Fino a qui tutto bene di Roan Johnson

con Guglielmo Favilla, Melissa Bartolini, Alessio Vassallo, Silvia D'Amico, Paolo Cioni

A quattro anni dall’uscita de I primi della lista, che raccontava la tragicomica storia realmente accaduta di tre musicisti pisani di estrema sinistra fuggiti dall’Italia nel giugno del 1970 per paura di un colpo di stato, Roan Johnson torna sul grande schermo con Fino a qui tutto bene, presentato lo scorso anno al Festival del Cinema di Roma. Parto collaterale di un documentario sugli studenti dell’Università di Pisa, dal titolo L’Uva migliore, l’opera seconda del regista, nato londinese e cresciuto pisano, racconta la storia di cinque ragazzi e dei loro ultimi giorni nella casa sulle rive dell’Arno, dove hanno passato la loro vita da coinquilini. Nel fine settimana, prima di lasciare la città, il siciliano Vincenzo (A. Vassallo), la ciociara Ilaria (S. D’Amico) e i toscani Andrea (G. Favilla), Francesca (M. Bartolini) e Cioni (P. Cioni) pagano le ultime bollette, raccolgono le proprie cose, svuotano l’appartamento in preparazione dell’ultima festa di gruppo e riflettono sui percorsi di ognuno – dal sogno di diventare attore a quello di diventare vulcanologo – e su cosa riserverà loro la vita fuori dalle aule universitarie.

Sul sito ufficiale di Roan Johnson si legge: “abbiamo fatto questo film che si chiama ‘Fino a qui tutto bene’ senza chiedere soldi al Ministero, a RaiCinema o a Medusa, non vi abbiamo chiesto crowdfunding, lo abbiamo fatto tutti insieme, con 50mila euro e rischiando sul nostro lavoro, con una troupe garibaldina. Ora la domanda è: si può fare un bel film in questo modo?”. La risposta è sì, si può fare eccome. Soprattutto se ogni immagine del film in questione non solo trasmette, ma trasuda il divertimento e l’allegria con cui il film è stato fatto. In tutti i giochi di squadra, come è il cinema, se c’è affiatamento e armonia la squadra gioca meglio e, in questo caso, vince. Vince un cast che scommette su se stesso e si concede totalmente al film, vince un regista che sceglie di portare sullo schermo le ansie, i timori e gli entusiasmi di una generazione sotto forma di un gruppo di coinquilini che festeggiano insieme, dividono le bollette, cucinano la ‘pasta col nulla’ che chiunque studente fuori sede conosce alla perfezione, vince Microcinema, che distribuisce in sala scommettendo sulla squadra giusta.

«Amore mio se vado forte, te lo di’o, è pe’ scansare vesti pini. Dice che l’arberi ci sarvano la vita, ma non è vero mi’a una sega!», cantano in pisano I Gatti Mézzi, autori con gli Zen Circus della colonna sonora del film, nella strepitosa Morirò di incidente stradale, mentre la macchina dei cinque amici corre lungo i viali alberati, sfiorando i girasoli a bordo strada. Una canzone che cattura perfettamente lo spirito dolceamaro del film, in linea con la malinconica leggerezza della commedia toscana da Benigni a Nuti agli ultimi Snellinberg di Sogni di gloria, e che regala sprazzi di comicità regionale, dai dialetti mai nascosti all’amore goliardico tra il Cioni, tipico toscano dai gesti folli e dal sarcasmo perenne, e un’anguria. Un film che intercetta il sentire di una generazione e che ha di per sé il carattere dell’impresa. Pende, a volte, ma non cade mai, come la Torre di Pisa di cui racconta la geniale stortura: «Avevano costruito i primi due cerchi, no? Ma c’è stato un cedimento perché sotto è paludoso. E invece di dire ok, fermi, fermi. S’è fatto una cazzata. Non si può innalzare un campanile a Dio storto. Tutta la perfezione divina va a farsi benedire eccetera, eccetera. Cos’hanno deciso? Di persevera’ nella cazzata. Uno bravo si fermerebbe, un mediocre pure, ma ‘r folle no, va dritto nello sbaglio. Persevera nello sbaglio così tanto che poi arriva al pezzo inimitabile, al genio».

Il titolo, Fino a qui tutto bene, riprende il celebre incipit de L’odio di Mathieu Kassovitz: «Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene”. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio». Come chi non vorrebbe mai abbandonare un periodo irripetibile, Johnson congela l’attimo prima della partenza, imprigiona insieme i cinque ragazzi nell’ultimo momento di incoscienza e di libertà prima che la vita li sommerga con la routine, la famiglia, i figli, le infinite giornate di lavoro, per chi avrà la fortuna di trovarlo. «Si passavano gli esami…», dice Vincenzo, «…ogni esame che si passava tutto bene, la festicciola, il cin cin... Fuori di qui altro che piscinette. È una tragedia. Tempeste, squali, tutti che si fottono». Per non cadere nel tempestoso mare della vita, i cinque ragazzi prolungano la caduta, cercando di ritardare all’infinito l’atterraggio in un ultimo spericolato viaggio su una vecchia barca senza benzina.

 

«Ma ’un c’è una sega!»
«È pasta cor nulla…»
«’un ci potei mette’ quarcosa cor nulla?»

ITA 2014 – Comm. 80 **½


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