Una casa posata in un angolo

La fuga dal presente per ritrovare le memorie in un caffè, un racconto dal concorso letterario Petrarca.fiv 2024

Me l’ero dimenticata, questa fotografia. Ora, finalmente, il caffè: un caffè come si deve, come lo so fare io. Quando Isi c’era, e c’erano gli amici, che venivano a trovarci la domenica pomeriggio, il caffè era compito mio. La domenica pomeriggio rischiava di essere il momento peggiore, per me e per Isi, e anche per i nostri amici, se fossimo rimasti soli, ognuno a rimuginare sui propri guai e sulle sciocchezze, anche se non ce lo siamo mai detti apertamente. Solo la domenica sera sarebbe potuta essere peggio, se non ci fossimo fatti compagnia; per questo le visite degli amici si prolungavano per ore, cosicché, anche nel momento di addormentarci, non venivamo soffocati dalla malinconia: si faceva così tardi che il sonno arrivava subito, e non ci si pensava più. Il caffè, con Isi, e gli amici, il pomeriggio della domenica; poi un film; poi gli aperitivi; poi la cena, sempre improvvisata; altro caffè e altro film, o una passeggiata nei sentieri vicini a casa; tutto teneva lontane le inquietudini della sera, così vicina al giorno successivo, che ci avrebbe di nuovo immerso nelle nostre responsabilità, nelle nostre solitudini, a combattere con la nostalgia delle innumerevoli ore del fine settimana passate insieme, a godere delle parole, del sole, della musica, della calma, dei libri.
   Possono urlare fino a quando non rimarranno privi di voce, con o senza quell’imbarazzante megafono: siamo in campagna qui, mica in un poliziesco americano. Faccio finta di essere sordo, tanto loro cosa ne sanno.

   Quanto mi è mancato il profumo di caffè della moka di casa mia, le tazzine con le decorazioni floreali, mangiando un biscotto, se mai scovassi il barattolo; e chissà se dentro ci troverei ancora qualcosa da mettere sotto i denti.
   Pensavano di tenermi rinchiuso fino all’ultimo giorno, in quella residenza. Ieri, dopo cena, quando tutti dormivano, ho detto all’infermiere: «Voglio guardare un po’ di tv»; la domenica sera fa tristezza, anche dopo tanti anni che non lavori più, anche quando sei così vecchio che nessuno si fida a lasciarti vivere da solo. Mi ha accompagnato fuori dalla camera, l’infermiere, dopo avere spento l’allarme del letto, che si era messo a pigolare quando mi ero alzato. Nella sala del televisore ero rimasto solo. Lui si era rintanato nella stanza degli infermieri, o in bagno, non lo so. Poi, sono uscito in corridoio, controllando ogni direzione.
   Caffè insuperabile, nonostante la moka abbandonata da tempo. Quando Isi c’era, il dolcetto, col caffè, non mancava mai. I biscotti non si trovano, pazienza. Non mi faccio vedere dalla finestra, altrimenti là fuori si agitano, e non la smettono di starnazzare.
   Quando l’infermiere è ritornato nella sala del televisore, non mi ha trovato; deve avere pensato che ero rientrato in camera; ha sicuramente controllato, e non si è accorto che erano cuscini sotto le coperte, non io: come la fuga da Alcatraz. Non potevo stare un’altra domenica sera là dentro.

   Quel megafono è davvero fastidioso. Non riesco a pensare alle cose mie; tanto meno scrivere qualche appunto: così domani avrei di che leggere, impedendomi di dimenticare di essere tornato a bere il caffè a casa mia, a dormirci un’intera notte, prima che mi ritrovassero. Avergli detto che, se entrano, mi pianto un coltello nella gola, non ha funzionato: non se ne vanno; me lo aspettavo.
   Nessuno mi ha visto uscire dalla residenza. Non si nega un passaggio a un novantenne, di sera. «Mi sono allontanato troppo da casa, e non ho più fiato per tornare: mi accompagni, per piacere, signora». Chi poteva sapere che avevo lasciato copia delle chiavi sotterrate all’ingresso dell’orto?
   Un bicchierino di grappa dopo il caffè, come quando Isi c’era. Tra un po’ gli urlo di nuovo, di sparire. Voglio stare qui ancora un’ora, meglio due; voglio pensare a quando Isi c’era; a tutto quello che ho fatto da quando, mi sembra impensabile sia passata un’esistenza, aiutavo mio padre nell’orto, in calzoni corti, a rimuovere da sotto terra un nido di formiche gialle. Non ne ho più viste, in tutti questi anni, di formiche gialle.

   Voglio stare ancora qui, a pensare e ripensare che mi hanno lasciato per ultimo: non c’è più nessuno, vivo. Chiudo gli occhi e immagino che siamo tutti a casa mia a bere il caffè della moka, di domenica pomeriggio: sento le voci di ognuno, con la sera davanti per dimenticarci i guai, o la noia, dei nostri lavori. Manca solo il gatto. Avevo un gatto, quando Isi c’era: non mi ricordo se è morto. Forse l’ha tenuto il vicino.
   Battono forte alla porta, adesso. Rimango in silenzio; guardo la moka ancora calda; la tazzina sporca; il bicchierino vuoto: ne abbiamo decine nella credenza. Guardo il forno che usava Isi, quando c’era; le sedie dove stavamo, noi due e gli amici; la televisione, spenta da mesi; tutti i libri, infilati nella libreria. Mi soffermo, più che posso, fino all’ultimo istante, su mia madre e mio padre, raggianti, in bianco e nero, il giorno del loro matrimonio.


 

Scritto per il concorso Petrarca.fiv 2024 dal tema “A piccole dosi”
In copertina una fotografia di Michael Burrows


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