ricco, al di là del gusto, il vino. El vin tien su la vita canta il coro, il vino sorregge la vita: ne è parte costitutiva e decorazione, la permea e la onora in una regione dove il vino è religione e la terra è vigna. Dove i vigneti si estendono a perdita d’occhio, senza limiti e confini.
Gioca con finezza, sul tema del confine, che è geografico (Italia e Slovenia), anagrafico (il quarantenne Paolo e il sedicenne Zoran) e umano a un tempo. Quel confine che è conflitto nella testardaggine di Paolo, che ancora chiama la Slovenia Jugo e Zoran Zagor – «Mio nome è Zoran Spazapan» «Chiamati come vuoi l’importante è che devi stare muto!» – , ma opportunità per il giovane nipote, che pur nella sua timidezza vuol conoscere la ricchezza del diverso – la bionda Anita, il tanto odiato coro – e che del diverso è emblema.

Il grande pregio dell’alcolica opera prima del regista goriziano, in controtendenza con la moda italiana della farsa che in tutto abbonda e tutto appiattisce, è di vivere di commedia e non di comico, di sorriso e non di riso. E anche quando vuol ridere, nella miglior tradizione italiana, di ridere amaro. Nel mischiare i temi e i toni, le figure e le culture, in questo ridere intelligente, memore della lezione di freccette di Sylvain Chomet, Oleotto ha centrato il bersaglio.

 

«El vin fa allegria, l’acqua zè el funeral.
Chi lassa el vin furlan, zè proprio un fiol de un can»


ITA-SLO 2013 – Comm. 103' ***


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