DECALOGO 7

Non rubare

Qualsiasi parola accoglie al suo interno innumerevoli sfumature di significato, diversamente cangianti se poste in relazione al contesto in cui essa ricorre. Qualcosa, però, sembra accomunare questi significati, embrionalmente concentrati nel potere magico della parola stessa, come convogliati in un’unica cellula che già contiene nel suo grembo ogni potenzialità del proprio agire.
Una mamma è una mamma: il secondo termine sembra afferrare il contenuto profondo comprensivo di tutte le varianti di senso sfumate di quella tale parola, con le accezioni relative alle differenti possibilità dell’esser chiamate col nome ‘mamma’.
Kie
ślowski seziona quel nucleo e vi si pone dentro senza apporre giudizio alcuno circa la presunta legittimità di chi sostiene diversamente d’esser madre. Nella dialettica di un tale terreno, irto di difficoltà e privazioni, emerge così la conflittualità tra due donne che a proprio modo si deruberanno vicendevolmente.

Una palla gialla rotola per le scale e rimbalzando a colpi decisi fa un rumore che distrae la sorveglianza. Il sentiero ora libero, uno sguardo complice, poi un sorriso con la piccola Anka. E di corsa, via tra la gente festosa e buffi costumi di bambini durante una recita. Una mamma in pena cerca disperata la propria bambina, un’altra fugge via divertita. È inaugurato così un gioco, il gioco di mamma, prima d’allora rifiutato e allo stesso tempo terribilmente negato a una giovane ragazza.
Anka gioca, tracciando delle forme sul vetro appannato; i suoi occhi sembrano essere pieni di stupore di fronte al nuovo viaggio. Il treno attraversa un ponte sul fiume, forse al varco con la matura età di una donna, ora madre. Poi, dopo un giro tra le giostre colorate, in bilico tra lo spaesamento e il conforto di essere comunque al fianco della sorella, alla bambina è confessata la verità: «Majka mi hai rapito» – «Sono io la tua vera mamma», risponde la ragazza.

Majka, giovane studentessa disorientata, espulsa all’ultimo anno d’università, ha dunque rubato sua figlia Anka. 
Concepita negli anni del liceo dopo una relazione tra la ragazza e un suo insegnante (Wojtek), la bambina viene da subito riconosciuta nell’inganno come figlia dei genitori di Majka. Così, caduto nel silenzio il potenziale scandalo nella scuola di cui peraltro la madre (Ewa) è direttrice, quest’ultima, da sempre desiderosa di una seconda maternità negatale dopo il primo parto, trova una soluzione comoda allo scabroso evento, colmando al contempo il profondo sentimento egoistico represso fino a quel momento. Ma a distanza di sei anni, dopo un senso di colpa taciuto e il peso enorme e destabilizzante d’aver vissuto accanto alla figlia vestendo i panni di ‘sorella’, sotto la coltre opprimente dell’austera madre, Majka decide di fuggire via con la piccola per andare a trovare Wojtek (ora fabbricatore d’orsetti), riappropriandosi finalmente di ciò che prima di allora anche a lei era stato rubato. Pianifica anche un espatrio in Canada per il quale chiederà alla madre, cinicamente e con disperazione, l’autorizzazione legale per Anka. «Perché, si può rubare quello che è nostro? […] Allora no, non ho rubato», sorride amaramente Majka.

Kie
ślowski indaga così la legittimazione al possesso nel disperato processo di riconoscimento della propria identità di donna e di madre innescato da Majka. Interroga il concetto di proprietà in una dimensione atipica del rubare, denudando, come nell'intero corpus di Decalogo, la norma di ogni tipo di cliché culturale. Pur invocato il ricongiungimento al grembo violato, resta allora l'intricato gioco di ruoli mescolati in un'unica realtà ambigua, all'interno di una stessa famiglia nella quale una bambina di sei anni di fatto chiama 'mamma' – con l'aggravante di considerarla tale – la nonna. La donna ha riversato su di lei un perverso desiderio di maternità, considera la piccola esclusivamente sua forse perché nella mente nutre da sempre il ricordo di un concepimento libero da qualsiasi vincolo di tipo fisico, come se così avesse fatto esistere soltanto la purezza del particolarissimo, seppur deviato, senso materno, così alimentato nel tempo a scapito dell’impotente figlia. Majka addirittura racconta di quando trovò la madre mentre allattava al seno la piccola Anka, pur non potendo.
In silenzio, un padre che non prende posizione, forse scarsamente tenuto in considerazione, ma che ha covato per anni dentro di sé un probabile disappunto per l'operare della moglie, pur accondiscendendovi. Spesso ha rincuorato la figlia in lacrime, accusata dalla madre di non essere capace di badare alla piccola Anka, soprattutto durante gli improvvisi lamenti notturni della bambina. «Eri così esigente che lei non riusciva mai a essere all'altezza. Sapeva di doversi meritare il tuo amore», rimprovera il marito a Ewa dopo l’avvenuto ‘rapimento’.
La breve fuga sembra pian piano risultare più una vendetta nei confronti della madre per il dolore sofferto e patito nell'ombra dalla giovane ragazza, che esclude ora più che mai la possibilità di qualsiasi tipo di compromesso. Majka, al telefono con la madre: «Mi hai rubato la figlia, il mio essere madre e l'amore. Mi hai rubato me stessa».

Anka si addormenta sui pupazzi del papà e Majka le avvolge una coperta calda. I due genitori, per la prima volta insieme, la guardano. La bambina sognante afferra il dito del padre e non lo lascia più. Wojtek legge: «Una madre e una figlia, scene che posso toccare attorno a me».
Più in là, un batti e ribatti insistito in cui la ragazza rivendica l’agognato diritto ad esser chiamata ‘mamma’, respinta dalla piccola che, crudelmente, altro non riesce a risponderle: un secco e ripetuto ‘Majka’. «Per favore dì alla mamma mamma […] Per favore, chiamami mamma. Ti prego» continua la ragazza nella struggente e magnifica implorazione d'auto-riconoscimento. 
Intanto, Wojtek rimane di spalle, ogni tanto spia con la coda dell'occhio le lacrime e il rammarico disperato di Majka. 
Poi, ancora una fuga, questa volta dall'ex insegnante, ri-spezzando ancora il nucleo familiare che debole si era finalmente ricostituito pur nella tenera illusione di un incontro furtivo. La ragazza ad Anka: «Dammi un bacio. Di più. Mi vuoi bene?» – «Sì».  E il fiume porta via un ramo lanciato in acqua dalla piccola.

I genitori di Majka proseguono la ricerca e con l'aiuto di Wojtek le ritrovano alla stazione. Anka, come di consueto, chiama ‘mamma’ la nonna. Majka corre via e prende il treno al volo, così restituendo la bimba alla madre. Ewa, tra bisbigliate parole: «Majka, figlia mia».
La bambina insegue il treno e poi si ferma a guardarlo andar via incredula e disorientata, tra una madre che fugge e una che resta. Entrambe a patir, diversamente, le sfumature del significato incerto e opaco dell'esser derubati di una figlia.


Parte della serie Le dieci parole di Kieślowski

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