La diciannovesima lingua di Joyce

Scritti ridicoli – Lettera a Italo Svevo

«Dunque, caro signor Schmitz, se ghe xe qualchedun di sua famiglia che viaggia per ste parti la me faria un regalo portando quel fagotto che no xe pesante gnanca per sogno perché la me capissi, xe pien de carte che mi go scritto pulito cola pena e qualche volta anche col bleistiff quando no iera pena. Ma ocio a no sbregar el lastico, perché allora nasserà confusion fra le carte. El mejo saria de cior ‘na valigia che se pol serar cola ciave che nissun pol verzer».

James Joyce – Lettera a Ettore Schmitz (Italo Svevo). 1921


Nel 1905 James Joyce, giovane professore squattrinato, approdò a Trieste rimanendovi per dieci anni. Per campare offriva lezioni private di inglese: così conobbe Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, intenzionato a rafforzare il proprio inglese per comunicare con la filiale londinese della ditta di vernici per cui lavorava. Subito fra i due si stabilì uno schietto rapporto di confronto letterario, che durò ben oltre la partenza dell’irlandese da Trieste. Fu Joyce, un gigante agli occhi di Svevo, anche se di ventuno anni più giovane, il primo a valorizzarne il lavoro e ad influenzarlo in maniera decisiva nella sua evoluzione artistica. Ma anche James ebbe da Svevo e da Trieste la sua parte di ricchezza, tanto che i primi tre capitoli del suo miliare Ulysses li stilò in quel periodo, durante il quale apprese anche – aggiungendolo alle diciotto lingue (fra antiche e moderne) che padroneggiava – il dialetto triestino. In questa lettera, con la quale chiedeva che gli venisse recapitato il manoscritto dell’Ulysses dimenticato a casa di Svevo, ne dà esemplare e spassosa prova.

 

Pubblicato su L'Eco del Nulla N.3, "Indagini e ricerche", Autunno 2015
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Parte della serie Scritti ridicoli

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