La notte

La trilogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni

I palazzi e il frastuono, la città assordante riflessa sul vetro, realtà impalpabile che risucchia come giù dentro a un baratro, in seno al vuoto estremo dei sentimenti che insolente si mischia al cemento delle grandi costruzioni milanesi. La riflessione intellettuale non sembra essere sufficiente a trovarne salvezza e riparo, non riesce a eludere il meccanismo d’ingabbiamento e alienazione che svilisce e sfianca anche l’uomo con acume e sparuti sprazzi di lucidità letteraria che gli consentono di afferrarne la perversione degli ingranaggi propri della contemporaneità capitalistica ma non di capovolgerne le disastrose e irreversibili conseguenze nella sfera puramente umana.
Tommaso è sul suo letto d’ospedale a patir le sofferenze del suo male, assopito dalla morfina e ormai giunto al capolinea nel disincanto di chi sa che sta per andar via. Il conforto di una coppia di cari amici, gli unici veri, è la soglia della sua rassegnazione mentre la madre silente siede a una sedia a tiepida distanza dal figlio.

Giovanni Pontano, scrittore quarantenne, fresco di pubblicazione del suo ultimo libro La stagione, vive le noie del rapporto insapore con la moglie Lidia. Una giornata trascorsa per intero dentro a un vagare affettivamente asciutto e peregrino che  dalla tarda mattina all’alba del giorno seguente li condurrà per inerzia da una visita in ospedale alla periferia milanese e poi ancora a una festa mondana nella villa del tale imprenditore Gherardini, tra invaghimenti passeggeri, amplificati e non consumati, e parole scarne e inconsistenti, prive di sapida autenticità.
Lo spazio filmico rarefatto di Antonioni così si accartoccia adagiandosi tra le crepe del lento sfaldarsi del sentimento che un tempo univa i due protagonisti ma allo stesso tempo si erge imponente e tiranno dominandoli crudelmente mentre dentro essi vi si muovono smarriti e inoperosi. Non è un caso che la narrazione parta dall’amico Tommaso che sul letto morente riceve i complimenti di Giovanni per un articolo scritto sul filosofo Theodor Adorno, illustre esponente della Scuola di Francoforte che proprio in quegli anni sottolineava l’alienazione dell’uomo e la disumanizzazione dei rapporti sociali nell’era del capitalismo, sfilacciati e meramente ridotti al vortice del consumo e dell’apparenza.
«È davvero incredibile come non si ha più voglia di fingere a un certo momento […] ormai vedo le cose con molta più lucidità» – dice Tommaso ai due amici.

Lidia vaga senza meta per la città, si allontana sempre di più, quasi di nascosto; come una bambina sedotta dal fascino del proibito e dello sconosciuto fuori portata, ma allo stesso tempo impaurita dall’essersi spinta troppo in-là distante dal conforto della casa. Il traffico, i clacson, il chiacchiericcio e ancora il vuoto assordante, privazione di senso, assenza di pienezza relegata altrove fuori campo, o al massimo e a gran fatica in disparte, a margine. Il muro enorme e piatto di un palazzo cittadino riempie il quadro, concedendo alla lunga passeggiata di Lidia solo una piccola porzione percorribile. Aerei, elicotteri, razzi e perciò ancora rumore, frastuono e incapacità di agire. «Forse quella ragazza adesso è felice» – «Perché?» – «Perché è irresponsabile».
Lontano, nella periferia dove ormai ci sono solo ricordi sbiaditi, qualcosa sembra non essere cambiato ma ciò forse non basta e, ancor peggio – deterministicamente – non sembra esservi rimedio alcuno che ne sovverta le sorti, come una piccola colata di cemento, che sbadata fuoriesce dal barattolo che la contiene, non può far altro che travolgere il terreno su cui trasuda e tutto ciò che le sta intorno. La donna telefona al marito, pregandolo di andare a prenderla. Giovanni e Lidia si rincontrano a Sesto San Giovanni: «È strano, non è cambiato niente qui» – «Cambierà, cambierà molto presto».
Rincasati i due cercano qualcosa da-fare, cercano di colmare la mancanza di quel ‘qualcosa’ di cui non riescono a delineare per bene i contorni e ciò permette loro di arrivare solo a piccole, effimere illusioni, nell’inutilità specifica di un colmare sciatto che sa come di un riempire un barattolo col cemento. «Ti prego, non minimizzare sempre la mia parte. Posso avere anch’io i miei pensieri» – «In questo momento quali sono?» – «In questo momento non ne ho, ma ne sto aspettando uno. Lo sento venire, è qui».

Alla festa Giovanni s’invaghisce della giovane e bella Valentina, figlia del padrone di casa che sta in disparte a leggere, annoiata ai margini della scena. «Il ritmo della vita del tempo è nelle vostre mani, forse anche il futuro è nelle vostre mani» – confessa lo scrittore rivolgendosi all’industriale Gherardini.
Poco dopo aver scoperto che l’amico Tommaso è appena morto Lidia vede il marito baciare la ragazza. «Stasera ero molto triste, poi giocando con te m’era passata. E adesso sento che mi ripiglia. È come la tristezza d’un cane […] A me sembra che l’amore debba limitare una persona, qualcosa di sbagliato che fa il vuoto attorno» – ammette Valentina – «Ma non dentro», risponde Giovanni.
Passeggiano per la casa buia, i volti opachi riflessi sul vetro, la pioggia battente; l’assurdità della fragilità della loro noia. La segretezza del sentimento è rimandata alla macchina, alla materia asciutta del nastro, così crudelmente meccanizzato e forse per questo ora vuoto e privo di senso. Valentina non riesce a comunicare la sua angoscia e si apre a Giovanni facendogli ascoltare una registrazione dei suoi pensieri: «Io non vorrei udire suoni inutili, vorrei poterli scegliere durante la giornata. E così le voci, le parole, quante parole non vorrei ascoltare. Ma non puoi sottrarti, non puoi far altro che subirle». Poi con capriccio cancella di colpo il contenuto del nastro.

La notte è passata. Mentre il marito era impegnato nel gioco complice innescatosi per caso con la giovane Valentina, Lidia si era lasciata condurre dalle avances di un giovane, pur non assecondandole. La coppia si rincontra e poi abbandona la festa. Nulla resta negato. La pioggia li ha bagnati, ma non purificati, se non forse nel risoluto epilogo in cui la parola interdetta è finalmente scongelata da un fugace barlume di sincerità. «Se stasera ho voglia di morire è perché non ti amo più, sono disperata per questo. Vorrei essere già vecchia per averti dedicato tutta la mia vita. Vorrei non esistere più perché non posso più amarti» – confessa Lidia al marito. Non sembra esservi null’altro che uno scarno esistere, immersi nel grigio di una distesa in un’alba incolore. Gli alberi, la terra, la violenza di un bacio.


Parte della serie La trilogia dell'incomunicabilità di Michelangelo Antonioni

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