Il teatro della tragedia Moby Prince

Cronaca, palcoscenico e ricerca della verità nell’intervista agli autori dello spettacolo e ai familiari delle vittime

10 aprile 1991, ore 22:03. È una bella serata primaverile e 141 fra passeggeri e membri dell’equipaggio salpano da Livorno a bordo della Moby Prince, fiore all’occhiello della compagnia Navarma. Tutto sembra procedere normalmente, finché alle 22:25 e 27 secondi, dal vhf portatile di plancia, il marconista di Moby urla un disperato «mayday»; si sente un inequivocabile «prendiamo fuoco», ma la comunicazione è funestata da interferenze, che invece non intaccano, alle 22:26 e 9 secondi, le urla di Renato Superina, comandante della petroliera Agip Abruzzo: «Siamo incendiati! Siamo incendiati! C’è venuta una nave addosso!». Il bilancio è terribile: mentre l’equipaggio della petroliera viene tratto interamente in salvo, su Moby muoiono tutti ad eccezione del mozzo Alessio Bertrand, che si tuffa in un mare pieno di petrolio. Ma quale è stata la dinamica dell’incidente? Secondo il racconto dei media, l’equipaggio del traghetto era distratto a guardare la partita di coppa Barcellona-Juventus; secondo le sentenze della magistratura nei vari gradi di giudizio, il comandante Ugo Chessa avrebbe condotto la sua nave nell’affollatissimo porto di Livorno senza degnarsi di guardare i radar, nonostante la fitta nebbia di quella notte; secondo alcune perizie dei medici legali, infine, tutte le 140 vittime sarebbero morte nel giro di mezzora. Oggi, anche grazie ai lavori di due commissioni parlamentari, sappiamo che nulla di tutto questo è vero.

Luchino Chessa, figlio del comandante Ugo e presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime ‘10 Aprile’, di cui il fratello Angelo recentemente scomparso è stato una colonna portante, è collegato dal suo ufficio universitario a Cagliari. Racconta di quanto sia difficile portare avanti la ricerca della verità, di quanto sia complesso attrarre nuove leve in questa battaglia, di quanto sia fondamentale ogni piccola testimonianza. Con lui Nicola Rosetti, infaticabile presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime ‘140’, e Sergio Romboni, uno dei volti storici dell’associazione assieme a Loris Rispoli, assente per ragioni di salute ma presente in spirito e più volte evocato nel corso dell’intervista. A stretto giro appaiono anche Marta Pettinari e Fabio Fiandrini, rispettivamente autrice e curatore della regia video e del sound-design di M/T Moby Prince 3.0, importante spettacolo teatrale che racconta la vicenda e che torna in scena sabato 1° aprile alle ore 21.00 al Teatro Puccini di Firenze.

Perché un’opera teatrale su Moby Prince?
Marta Pettinari
Questo spettacolo, di cui sono autrice assieme a Francesco Gerardi, è arrivato nella mia vita al momento giusto e di fatto ha accompagnato la mia crescita umana e professionale. La prima versione risale a 15 anni fa, già da tempo Francesco ed io facevamo teatro civile di argomento storico, ma rispetto ad altri argomenti che avevamo affrontato (come la seconda guerra mondiale) la vicenda di Moby Prince era legata alla nostra memoria diretta: per Francesco, che abitava a Pisa, era una vicenda vissuta nel quotidiano, con la cronaca locale e le manifestazioni; per me, che stavo a Milano, era un ricordo risalente agli anni della scuola, quando tornai a casa e vidi la notizia in tv. Nella prima versione di questo spettacolo, che abbiamo portato in tutta Italia a partire dall’ottobre 2006, eravamo anche attori, ma in seguito ho iniziato a immaginare un nuovo allestimento, perché nel frattempo si erano chiusi i lavori della prima commissione parlamentare, un’altra stava per aprirsi e si avvicinava l’anniversario dei trent’anni della strage: di qui appunto M/T Moby Prince 3.0, prodotto da Grufo e Grufo e La Nave Europa con TNG Teatro Nazionale di Genova.

Il teatro ha da sempre una funzione civile, ma questa non può essere slegata dalla forma drammaturgica, altrimenti il rischio è quello di cadere nella trappola della denuncia fine a sé stessa. In che modo avete coniugato la necessità politica con quella artistica?
Fabio Fiandrini
Poiché Moby Prince 3.0 è uno spettacolo multimediale, dovevamo anzitutto evitare che i materiali video ‘cannibalizzassero’ gli attori sulla scena, in questo caso i bravissimi Lorenzo Satta e Alessio Zirulia. Abbiamo quindi lavorato su tre livelli di drammaturgia, primo fra tutti quello dell’archivio: abbiamo recuperato frammenti di telegiornale, riprese amatoriali, atti di processi e carte delle commissioni parlamentari. Il secondo livello, necessario per spiegare questi materiali complessi, si può definire didascalico: oggi è considerato un elemento nefasto della produzione artistica, eppure che cos’è se non l’eredità delle istruzioni fornite dal coro nel teatro greco? Il terzo livello è quello metaforico, il piano poetico e umano in cui il video diventa una sorta di coscienza che si espande oltre la scena per esprimere stati emotivi altrimenti difficili da evocare. È vero che già da tempo il teatro si nutre di questa estetica multimediale, ma applicarla a opere di argomento civile diventa molto incisivo, parenetico si diceva nell’antichità, finalizzato a risvegliare le coscienze.

La sera del 10 aprile 1991 uno dei canali di comunicazione radio del porto di Livorno, precisamente il n° 16, era registrato all’insaputa di tutti. Ancora oggi vi si può ascoltare lo svolgersi della tragedia: il may-day di Moby Prince coperto dalle interferenze, il mancato arrivo dei soccorsi, il grande traffico di navi nella rada. Immagino che nel vostro allestimento queste tracce audio abbiano trovato posto.
Fabio Fiandrini:
Certamente, e anche quelle sono state trasformate in linguaggio visivo; l’impulso sonoro e l’onda elettromagnetica diventano corpo, come tutto ciò che si immette nello spazio teatrale.
Marta Pettinari: Il piano della realtà, con i documenti audio e video, si interseca con quello dell’immaginazione. Quando ci siamo avvicinati per la prima volta a questa storia, ci siamo trovati di fronte a una enorme mole di elementi, spesso dovuti a ciò che oggi chiamiamo fake news, tuttora sedimentati nella memoria pubblica…


 

…la nebbia, l’equipaggio di Moby che guardava la partita di coppa Barcellona-Juventus…
Esattamente. In un primo tempo, di fronte all’assenza di una verità giudiziaria soddisfacente, siamo caduti nella tentazione di spiegare i fatti, ma poi ci siamo accorti che questo ci avrebbe condotti a esprimere una interpretazione della realtà: in seconda battuta, quindi, abbiamo preferito mettere in fila tutti gli elementi e lasciare che parlassero da soli, in un lungo arco cronologico che va dalla sera del 10 aprile fino ai giorni nostri, con la vicenda giudiziaria e le successive risultanze delle commissioni parlamentari. Nella finzione del racconto abbiamo dato voce a tutti i personaggi coinvolti nella vicenda, ma abbiamo anche lasciato dei vuoti: nel mosaico della nostra ricostruzione dovevano emergere gli spazi bianchi, ossia i buchi neri rimasti inspiegati nelle indagini. A questo proposito voglio ringraziare Loris Rispoli, che ci fornì i primi documenti, nonché i periti e consulenti tecnici come l’ingegner Gabriele Bardazza, che ha lavorato con i fratelli Chessa.

Luchino e Nicola, in che modo questo spettacolo si è incrociato con il lavoro delle vostre associazioni?
Luchino Chessa
Opere come queste sono importantissime perché contribuiscono in maniera determinante a far conoscere la storia di Moby Prince. Fino al 2013 eravamo dei poveri Cristi, abbandonati a noi stessi, ricordati soltanto a ogni anniversario della strage; abbiamo vissuto per quasi vent’anni nel silenzio assoluto. Tutto è cambiato quando noi familiari abbiamo capito che dovevamo procedere in maniera diversa per raggiungere i nostri obiettivi: tramite i social abbiamo promosso la campagna ‘Io sono 141’ con il giornalista Francesco Sanna, e di lì a poco si sono unite varie persone che a diverso titolo si sono occupate di Moby Prince, quali attori, registi, scrittori, cronisti. Sono usciti libri, docu-film, spettacoli teatrali come questo, o come quello che Gianluca Medas porta in giro per tutta la Sardegna (Canale 16): queste iniziative hanno portato a un reale cambiamento in un’opinione pubblica ancora convinta che quella strage sia stata causata da una nebbia improvvisa, un comandante incosciente e un equipaggio distratto dalla partita di calcio.
 

Noi, che siamo i figli di quella notte, ogni mattina ci svegliamo con la consapevolezza di dover affrontare due vite parallele: quella dedicata al Moby e quella della quotidianità familiare e lavorativa


Nicola Rosetti Come ha detto Luchino, fino al 2013 eravamo abbandonati da tutti, senza contare che le due associazioni dei familiari delle vittime, la ‘10 Aprile’ e la ‘140’, erano sostanzialmente divise; oggi so che chi voleva allontanarci dalla verità ha approfittato di quei dissidi, ma per fortuna quel tempo è finito. Quando Angelo Chessa e Loris Rispoli hanno ripreso a parlarsi e soprattutto a combattere assieme per l’obiettivo comune, si è finalmente riaccesa la fiamma: si è rimessa in moto quella voglia di verità e giustizia che ha avvicinato tante persone alle nostre iniziative. Noi, che siamo i figli di quella notte, ogni mattina ci svegliamo con la consapevolezza di dover affrontare due vite parallele: quella dedicata al Moby e quella della quotidianità familiare e lavorativa. In questo senso lo spettacolo teatrale di Marta, che racconta 32 anni di lotta, ci ha aiutato e ci aiuta moltissimo. Ora, però, è arrivato il momento di mettere la parola fine: bisogna giungere alla verità, non si può attendere oltre. Lo dobbiamo ai nostri cari che non ci sono più e alle persone che ci hanno dato fiducia, ma lo dobbiamo anche ai nostri figli, a cui non si può lasciare in eredità questo fardello. Sono convinto che ce la faremo, perché uniti si vince: chi ha mentito ha paura del riavvicinamento fra le due associazioni. Angelo e Loris hanno aperto una strada: Luchino ed io la porteremo avanti fino alla fine.

Luchino, so che non è questa la sede per ripercorrere 32 anni di inchieste, ma oggi abbiamo perlomeno dei punti fermi, anche grazie alle perizie portate avanti da te e tuo fratello Angelo. Da dove ripartiamo e che cosa manca ancora per arrivare alla verità sui fatti di quella notte?
Luchino Chessa
Sono dell’idea che non dobbiamo più guardarci indietro. Le sentenze sono state emesse (l’ultima risale al 2010) e quello che è stato fatto, a livello di calunnie e depistaggi, è il passato: inutile tornarci sopra. Il presente, invece, è quello delle commissioni parlamentari che hanno finalmente affermato alcune verità: la sera del 10 aprile 1991 non c’era nebbia; nella rada di Livorno si muovevano molte navi, anche militarizzate, alcune dedite ad attività poco chiare; Moby Prince, che procedeva lungo il suo tragitto di uscita dal porto, fu costretta a effettuare un brusco cambio di manovra dovuto all’improvvisa irruzione di una nave. Qui le ipotesi sono due: una bettolina o la 21 Oktobar II – coinvolta in indagini su traffici internazionali di armi – che quella sera si trovava nella rada. Nell’ambito di questa manovra Moby andò a collidere con la petroliera Agip Abruzzo, ancorata in luogo proibito, con le luci quasi tutte spente e con un carico probabilmente diverso da quello dichiarato (ma quella petroliera ha anche altri scheletri nell’armadio). Il futuro dovrà fare luce sull’identità della nave che ha deviato la rotta di Moby, nonché capire chi ha effettivamente nascosto tutto questo: teniamo conto che già quindici minuti dopo l’impatto si sapeva benissimo che a investire l’Agip Abruzzo era stato il traghetto, con 141 persone a bordo. Chi doveva intervenire non l’ha fatto e i soccorsi non sono mai arrivati.

Questo emerge già dalle registrazioni del canale 16: penso al fischettio macabro dopo il drammatico appello degli ormeggiatori, che si erano attivati in proprio per raggiungere il Moby, o al terribile «pigliatevela nel culo».
Luchino Chessa
Ma il passaggio peggiore è un altro. Poco dopo aver recuperato l’unico superstite, gli ormeggiatori sono costretti a riportare una affermazione che lo stesso Alessio Bertrand ha sempre smentito: «Ha detto che sono tutti morti bruciati». Da lì in poi il finale è già scritto: per questo dico che nella morte di quelle 140 persone non vi è colpa, bensì dolo.

M/T MOBY PRINCE 3.0 
di Francesco Gerardi e Marta Pettinari
con Lorenzo Satta e Alessio Zirulia
regia Federico Orsetti
regia video e sound design Fabio Fiandrini 
videoproiezioni Chiara Becattini
disegno luci Davide Riccardi
responsabile tecnico Alberto Battocchi
produzione Grufo e Grufo e La Nave Europa con TNG Teatro Nazionale di Genova
e con Associazione “140” - familiari vittime Moby Prince e Associazione 10 Aprile - Familiari Vittime Moby Prince Onlus

 

 

A Sergio Romboni, volto storico dell’associazione dei familiari delle vittime ‘140’, e a Nicola voglio porre una domanda complessa. In tutti i ‘misteri italiani’ c’è un copione ricorrente: una parte della magistratura che non fa effettivamente giustizia, l’intervento di mani occulte che depistano le indagini, una sostanziale inerzia (quando non aperta ostilità) da parte degli apparati pubblici. Eppure le associazioni dei familiari delle vittime, ogni volta, continuano a portare avanti una battaglia dentro lo Stato, insegnando a tutti che la democrazia è una tensione continua verso un obiettivo: come si fa a non perdere la fiducia nei confronti delle istituzioni? Come si insegna al prossimo che l’unico modo per cambiare le cose è farlo dall’interno?
Nicola Rosetti È difficile, ma se non ci sono verità e giustizia, non c’è democrazia. Il nostro impegno è quello di cambiare le cose assieme ai cittadini, però abbiamo sempre voluto farlo rispettando le istituzioni, anche quelle che ci hanno dato schiaffi in faccia. Non parlo di comuni e regioni, da sempre vicini alle nostre istanze, ma dei livelli più alti che per molto tempo si sono voltati dall’altra parte. Negli ultimi anni, per fortuna, anche la politica nazionale ci è venuta incontro in questa battaglia di civiltà: è un lavoro difficile, ci vuole tanto impegno e molta calma (a volte la perdiamo – dice ridendo), ma sempre nei confini stabiliti dallo Stato: non si può chiedere democrazia senza esercitarla.
 

Il nostro impegno è quello di cambiare le cose assieme ai cittadini, però abbiamo sempre voluto farlo rispettando le istituzioni, anche quelle che ci hanno dato schiaffi in faccia


A questo punto, però, rivolgo un appello: con lo stesso coraggio che abbiamo dimostrato noi familiari delle vittime, vorrei che si facessero avanti anche l’ENI, che con la SNAM di allora aveva la responsabilità sull’Agip Abruzzo, e Vincenzo Onorato, proprietario della compagnia Navarma e pertanto di Moby.

Immagino che tu stia parlando dell’accordo assicurativo che i due soggetti, assieme ad altri, stipularono due mesi dopo l’incidente. L’onorevole Andrea Romano, presidente dell’ultima commissione parlamentare d’inchiesta, l’ha definito ‘patto di non belligeranza’ fra le due parti.
Nicola Rosetti
Certo. Ormai sono passati 32 anni: siamo pronti ad accogliere la verità.
Sergio Romboni Penso che Luchino e Nicola abbiano già detto tutto. Per quanto riguarda legalità e democrazia, personalmente me le hanno insegnate due persone – Loris Rispoli e Angelo Chessa, ndr – l’uno è a casa in convalescenza, l’altro non c’è più. Anche per loro dobbiamo continuare a fare ciò che ci è stato insegnato: rispettare le istituzioni, ma esigere da queste lo stesso rispetto. Credo che adesso Onorato e l’Eni dovrebbero sedersi di fronte a noi e raccontare la loro versione dei fatti, poi forse potremo riprendere in mano la nostra vita e viverla serenamente. Una parte della verità ormai è nota: ci manca l’ultimo pezzo.
 

 

Fotografie di Federico Pitto e Matilde Pisani
Leggi qui l’approfondimento di Vanni Veronesi 
► Lo strano caso del Moby Prince
 


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