Casa mia è una città

Quando stanze e corridoi sono geografie del rapporto madre-figlio, un racconto dal concorso letterario Petrarca.fiv 2024

Casa mia è una città.
   Ha strade scivolose di olio che sbucano in slarghi ciechi; ha incroci poco illuminati, che ti devi fermare e lasciar passare, sennò sono pugnalate al ventre; ha zone che non devi attraversare.
   Casa mia ha una piazza solitaria al centro, in cui io sosto in attesa, e un precipizio in mezzo.
   In fondo, alla fine di uno stradone polveroso, c’è la stanza di Figlio.
   Figlio cammina le strade senza uscita di periferia, labirinti di vie prive di nome che non sai come devi cercare. E forse non le devi cercare perché non esistono proprio.
   Casa mia galleggia sul vuoto come un’amaca: di notte la rete si smaglia e la città crolla giù. Si ricostruisce al mattino, quando sento il respiro di Figlio di nuovo nel letto.
   Sul precipizio c’è un ponte di corda, collega la piazza alla stanza di Figlio. Lui dice che ne ha intrecciato un filo ogni giorno, io a volte mi convinco e mi assolvo.
   Le funi pendono molli come un bucato al sole, non si passa. Se provo ad arrampicarmi mi si spezzano le unghie e mi viene il terrore: perché sotto c’è l’acqua fonda e il suo sguardo cattivo, quello che gli ho insegnato con devozione.
   La verità è che il ponte l’ho costruito io, indistruttibile, dosando con cura la mia astuzia di madre. Ma poi mi sono distratta, e ora lui ne è il padrone.
   Di notte mi ci apposto vicino. Di certe strade conosco la materia dura che poi cede all’improvviso, di una strada ho misurato l’asfalto bagnato, ne ho annusato gli odori di benzina e di sangue strusciando le narici per terra.

   Oggi però c’è varco: è  il giorno della colpa, diciotto anni fa lui nasceva, le corde del ponte sono tese a mezz’aria.
   Mi avventuro, accolgo la dose di penitenza che Figlio mi impone una volta l’anno - farmaco per lui, tossico per me - attenta a non scivolare nelle buche d’acqua morta che abbiamo disseminato negli anni, Figlio ed io. Ci s’affoga.
   Alla prima curva lo specchio del corridoio mi riflette ostile a me stessa. Col pancione, incinta di Figlio per paura di ritrovarmi vecchia e con l’utero rinsecchito, incarognita a staccare dalle auto gli adesivi con la scritta bimbo a bordo.
   Figlio lo sa che non l’ho voluto?
   Distolgo lo sguardo e svolto, c’è una macchia per terra: qui l’ho picchiato una sera, non so perché – c’è forse una ragione quando monta la rabbia di una donna infelice - aveva sette anni. L’ho sbattuto fuori al buio, non l’ho ritrovato, ho gridato il suo nome: nella città vendicativa in ogni anfratto c’era il suo corpo smembrato.
   Due passi più avanti è dove l’infanzia di Figlio si è rotta, bruciata nel fumo spacciato sui gradoni di un campo di calcio. Lì Figlio ha lasciato la sua tenerezza, io la mia falsità.
   Lo stradone si biforca, imbocco una traversa in salita.
   È l’incrocio in cui siamo stati costretti a trovarci, io madre dolorosa, lui figlio crocifisso, tradito dalla scabrosità dell’asfalto. È il posto in cui una sera l’ho raccolto ferito, ogni disordine della realtà annullato dal candore dell’ambulanza, le membra del corpo di Figlio ricomposte nell’odore del disinfettante. E la polizia, le grida, gli occhi sgranati, le mani che graffiano facce.
   Tre metri ancora, e i piedi s’incollano a terra. Arriva il vicolo, il più cieco e il più buio di tutti i vicoli ciechi e bui del mondo, in cui lui mi ha detto: madre non sarò più un problema per te, ti voglio bene.
   E le viscere si sono bruciate nell’attesa, e l’urlo si è fatto roccia nella gola. Per un tempo che è diventato eterna durata e condanna.

   Percorro il cammino dalla piazza della mia città sospesa al suo mondo di ignota periferia: una distanza che sa di stelle, di pianeti e sistemi solari.
   Mi si rompono le scarpe, mi vengono le bolle ai piedi e i geloni alle mani.
   Ma il ponte ora è teso e lo devo attraversare.
   Figlio è nel suo quartiere di quindici metri quadri, il suo sguardo è un asse sottile su cui cammino come un giocoliere. Non so che dirgli, non voglio che legga l’assenza di lettere nel mio alfabeto amoroso. Vorrei che avesse bisogno di me come quando era bambino, e io non capivo la bellezza della dipendenza, il laccio che stringe e unisce.
   Una linea curva, quella di un ponte che ondeggia, può essere la strada più breve tra due punti lontani, la mia piazza centrale e la sua periferia. L’equazione della linea retta è falsa, basta un breve intreccio di corde a smontarla, una dose misurabile.
   Mi faccio avanti, Figlio si lascia trascinare.
   So che il calore che ora mi colma mi si spalmerà addosso senza clemenza, dopo. Non cesserà di struggere finché non avrà ridotto tutto a una lastra vuota. Ma ora no. Mi sembra che in quel procedere lento di una madre e di un figlio ci sia una sacralità nascosta, una presentazione al tempio.
   A compensare il figlio perso nelle notti di periferia, a colmare il vuoto di una madre che non ha fatto la madre.

   Il giorno si è chiuso, il ponte anche. Il quartiere di Figlio è lontano come la via lattea e vicino come due passi da gigante e tre da formica.
   Sospesa sull’abisso rimane la sostanza impalpabile delle trame di canapa e dei sogni.

 

Scritto per il concorso Petrarca.fiv 2024 dal tema “A piccole dosi”
In copertina un fotogramma del film Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki


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