Nomadland di Chloé Zhao

con Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Swankie, Bob Wells

Leone d’oro, miglior film, miglior regia, miglior fotografia e miglior attrice protagonista ai Bafta, miglior film drammatico e miglior regia ai Golden Globe, miglior film, miglior regia e miglior attrice protagonista ai Premi Oscar. A cavallo tra il 2020 e il 2021, tra pandemia, chiusura delle sale e uscite in streaming, Chloé Zhao con Nomadland ha fatto incetta di quasi tutti i premi possibili ed è arrivata agli Oscar da favorita, vincendo le categorie più importanti e diventando la prima donna asiatica nonché la seconda donna in assoluto a vincere il premio per la miglior regia – dopo Kathryn Bigelow, che lo conquistò nel 2009 con The Hurt Locker. La sua storia, una versione più contemporanea che riporta nel contesto sociale il mito della vita nomadica portato sullo schermo da Into The Wild, affonda le radici tra i deserti dell’Arizona e le badlands del South Dakota, nelle terre e sulle strade nordamericane.
La sessantenne Fern (F. McDormand) è una donna sola che dopo la perdita del lavoro e la scomparsa del marito, nel periodo seguito alla crisi del 2008, lascia la sua casa ad Empire, in Nevada, per vivere viaggiando a bordo del suo furgone. Durante la sua vita errante si avvicina alla filosofia nomade di Bob Wells – guru della comunità nomade che ogni anno organizza Quartzsite, in Arizona, un raduno di vandwellers a cui partecipano migliaia di persone – e condivide il proprio percorso con l’amica Linda May, la vicina di parcheggio Swankie, con l’anziano Dave (D. Strathairn) che incrocia più volta la sua strada e, con tenerezza e in punta di piedi, vorrebbe qualcosa in più dal loro rapporto.

La regista cinese Chloé Zhao, da vent’anni negli Usa e già autrice di Songs My Brother Taught Me e The Rider (Art Cinema Award a Cannes), continua con il suo terzo lungometraggio il proprio personale percorso nelle lande americane, sostituendo ai cavalli e ai pick-up i van dei nomadi statunitensi. Tratto dal libro di Jessica Bruder Nomadland - Un racconto d’inchiesta (2017), pubblicato in Italia da Edizioni Clichy con la traduzione di Giada Diano, il film prende le mosse dal reportage narrativo della giornalista statunitense sulla vita nomade e porta sullo schermo alcuni dei suoi personaggi principali. Come nelle sue opere precedenti, Zhao non rinuncia alla scrittura di finzione, ma la integra portando nella storia caratteri di realtà – o viceversa, si potrebbe dire –  che in questo caso coincidono con i volti e con le storie dei nomadi. Mentre Fern è un personaggio vero e proprio ispirato in parte alla stessa protagonista Frances McDormand, al contrario Bob Wells, Linda May, Charlene Swankie sono personaggi reali che espongono se stessi alla macchina da presa. Zhao indaga il loro passato da vicino, con primissimi piani e cercando di catturare l’essenza tramite la loro spontaneità, come racconta in una bella intervista collettiva per la CNN.
 

Linda May: La troupe era così entusiasta. Alla fine ho saputo che avevano riunioni mattutine e discutevano su che cosa avrebbero girato nella giornata, quindi Frances sapeva che cosa cercavano di catturare. Io non sono stata inclusa in quelle tavole rotonde – tutto per il meglio.

Zhao: Con attori non-professionisti, non mi piace provare. Con un grandangolo vicino alla persona, la lente è molto sensibile a cose non autentiche. Perciò anche se il primo ciak potrebbe non essere utilizzabile, qualche volta quel ciak può contenere qualcosa che non è ripetibile. E mi odierei se non l’avessi filmato.

Swankie: Mio dio quella macchina da presa era così grande, e veniva così vicino alla mia faccia. Ti dimentichi della macchina da presa dopo un po’ – fino a che non vedi il film in IMAX e ti rendi conto che le tue rughe sono state moltiplicate di 50 volte.


Nell’armonizzare la verità di questi volti e di queste interpretazioni, Zhao sceglie come protagonisti due attori dall’invidiabile naturalezza come Frances McDormand, così peculiare in ogni suo ruolo eppure in grado ogni volta di portare in scena una dose importante di realismo, e David Strathairn, sempre straordinario nella sua sobrietà dimessa. La loro capacità di scomparire dentro i personaggi, di mimetizzarsi tra i non professionisti e diventare Fern e Dave, è tale da far credere allo spettatore, in concerto con lo stile registico di Zhao, di stare assistendo davvero ad uno spaccato documentaristico delle loro vite.

La delicatezza con cui Nomadland si prende cura dei propri personaggi è senz’altro la sua componente più forte. La fotografia, per quanto celebrata e in dialogo con la tradizione cinematografica del western americano, è talmente ricercata da apparire artificiale – possibile che sia sempre tramonto? possibile che Fern viva la sua vita controluce? – e unita alle musiche ripetitive e monotone di Ludovico Einaudi dà l’idea di un’emozione ricercata, non spontanea. Sembra che il film voglia forzare questa comunione naturale sui propri personaggi, che invece da quella natura grandiosa sembrano distaccati, mai in connessione reale e sempre sfuggenti, caduchi di fronte all’imponenza dei paesaggi, come figurine giustapposte su uno scenario di cui non fanno mai davvero parte. Ma mentre le scelte luminose sfiorano l’oleografia, le interpretazioni recuperano quella spontaneità che le immagini a volte perdono; la recuperano negli sguardi dei personaggi, nelle loro parole delicate, nelle loro storie reali. La vera connessione il film la trova non con le distese naturali, ma con questi vagabondi che si muovono senza una meta precisa se non il viaggio stesso, e diventa commovente il semplice incontro con un figlio per cui si è stati poco presenti o una birra con un ragazzo lontano dalla propria famiglia, un abbraccio con un’amica che sta per partire o una storia raccontata intorno al fuoco – un tòpos che ricorre in tutto il cinema di Chloé Zhao. Di tutte le cicatrici che nel film emergono nei rapporti tra i personaggi, le più toccanti sono quelle nascoste di Fern; il dialogo in camera da letto con la sorella, la fuga solitaria dalla casa in cui la famiglia di Dave l’ha accolta, il ritorno nella casa vuota ad Empire, deserta dopo la chiusura dello stabilimento che dava lavoro a tutta la città.

Tra i silenzi delle distese nordamericane, però, si sentono stridere forti le contraddizioni tra la rappresentazione lirica della vita nomade e la dimensione sociale che costringe i suoi protagonisti a questa scelta drastica. Se Fern fa del nomadismo una complicata ma volontaria scelta di vita, gran parte dei nomadi non hanno cercato la vita errante, vi sono stati costretti, e fanno lavori stagionali per far fronte ad una carenza continua di denaro e di sicurezza sociale tanto che, come è raccontato nel film, basta un problema di salute per rischiare di lasciarli senza niente da mangiare. Questo aspetto, il vero fulcro dell’inchiesta iniziale di Jessica Bruder, viene portato completamente in secondo piano dal film di Chloé Zhao. Il che non significa che questa realtà così radicale non abbia in sé dei fortissimi connotati poetici, ma un film che si avvicina con questa delicatezza ad un mondo complesso come quello dei nomadi americani ha una forte responsabilità politica nel rappresentarlo. L’impressione è che la transizione di Zhao da storie rurali e isolate come quelle di Songs My Brother Taught Me e The Rider – entrambi ambientati nella riserva indiana di Pine Ridge – non abbia tenuto conto che al di fuori di contesti isolati quelle storie diventano inevitabilmente sociali, soprattutto quando la sussistenza dei protagonisti di quelle storie dipende dal lavoro in un Wall Drug o in un magazzino Amazon.
 

In Nomadland, tra i silenzi delle distese nordamericane si sentono stridere forti le contraddizioni tra la rappresentazione lirica della vita nomade e la dimensione sociale che costringe i suoi protagonisti a questa scelta drastica


Soprattutto quest’ultimo aspetto apre a un discorso critico. Il film si apre dopo pochi minuti con l’illustrazione di CamperForce, un programma occupazionale di Amazon per nomadi che permette lavori full o part-time in cambio di paga e di uno spazio di parcheggi per il proprio camper. «Il programma Amazon CamperForce riunisce una comunità di camperisti entusiasti per opportunità lavorative di workamping stagionale», dichiara altisonante l’azienda sul proprio sito. «Vieni ad aiutarci a far sorridere i clienti Amazon lavorando in uno dei nostri centri logistici all’avanguardia. Potrai selezionare, impacchettare e spedire gli ordini dei clienti in un ambiente lavorativo sicuro e altamente tecnologico. Ti basta candidarti, riservare il posto per il tuo camper, presentarti e fare la storia!». Nel mostrare la partecipazione di Fern al programma, Nomadland inquadra l’ingresso del grande magazzino di logistica facendo spiccare l’enorme logo dell’azienda e si muove all’interno degli spazi con la pulizia e la serenità di uno spot pubblicitario, incrinando tutto quel lirismo con una sgradevole sensazione di native advertising. Anche se il film non ha beneficiato del girato nei magazzini se non in termini artistici – l’azienda non ha contribuito finanziariamente in alcun modo se non permettendo le riprese –, è proprio la scelta artistica di Zhao ad essere contestabile.


La distribuzione dei posti di lavoro ad Amazon disponibili con il programma CamperForce
 

Oltre a condizioni di lavoro notoriamente critiche, tra turni di 12 ore in piedi, operai che camminano fino a trenta chilometri al giorno, gestione interna degli infortuni e timer per tagliare i tempi produttivi persino per andare in bagno, Amazon rientra perfettamente negli schemi di sfruttamento che Bruder descrive nel suo libro-inchiesta, parlando dei nomadi come «lavoro plug-and-play, l’epitome della convenienza per datori di lavoro in cerca di personale stagionale. Appaiono dove e quando sono necessari […] Non restano in giro abbastanza a lungo da organizzarsi in sindacati. Su lavori che sono fisicamente provanti, molti sono troppo stanchi persino per socializzare alla fine dei loro turni». Come si concilia questa realtà con la rappresentazione dei turni da Wall Drug come un lavoro senza stress o dei magazzini Amazon come un’area serena, in cui le pause pranzo tra colleghi fatte di sorrisi e aneddoti vengono messe in scena con lo stesso calore dei raduni intorno al fuoco nel deserto dell’Arizona? Come può un film che abita specifiche criticità sociali ignorare alcuni degli ingranaggi principali del meccanismo che le crea, un meccanismo che costringe anziani a lavorare oltre ogni limite di età mettendo costantemente a rischio la propria sicurezza? Swankie, a 72 anni, si è rotta tre costole lavorando in un’area campeggio; Steeve Booher, a 68, lavorando ad un parco divertimento è caduto da una pedana di carico perdendo la vita; la stessa Linda May, a 64, è finita al pronto soccorso per vertigini causate dai suoi turni al magazzino di Amazon e ha sofferto di lesioni da movimento ripetitivo per l’uso della pistola scanner. «Lo odio questo cazzo di lavoro», dice Linda nell’ultima parte del libro di Jessica Bruder parlando proprio del suo impiego nell’azienda di Bezos. Amazon, aggiunge, è «probabilmente il più grande schiavista del mondo».
 

Nomadland doveva una certa dose di realismo al testo originale da cui è tratto, lo doveva agli spettatori, ma lo doveva soprattutto a Swankie e a Linda May


Il prossimo progetto di Zhao, oltre la scelta di regia (già discutibile) di Eternals, il nuovo film Marvel che segue gli eventi di Avengers: Endgame in uscita a fine 2021, è un western d’epoca sulla vita di Bass Reeves, il primo vicesceriffo federale nero nella storia degli Stati Uniti. Una tematica inevitabilmente politica. E quale sarà la casa di produzione del biopic? Amazon Studios, ovviamente. In un accordo ufficializzato nel 2018, ovvero nell’anno di produzione di Nomadland, che si apre proprio con le sequenze nei magazzini della multinazionale americana. Per quanto la scelta dei soggetti e il forte sguardo autoriale di Chloé Zhao spingano a mettere tutto questo in prospettiva, non può non essere problematico portare sullo schermo le marginalità sociali e contemporaneamente rappresentare come serene e comunitarie le condizioni di lavoro in una multinazionale come Amazon, senza accennare in alcun modo alle sue criticità e all’impatto che ha sul mondo del lavoro e proprio sulle persone che quella marginalità la vivono ogni giorno: con le difficoltà, con i dolori, con le sofferenze che Zhao mette in scena. Se si vogliono raccontare certe realtà filmandole dal vero, non ci si può esimere dal rappresentarle con una certa dose di realismo. Nomadland lo doveva al testo originale da cui è tratto, lo doveva agli spettatori, ma lo doveva soprattutto a Swankie, a Linda May e a tutti gli altri che lo odiano quel cazzo di lavoro, ad Amazon e in tutte le altre realtà che sfruttano la precarietà dei lavoratori stagionali a proprio vantaggio. Chloé Zhao ha scelto di non ripagare questo debito, usando l’alibi del lirismo e delle sue scelte poetiche per evitare di affrontare la questione. Giurie e commissioni hanno voluto premiare questa scelta. Mai come in questo caso, però, poetica è politica, e al cinema, all’arte in generale, dovremmo chiedere qualcosa di più.

 

«Non sono una senzatetto, sono una senza casa. Non è la stessa cosa, giusto?»
USA 2021 – Dramm. 107’ ★★½


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