Il fallimento e la provincia

Intervista ad Andrea Zandomeneghi, autore del romanzo Il giorno della nutria edito da Tunué

Prima della presentazione del suo libro alla libreria L’ora blu di Firenze, vado a prendere un americano con Andrea Zandomeneghi al tavolino di un bar lì vicino. Siamo all’aperto, nel bel mezzo del traffico di Campo di Marte, e malgrado le macchine, i ragazzini urlanti e i loro bicchieri che s’infrangono al suolo, riusciamo a fare una lunga conversazione su Il giorno della nutria (Tunué, 2019), un romanzo che, a detta dell’autore, parla di «fenomeni morbosi, di aberrazioni distribuite trai vari personaggi, ricollegabili alla collocazione geografica e alla stagnazione della provincia».

Come nasce Il giorno della nutria e come lo racconteresti?
Il romanzo nasce per antitesi, a dire il vero come una enantiodromia – letteralmente «corsa all’opposto», una concezione secondo cui tutto ciò che esiste passa nel suo opposto. Circa cinque anni fa stavo scrivendo una saga fantascientifica mascherata da fantasy, di ambientazione romanistica: prevedeva molti punti di vista, si svolgeva nel corso di millenni e anche nel futuro. Questa saga mi creò un’infinità di problemi: m’insegnò a scrivere, è vero, e furono mesi di lavoro intenso; ma ebbi pure un esaurimento nervoso, una sorta di pensiero ossessivo. Quando mi accorsi di dover controllare dieci volte se avessi chiuso il rubinetto, pensai fosse il momento di calmarmi. Siccome sentivo ancora l’esigenza di scrivere, decisi di ribaltare la situazione: se la saga era ambientata nel futuro, il romanzo si sarebbe svolto nella contemporaneità; se la saga era lunga, il romanzo sarebbe stato breve; se molti erano i punti di vista, ci sarebbe stato un solo punto di vista; se la saga era ambienta in luoghi lontani e a me estranei, il romanzo sarebbe stato ambiento nei miei luoghi natali. È stato più che altro un esperimento di ribaltamento.
 

Questo libro nasce da un fallimento e racconta un’esperienza traumatica: svegliarsi una mattina, magari avendo dormito poco, dopo una sbornia enorme


Di conseguenza, questo libro nasce da un fallimento e racconta un’esperienza traumatica: svegliarsi una mattina, magari avendo dormito poco, dopo una sbornia enorme. Al risveglio, si hanno logicamente i postumi, che possono essere fisici o mentali; si hanno poi insicurezze e lacune nella memoria che andiamo a riempire col senso di colpa. Il mio protagonista è un cefalgico cronico, dunque ha anche un mal di testa della madonna, e gli accade di trovare una nutria sul pianerottolo di casa. Il problema è che questa nutria è morta, ma non solo: è scorticata e congelata. A quel punto lui non sa più che pesci prendere. Il romanzo consiste nella ricerca che il protagonista fa per capire da dove viene la nutria.
 

«E comunque, quando la sciagurata vicenda principiò, quel martedì mattina di fine aprile, io non ero granché lucido, anzi sarebbe più corretto dire che versavo in un penoso stato di rincoglionimento stordito e dolorante. Correnti poderose di agonia cefalgica e umorale da postsbronza. Anche per questo, soprattutto per questo, credo, fui così turbato dal rinvenimento del cadavere di nutria scorticato che andava oscenamente scongelandosi»


Quanto è importante l’ambientazione provinciale di Capalbio e di Borgo Carige nel tuo romanzo?
La scelta principale è stata appunto quella di ambientare il romanzo nei luoghi in cui vivevo, in modo da fare una sorta di autofiction che fosse però molto poco autobiografica, dando degli elementi che sembravano appartenenti alla mia vita ma che in realtà non mi riguardavano. Ho scelto Borgo Carige perché per me rappresenta l’emblema della profonda provincia: a Borgo Carige, nel comune di Capalbio, in estate è pieno di turisti, mentre nelle altre stagioni il paese è morto. In un paese della profonda provincia le persone ristagnano, non hanno stimoli, e si viene a creare quello che Gramsci chiamava l’interregno: quando il vecchio è morto e il nuovo non può nascere si verificano i fenomeni più morbosi.

Una curiosità: nel romanzo viene nominata due volte la famiglia Zandomeneghi, che gestisce un panificio. Voleva essere un omaggio alla tua famiglia e alla sua presenza in maremma o magari un modo per smarcarsi dall’autobiografismo, per sviare il lettore dall’identificazione tra te e Davide Aloisi? A tal proposito, ci sono dei punti di contatto tra te e il tuo protagonista?
È stato prima di tutto un modo per divertirmi e poi per smarcarmi, come hai detto tu. Il panificio tra l’altro esiste ancora, ma non è più gestito dalla mia famiglia anche se ha mantenuto il nome. Nella prima stesura avevo messo come personaggio anche Andrea Zandomeneghi, che compariva e faceva varie cose, solo che è stato tagliato in fase di editing.

Nel Giorno della nutria dai ampio spazio alla malattia, all’eccesso, al vizio; nel contempo, si tratta anche di un libro assai divertente. Era nelle tue intenzioni dar vita a questa duplicità oppure è venuta fuori scrivendo?
Sì, è stata una cosa programmatica. Oltre a quello che dici, ci sono anche altre parti di tipo mistico-religioso, e dal mio punto di vista questo è interessante. È nato tutto dalla lettura di Bachtin e dai suoi studi su Dostoevskij, dove lui rintraccia l’origine del romanzo nella satira menippea, genere nato dal dialogo socratico in cui l’alto incontrava il basso, in cui si parlava con gli Dei e al tempo stesso c’erano scene comiche, succedevano cose tragiche e tutto il resto. La mia sfida è stata da un lato quella di adottare una poetica aristotelica – unità di spazio, tempo e azione – dall’altro volevo inserire quel mondo di eterogeneità e di carnevalizzazione proprio della satira menippea.

Il consumo di alcol e psicofarmaci da parte di Davide, protagonista e narratore della storia, sembra a una lettura superficiale non comprometterne le capacità mnemoniche e la lucidità. Ma leggendo nel dettaglio, entrando meglio in contatto col personaggio, il lettore può notare delle zone d’ombra nel suo racconto. Pensi sia corretto ritenerlo un narratore inattendibile?
Il narratore si atteggia a narratore attendibilissimo; imita tutti i linguaggi, da quello scientifico fino a quello teologico e psicologico. Oltretutto, ha grandi capacità affabulatorie: sembra un detentore della realtà. Ma già nella prima parte troviamo un episodio in cui dice di non ricordarsi ciò che gli è successo. Sa di aver litigato con Emanuele, un altro personaggio, e solo dopo gli dicono che, litigandoci, gli aveva orinato addosso. Nel finale poi vediamo come l’amnesia sia una parte portante del romanzo, e un narratore amnesico non è mai un detentore di tutta la verità. Mi sono divertito a inserire dei piccoli errori, perché il narratore non vuole e non può essere un’enciclopedia vivente, per quanto rimastichi tutto; quindi ci sono almeno due esempi di errori volontari inseriti. Il primo riguarda la morte del padre, che muore andando all’ospedale dove Davide è in coma etilico: si dice che ha un incidente a Ribolla, ma Ribolla non si trova tra Capalbio e Grosseto, dove invece c’è Rispescia. Seconda cosa: il narratore non è un giurista ma un architetto, eppure fa un capitolo tutto sulle azioni giuridiche e anche lì fa un errore dicendo che una sentenza non definitiva non è appellabile, quando invece lo è immediatamente. Di conseguenza, sono questi piccoli indizi, oltre alle gravi lacune, che non lo rendono un narratore affidabile.
 

«Finii al pronto soccorso in coma etilico, presumo di aver bevuto non meno di dieci cartoni. Mio padre, assieme a mia sorella e mio cognato accorsero appena furono raggiunti dalla telefonata dell’ospedale. Mia madre non volle averci niente a che fare. Mentre si precipitavano da me si schiantarono in un tamponamento a catena sull’Aurelia, all’altezza di Ribolla. Fu così che resi mio nipote orfano e mia madre vedova.»


L’alta qualità della scrittura mi sembra il punto di forza del Giorno della nutria, un romanzo nel quale il “come” conta quanto il “cosa”, se non di più. Come hai lavorato sullo stile e come pensi questo abbia influenzato il contenuto?
Questa è una domanda giustissima, perché quando ho iniziato a scrivere il romanzo avevo tutte quelle coordinate di cui parlavo prima, ma non conoscevo l’azione. Allora feci un esperimento mentale. Mi dissi: prendo un personaggio che vive qua, si sveglia la mattina, e vediamo quello che fa: fuma una sigaretta, prende il tè, va su internet, legge dei giornali. Azioni semplici che mi servivano per vedere come riuscivo a raccontarle. Quindi il “come” è venuto prima del “cosa”; il “cosa” è stato poi, man mano, la costruzione della narrazione.
Rispetto allo stile, un’esperienza molto formativa è stata fare il ghostwriter per degli studi legali: scrivendo gli atti senza poterli firmare ci si allena a imitare il linguaggio altrui. Poi è stata fondamentale la rilettura di alcuni testi tra cui, per la gestione della prima persona, I detective selvaggi di Bolaño, e per la ricerca lessicale Controcorrente di Huysmans, nella traduzione di Sbarbaro; infine, Thomas Mann e Vite immaginarie di Marcel Schwob.

A proposito di influenze, quali sono gli autori in lingua italiana che più hanno contribuito a dar forma alla tua prosa? Per gli stranieri Dostoevskij è una presenza costante, più volte citato nel libro, così come lo stesso Bolaño; mentre ho trovato alcuni punti di contatto con l’Ellis di American Psycho e dei lavori successivi: sia per certe descrizioni iperrealiste, sia per il gusto per l’elenco, l’annotazione di marche, i titoli di libri.
Partiamo da Ellis: al pari di Bolaño, è stato importante per la gestione della prima persona; in particolare Le regole dell’attrazione, dove i tre protagonisti parlano sempre in prima persona, ognuno con un tempo verbale diverso.
Il gusto dell’elencazione viene sia da Bolaño che da Rabelais, mentre il Philip Roth di Pastorale americana e della Macchia umana mi ha riconnesso con la contemporaneità, perché le mie letture in precedenza erano più che altro classiche, ottocentesche o primo-novecentesche.
Gli italiani li ho scoperti più tardi: in adolescenza e post-adolescenza leggevo soprattutto filosofia e classici tedeschi, francesi e russi. Dostoevskij è stato il mio incontro più importante. Ho iniziato poi ad apprezzare anche gli italiani; e tra quelli che mi hanno influenzato ci sono lo stesso Santoni, che non ho conosciuto come mio editor ma con Gli interessi in comune; Walter Siti, specie quello di Troppi paradisi, un romanzo di grandissimo spessore in cui troviamo di nuovo l’uso della prima persona; Giorgio Vasta, che nel Tempo materiale lavora tantissimo sul linguaggio. Ho amato pure Sebastiano Vassalli, autore dalla scrittura più semplice, meno ipotattica; mentre il mio preferito tra gli italiani è Tondelli.

Questo è il tuo primo romanzo, e prima di esordire con Tunué sei stato co-direttore di Crapula. Quanto ha contato per te l’esperienza della rivista e che opinione hai sul panorama delle riviste letterarie italiane?
Per me quella di Crapula è stata un’esperienza significativa; anche impegnativa, perché pubblicare materiale ogni giorno comporta lavoro in fase di selezione, di editing, ricerca delle foto e gestione di Wordpress. Mi ha dato tanto perché mi mancava il confronto coi pari: io me ne stavo per conto mio, scrivevo le mie cose ma nessuno le leggeva, come io non leggevo quelle degli altri. Le riviste invece permettono, a più livelli, il confronto, che crea anche “la società letteraria”, l’ambiente nel quale c’è dialogo, scambio e soprattutto miglioramento. Una cosa fondamentale, e alle volte le riviste lo fanno, è non cadere nella retorica: la rivista è perlopiù gratuita, a parte alcune eccezioni. E con l’elemento di gratuità vale la pena essere sinceri e confrontarsi con gli altri, perché da quello viene il buono. Se un ragazzo ti manda un brutto racconto, tu non lo devi spernacchiare: gli dici però perché il racconto non funziona in modo tale che possa imparare. Io stesso, quando scrivevo su Crapula, passavo i miei pezzi ad Antonio Russo De Vivo, a Luca Mignola e ad Alfredo Zucchi, e loro con schiettezza, anche con una dose di giusta crudeltà, mi dicevano quel che non andava. Questo è il vero scambio tra pari: non scambiarsi chiacchiere e complimenti, ma l’autenticità della critica.
 

Io me ne stavo per conto mio, scrivevo le mie cose ma nessuno le leggeva, come io non leggevo quelle degli altri. Le riviste invece permettono, a più livelli, il confronto


A me, tra le riviste attuali, interessa Verde, sebbene loro si siano dati al cosiddetto lit-wrestling, lo scontro tra riviste, ed è una cosa della quale non capisco la finalità. Un’altra che mi piace molto e che leggo volentieri è L’indiscreto; mentre da poco è uscita La nuova carne di Alessandro Pedretta, che mi sembra stia proponendo buone cose. Inoltre, rimane sempre la grossa qualità di Stanza251 – in alto il ritratto di Andrea Zandomeneghi fotografato da Carlo Zei di Stanza251 per Varianti d'autoredov'è presente un estratto del romanzo –, che fa dei numeri tematici molto ben fatti. Diciamo che queste sono le mie riviste di riferimento.

Anche la narrativa di genere è però assai presente all’interno della narrazione: penso alle citazioni di Simmons, Frank Herbert e Tolkien, ma anche dei rimandi a serie tv come American Horror Story e True Blood. Qual è il tuo rapporto con questo immaginario?
Secondo me il genere e l’alta letteratura non dovrebbero stare separati. O meglio, la distinzione andrebbe fatta tra la narrativa commerciale e la letteratura autoriale; ma la differenza non deve stare nel genere, ma nella qualità. Ad esempio, pensare di relegare Poe o Lovecraft nella scrittura di genere (e come tale “inferiore”) è da folli.
Gli elementi della narrativa di genere che utilizzo mi tornano funzionali perché rimandano alla fantasticheria. Davide Aloisi, il protagonista è molto chiuso in se stesso, soprattutto all’inizio; la sua unica attività erotica è la masturbazione (che oltretutto fallisce), sempre legata alla fantasticheria. Ed è ovvio che nella fantasticheria non ci si metta a pensare a Gli indifferenti di Moravia: piuttosto ti viene in mente l’assedio di Minas Tirith, pensi di essere un signore elfico o un’altra cosa di questo tipo.
I personaggi del romanzo, proprio perché vivono nella stagnazione della profonda provincia, tendono sempre a una forma di auto-trascendenza, ad andare oltre. Quell’oltre per don Stefano – il prete amico del protagonista – è rappresentato dalla maniacale scrittura di lettere a Roberto Calasso; per Davide, dall’abuso di alcolici, stupefacenti, medicinali e dalla mistica. Un altro oltre è quello del fantastico, che consente di uscire fuori dal proprio io collocato spazio-temporalmente e di immaginarsi qualcosa di diverso. Aggiungo che per me sia Dune di Herbert sia Hyperyon di Simmons sono testi importantissimi e sono felice di averli potuti omaggiare.

Come hai già detto, la filosofia, la teologia, la spiritualità e il sacro sono altri elementi dai quali non si può prescindere parlando del Giorno della nutria: basti pensare alla citazione in epigrafe di Calasso sull’inermità della condizione umana, alla religiosità sui generis e alle teorie alieniste rispettivamente appartenenti ai comprimari Esteban ed Emanuele. Due parole sulla presenza di questi temi nel romanzo.
Aggiungerei l’invettiva che fa Davide contro gli atei, gli agnostici e i credenti, quindi contro tutti. Perché questi aspetti che rimandano a una forma di trascendenza sono importanti nel romanzo? Perché si pone come un libro anti-riduzionista. Hermann Broch disse che il romanzo era tale poiché poteva rappresentare ciò che solo il romanzo può rappresentare, ossia la complessità dell’umano. Qualunque altra cosa può essere espressa in altri termini da altre discipline e con altri percorsi: la complessità dell’umano, in quest’epoca messa a repentaglio, no.
 

Oggi c’è un’idolatria del riduzionismo, che tende a schiacciare la complessità umana. L’esempio più semplice di riduzionismo è quello del mercato, per cui i soggetti diventano consumatori


Oggi c’è un’idolatria del riduzionismo, che tende a schiacciare la complessità umana. L’esempio più semplice di riduzionismo è quello del mercato, per cui i soggetti diventano consumatori: non ci sono più società intermedie, c’è individualismo e il soggetto viene apprezzato in un solo modo. Volendo, il riduzionismo viene anche da più lontano: ci sono forme molto più insidiose che tento di combattere nel libro. Spesso il riduzionismo si traveste non nella riduzione del singolo individuo, ma nella riduzione dell’intera umanità, quindi della sua storia. Casi di riduzionismo clamorosi ma che non passano come tali li abbiamo non tanto in Freud ma nel freudismo: il passato è trauma, il presente è terapia e il futuro è guarigione. Li abbiamo poi non in Marx ma nel marxismo, dove il passato è ingiustizia, il presente è rivoluzione e il futuro è uguaglianza; e nello scientismo, dove il passato è ignoranza, il presente ricerca e il futuro conoscenza. Ma anche nel cristianesimo, che è divertente accusare di riduzionismo: lì il passato è peccato, il presente è redenzione e il futuro la Gerusalemme terrestre. In queste tripartizioni, delle dimensioni intere dell’antropico vanno perse. E quello a cui io tenevo era far sì che queste dimensioni, magari anche aberranti (come Emanuele che crede negli alieni), emergessero come elemento di complessità.
 

Si ringrazia Stanza251 per la gentile concessione del ritratto dell'autore,
fotografato da Carlo Zei per l'estratto del romanzo pubblicato qui 
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