Interstellar di Christopher Nolan

con Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Michael Caine, Mackenzie Foy

Reduce dall’ultima fatica della trilogia del Cavaliere Oscuro, Il cavaliere oscuro - Il ritorno, forse l’unica nota stonata di una carriera in costante evoluzione, Christopher Nolan ritorna dietro la macchina da presa – rigorosamente in pellicola, in una combinazione di 35mm anamorfica e IMAX 70mm. Data l’assenza di Wally Pfister, impegnato alla regia di Trascendence, le luci di Interstellar vengono affidate alla mano del fiammingo Hoyte van Hoytema, direttore della fotografia di The Fighter, La talpa e Her, per il primo grande passo di Nolan sul pianeta della fantascienza.
In un futuro non molto lontano la Terra, colpita da una piaga che decima i raccolti, sta esaurendo le risorse di cibo. L’agricoltore Cooper (M. McConaughey), ex pilota della NASA, riceve dei segnali dalla camera della figlia Murph (M. Foy) che lo portano ad una sede governativa segreta dove incontra il dottor Brand (M. Caine), suo collaboratore di un tempo. Aiutato dall’apertura di un varco spaziotemporale da parte di esseri sconosciuti, chiamati loro, il vecchio fisico lavora da anni in gran segreto, insieme alla figlia Amelia (A. Hathaway), ad un piano che permetta al genere umano di sopravvivere lontano dal proprio pianeta. Cooper è l’uomo perfetto per guidare la missione.

Scritto a quattro mani con il fratello Jonathan Nolan con la solida consulenza del fisico teorico statunitense Kip Thorne, anche produttore esecutivo, il nono lungometraggio del regista britannico trova le proprie atmosfere nell’Alberta canadese e tra i ghiacci dell’Islanda – l’ambientazione dei pianeti visitati dalla spedizione Endurance. Nella sceneggiatura dei Nolan c’è tutto il gusto della messinscena di un mondo futuristico, dove l’agricoltura ha preso il posto della ricerca e la corsa allo spazio è stata bandita dai libri di storia in virtù di una sterile sopravvivenza, e la volontà di dare il proprio contributo alla fantascienza, creando nuovi mondi possibili e aggiungendo con TARS e CASE altri due tasselli alla lunga tradizione fantascientifica di robot dal sentire umano, inaugurata da Robby de Il pianeta proibito e passata da HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio fino a GERTY di Moon. E anche quando la scrittura si avvale di qualche ellissi temporale di troppo, ci pensa il brillante montaggio di Lee Smith – collaboratore fin da Batman Begins e montatore di The Truman Show e dell’analogo Elysium –, ricco di spunti e in costante dialogo con la voce arrogante delle musiche di Hans Zimmer, a rimediare con originalità.

Infuria, infuria contro il morire della luce, recita il dottor Brand al momento del lancio, invocando con i versi di Dylan Thomas l’impulso dell’uomo a spingersi più avanti, più lontano, per dare una nuova prospettiva al proprio essere. Nel suo evolversi, Interstellar lo dichiara esplicitamente: per quanto la razionalità e il calcolo ci possano portare alla scoperta di strani, nuovi mondi, la chiave di tutto resta la nostra umanità. La salvezza della Terra è nell’inspiegabile amore della dottoressa Brand, che di nome fa Amelia come la più celebre aviatrice della storia americana, e non nella fallimentare ossessione scientifica del Dr. Mann, Mann come il Thomas del Faust, che vendette l’anima al diavolo per soddisfare la propria insaziabile sete di conoscenza.
Il cinema di Nolan è un cinema matematico, fatto di dati, ingranaggi, incastri che, complice il sovraccarico di meccanismi e di note, sfiora spesso la saturazione; ma c’è qualcosa che è pronto a salvarlo ad ogni rischio di implosione, un qualcosa senza cui il suo cinema non sarebbe altro che un’equazione irrisolta: il sentimento, l’olio che mantiene in movimento questi ingranaggi. In Memento Leonard annota le informazioni della sua indagine con tatuaggi e polaroid, in The Prestige Borden escogita la sua più grande illusione attraverso un complicato intrigo, in Inception il processo onirico è innescato da una complessa macchina per sognare. Tutto per amore. Per amore della moglie scomparsa, delle donne amate, dei propri figli. E così anche in Interstellar, dove a muovere le scelte di Cooper c’è un genere umano che porta i volti di Tom e di Murph.

Nolan supera l’ennesima prova di grande regista d’azione – la fuga dalle onde del pianeta di Miller, l’attracco in rotazione sopra il pianeta di Mann –, ma vale altrettanto nel lirismo delle potenti scene spaziali, in cui raffinate note di pianoforte e composizioni di eco straussiano si alternano nell’accompagnare le immagini. E seppur forte di una visione propria, il debito di Interstellar con 2001: Odissea nello spazio si fa evidente nello slancio metafisico del finale. Mentre Bowman, però, trascendeva concettualmente lo spazio-tempo in un’estasi di luci e colori, Cooper lo trascende fisicamente, con detriti e faville, tanto fisicamente da giungere, all’interno della singolarità del buco nero Gargantua, ad una dimensione tattile del tempo. Nella sequenza più suggestiva della pellicola uno straordinario McConaughey si trova a che fare con il tempo in forma fisica rendendosi conto, in una dimostrazione suprema della poetica nolaniana, che il loro responsabile del varco spaziotemporale non è altro che un noi futuribile.
Non si può che togliersi il cappello di fronte alle coordinate trasmesse con i movimenti della mano nella polvere e ai dati battuti in codice Morse sul quadrante dell’orologio, di fronte a un cinema d’intrattenimento capace di pagine così alte. «Un tempo alzavamo lo sguardo al cielo, sentendoci parte del firmamento. Ora lo abbassiamo preoccupati, intrappolati nel fango», dice Cooper. Nella tensione al viaggio verso l’ignoto c’è tutta la forza dell’uomo, la grandezza del genere umano racchiusa nella spinta di un solo individuo. E forse proprio nel ruotare del film attorno al concetto di singolarità si nasconde l’idea che all’interno dell’oscurità di un buco nero, o nelle profondità dell’universo, si annidi un luogo metafisico in cui spazio e tempo si confondono, e in cui è l’intimità del singolo a determinare le sorti dell’uomo.

 

«Non ho paura della morte, sono un vecchio fisico. Ho paura del tempo»

USA-GB 2014 – Fantascienza 169’ ***½


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