Sogni di gloria di John Snellinberg

con Gabriele Pini, Xiuhong Zhang, Carlo Monni, Alessandro Guariento, Giorgio Colangeli

Miglior film al Rome Indipendent Film Festival e al World Fest International Film Festival di Houston, dove ha conquistato anche il premio per il miglior montaggio, Sogni di gloria è l’esordio in sala del collettivo pratese John Snellinberg, che dopo la La banda del brasiliano, che rievocava il poliziottesco italiano dei Settanta – ancora con la partecipazione del grande attore fiorentino Carlo Monni e uscito quattro anni fa direttamente nel circuito Home Video –, recupera il costume tutto italiano del film a episodi.
Episodio 1: Giulio (Gabriele Pini), trentenne cassaintegrato, disincantato e stanco, si convince a sbattezzarsi dopo ripetuti tentativi in chiesa che non lo hanno aiutato a trovare lavoro. La zia, profondamente cattolica, coinvolge il prete e lo zio (A. Guariento) in una messinscena per fargli ritrovare la fede. Episodio 2: Giulio (X. Zhang), studente cinese deluso d’amore, stringe amicizia con Maurino (C. Monni), vecchio giocatore di carte pratese, che vedendo in lui, in quanto cinese, un mago della matematica, lo recluta per il torneo di carte che puntualmente perde in finale contro il Disumano e l’Avvocato (G. Colangeli).

Il collettivo John Snellinberg – regia di Patrizio Gioffredi e fotografia di Duccio Burberi – è uno di quegli esempi di cinema bello, di cinema sano, di cinema veramente indipendente fatto di appassionati e non professionisti, un po’ per gioco e un po’ per amore. Insegnanti, avvocati, vigili del fuoco pratesi, una generazione cresciuta a pane e Berlinguer ti voglio bene, che con sana follia si getta nella settima arte ad occhi chiusi, di pancia, dando vita ad un set in cui «tutto assume una atmosfera folle, da pazzi... è così su ogni set, ma sui nostri c’è sempre armonia e puoi vedere il protagonista del primo film, Gabriele Pini, che fa il runner o l’attrezzista sul set del secondo». È l’amore comune che trascina, insieme, una troupe eterogenea, capace di coinvolgere Monni e Colangeli in scena, e i Calibro 35 per la colonna sonora: «ad eccezione di un paio di Snellinberg facciamo altri lavori e produciamo film nel nostro tempo libero, investendo ferie, risparmi e competenze, ma non nego che è una cosa che vorremmo fare veramente nella vita. Sono i nostri sogni di gloria».

Sullo sfondo di una Prato soltanto sfiorata, una serie di trovate comiche intelligenti, amare – il divertente prete disincantato, il turno di lavoro estratto alla lotteria – e orgogliosamente provinciali, dalle Sposine, disinibite ottantenni dalla lingua acuta, al Disumano, che fa risuonare il proprio attrezzo per tutta la vallata. Si ride a denti stretti di quella provincia acre e dimentica, incapace persino del contatto con la terra che un tempo la nobilitava, di trentenni smarriti che cercano di ritrovare se stessi proprio nel fare film insieme, nobili rappresentanti di quel cinema operaio che parla di lavoro anche e soprattutto quando non c’è.
Non c’è critica sociale nella storia di un italiano e di un cinese dallo stesso nome, nel territorio del “problema cinese”, ma c’è la chiara, limpida volontà di smettere di parlare di diversità e di cominciare a viverla, così, naturalmente. Perché i problemi sono gli stessi, perché che si parli di amore o di religione il rischio è per tutti quello di smettere di credere, il Giulio cinese non è tanto diverso dal Giulio toscano, immerso anch’egli in una realtà che lo rigetta – dal lavoro mai trovato a una band dove sembra fuori posto fino alla ex-ragazza da cui si è lasciato. La voglia è di tornare a sperare, anche malinconicamente e col riso amaro, seduti al tavolo della briscola – «almeno una volta veniva qui, giocavano a carte, ma parlavano di politica. Ora vengono qui, giocano a carte, e parlano di carte» – sussurrandosi all’orecchio verità inconfessabili che forse soltanto un funereo becchino può cogliere, tra una mano e l’altra suggerita dai morti. E scalda il cuore vedere gli scomparsi Guariento e Monni, di ritorno nella Prato da cui era partito, che se la ridono giocando a carte al cimitero. Se ne va la vita, ma resta la malinconia.
 

«Devi mettere ordine nel caos»

ITA 2014 – Comm. 94' **½


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