DECALOGO 4

Onora il padre e la madre

Esiste un’anomalia che colpisce l’occhio privandolo della nobile lungimiranza: cosicché esso si trovi ad arrancare, smistando a fatica, nella folla, i contorni confusi di oggetti e volti posti lontano all’infinito; accade, così, che in qualche modo i raggi luminosi, provenienti da questi ultimi, arrivino alla retina formando un’immagine senza fuoco. Lo scacco sarebbe dato all’uomo, se non fosse per quella sua abitudine malandrina e guardinga a far di necessità virtù e, nello specifico del caso, della sua ‘miopia’, il cardine maestro dell’altrimenti nobile gioco del mentire. Se poi la non curanza del miope è alimentata dal capriccio infantile e appagante che lo porta a decidere della disposizione e della ‘giusta’ distanza degli oggetti, tolti così dalla loro consueta collocazione per essere visti meglio, lo sposalizio diventa perfetto: ancor più che le pedine predestinate e scelte sulla scacchiera si muovano lungo le insidie e le complessità dell’intricato rapporto tra un padre e una figlia.
E infine, un paio d’occhiali con la montatura rosa a porre l’attenzione su di una ragazzetta di vent’anni, attrice inesperta, capricciosa e volubile, e sulla possibile correzione di quell’anomalia rifrattiva, che pur tuttavia, suadente, aggrada dando sfogo alle attitudini drammaturgiche di Anka. Il punto di vista è il suo.

La giovane, orfana di madre, studia in un’Accademia d’Arte Drammatica e vive col padre (Michail) nell’ormai noto condominio. Su una busta segreta, tenuta nascosta dall’uomo ma capitatale più volte tra le mani nel corso degli anni, ne riconosce la calligrafia robusta: “Non aprire prima della mia morte”. Quando trova il coraggio di aprirla, agevolata dalla partenza del padre, ve ne scopre all’interno una seconda: “Per mia figlia Anka”. La scrittura, più minuta stavolta, sembra essere quella della madre, e quel nuovo involucro di carta, col tratto di penna sbiadito, sembra contenere una preziosa lettera scritta presumibilmente dalla donna poco prima di morire, qualche giorno dopo la nascita della piccola.
Lungo le curve ora sinuose di quelle scarse parole inizia un viaggio confuso e fantasioso, fatto d’altre e nuove parole che ricalcano le originali imitandole, ma come a volerne colmare un’assenza per essere partecipi nella scrittura della propria - e dell’altrui - storia, al fianco di una madre mai conosciuta; la ragazza non ha il coraggio di aprire la busta contenente la lettera ma, ispirata da una vecchia foto trovata in una borsa giù in cantina, decide di inventarne il contenuto imitando la calligrafia della donna.

Kieślowski lascia ad Anka le vesti di conducente timoniera, decidendo di muoversi, come detto, lungo le note della drammaturgia, che per loro intrinseca natura ineriscono alla ‘parola’ e in qualche modo anche alla menzogna. Così facendo, le concede le redini di un gioco che la ragazza ricostruisce di continuo e a suo piacimento, componendolo di volta in volta con le regole che sul momento le aggradano maggiormente: come il risveglio bagnato regalato a Michail a inizio film o come il tirare a indovinare furbetto durante la visita oculistica, effettuata dopo l’ultima avvisaglia di miopia - per quell’aereo del padre in partenza non-visto.
Michail è di ritorno dal suo viaggio e Anka lo accoglie con freddezza e con un paio d’occhiali dalla montatura rosa che gli permettono di riconoscerlo perfettamente fin da subito. Nell’inaffettività disarmante di quello stesso aeroporto - simbolo per eccellenza di addii e lunghi distacchi - decide di toglierli proprio alla presenza del padre, appena arrivato al suo fianco; momento ideale per recitare la ‘verità’ contenuta nella lettera: «Michail non è il tuo vero padre» - queste le parole irreversibili. Uno schiaffo, invece, la risposta liberatoria e silente dell’uomo. D’ora in avanti, Anka non indosserà mai più i suoi occhiali.

Il rapporto tra la ragazza e il non-padre - che negli anni aveva sempre temuto di scoprire quella verità, soltanto presunta nella mente prima di allora - prende sfumature oscure e si addentra nelle insidie nascoste di una gelosia sofferta e di un senso di colpa sordo, reciproci e sottaciuti nel tempo: portando a galla un ventaglio sterminato di possibilità nei confronti di una figlia diventata corpo provocante, seducente e ora desiderabile. Le parole si susseguono violente e instancabili tra le stanze di casa, riempiendo ogni spazio libero e lasciando all’aria la trasmissione di ogni pensiero mai pronunziato. «Ma non hai mai pensato che io non voglio niente d'irreversibile? A che ti serve che io abbia un figlio? Vuoi di nuovo che tutto si risolva senza il tuo intervento? Come con la lettera: “Non aprire prima della mia morte”».

Anka e Michail si abbracciano. Poi è mattina. Al risveglio, la figlia corre incontro al padre ritrovato sotto casa, nell’atrio del condominio e gli confessa di aver inventato tutto davanti allo sguardo ‘onnisciente’ di un passante con la canoa in spalla. Decidono di dare al fuoco la busta con la vera lettera.
La parola, battendo ciglio, così si accomoda e, svincolata da superflue beghe biologiche, racconta in silenzio dell’autenticità di un rapporto magnifico e complesso che, come tra linee rette parallele, prosegue continuo. E il ‘fuoco’, idealmente e per definizione, è un dolce incontro all’infinito. Laddove gli oggetti e i volti restano dai contorni confusi.


Parte della serie Le dieci parole di Kieślowski

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