#Brexit e altre distopie

La Gran Bretagna distopica del cinema e delle lettere nel giorno del referendum

Parigi distrutta, Mosca e Washington in fiamme, Tokyo sotto epidemia, e Bruxelles, Hong Kong, Berlino, Jakarta, New York, Roma, Shangai, Caracas, Città del Messico, Ginevra, Seul, Boston in pezzi. «Il mondo è collassato», recita lo spot televisivo che scorre sull’autobus in apertura de I figli degli uomini, «only Britain soldiers on». Soltanto la Gran Bretagna resiste. E sullo sfondo campeggia la bandiera del Regno Unito scossa dal vento. Di questi mesi è la domanda: come sarebbe l’Unione Europea senza la Gran Bretagna? E come sarebbe la Gran Bretagna senza l’Unione Europea? Pronostici documentati quanto discutibili sono stati formulati per risponderle, lasciando intravedere scenari di rinascimento o caduta dell’una o dell’altra a seconda dell’ideologia del profeta di turno. Lasciando da parte Bruxelles per concentrarci su Londra, al momento la sintesi migliore della questione rimane questo meme.

Per quanto hanno detto, pensato e fatto i loro abitanti, da sempre le isole britanniche sono legate al continente europeo e alla sua storia in modo speciale. Lasciando da parte, a malincuore, uno Shakespeare per le belle lettere o un Newton per la scienza, pensiamo a quanto l’esperienza britannica ci ha dato sul piano politico: sarebbe mai nata la democrazia europea, con le sue forme parlamentari di intermediazione sociale e rappresentanza politica, senza l’esempio del Parliament di Londra? Curioso che in occasione della crisi del debito greco e del paventato Grexit fosse tutto un rammentare i bei tempi di Pericle, e che oggi nessuno si spenda per ricordare, ad esempio, quel monumento alla libertà di stampa che fu l’Aeropagitica di John Milton, scritto dall’autore di Paradise Lost durante l’infuriare della guerra civile inglese (solo Riccardo Chiaberge si sottrasse allora a questo paradosso). Che dire poi del versante economico, dei modelli di sviluppo? Per gran parte dell’Ottocento, quella britannica è stata la civiltà industriale per eccellenza, da imitare e inseguire per scatenare le magnifiche sorti, e progressive della modernità. Modernità che – insinuano alcuni storici, ovviamente britannici – sarebbe proprio una creatura della Gran Bretagna.

Terra del futuro, dunque, calata nel presente dallo spirito e dai costumi dei suoi abitanti; di un futuro brillante, che né le tinte fuligginose di una città-fabbrica dickensiana, né quelle fosche di uno Shelley inviperito potevano facilmente offuscare. Eppure, in questo mondo promesso, l’incubo ha avuto tanto se non più spazio del sogno. Quanti eserciti si sono ammassati sulla Manica per invadere l’isola e porre fine alle sue peculiari libertà? Gli spagnoli con la loro Invencible Armada ai tempi di Elisabetta I, i francesi prima che le speranze di Napoleone colassero a picco a Trafalgar, i tedeschi durante la prima e la seconda guerra mondiale. Quante congiure, vere o presunte, hanno minacciato la tenuta della società, da quella celeberrima delle Polveri, quando il papa passava ancora per una temibile potenza straniera, a quella dei fuoriusciti giacobiti allorché agli Stuart successero, sul trono d’Inghilterra, prima gli Orange e poi gli Hannover che tuttora lo reggono? Travagliata prima da inestinguibili lotte intestine, poi dai rischi di un prolungato sforzo di dominio globale, sempre dalla fatica che costa mantenere un ordine in mezzo a drammatiche trasformazioni, la Gran Bretagna ha nutrito con la propria realtà una fervida immaginazione: e non c’è da stupirsi che, da chi ha concepito un mondo virtuale dove homo homini lupus, siano discesi alcuni capolavori della letteratura distopica mondiale.

Nessuno che si inoltri in queste acque rischia di rimanere insoddisfatto. L’estro dei britannici creatori di mondi sottosopra, al servizio di una critica politica e sociale che risale almeno ai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, dà modo a ciascuno di leggere avverati i propri incubi peggiori. Uno dei padri della moderna fantascienza, H. G. Wells, illustrò ne La macchina del tempo (1895) la sanguinaria biologia sociale che l’evoluzione umana poteva generare, nel remoto futuro in cui i discendenti della classe operaia si nutrono dei pronipoti dei borghesi. Robert H. Benson, prete cattolico, suggerì nel Padrone del mondo (1907) che l’erezione di un governo globale sotto l’egida di una miscela di marxismo e massoneria, ovvero ad opera di un malcelato Anticristo, avrebbe condotto all’annichilamento delle religioni organizzate e di ogni forma di fede nell’ultraterreno. George Orwell e Aldous Huxley, con 1984 (1949) e Il mondo nuovo (1932), hanno immaginato società fondate sulla complessa gestione, rispettivamente, del desiderio del potere e di quello del piacere. Il bestseller di Orwell esemplifica l’influenza creatrice dell’immediata attualità: il Socialismo Inglese e la sua divisione castale in chi è o non è membro del Partito, il Grande Fratello, la riformulazione della realtà cui il Ministero della Verità e la stessa Neolingua sono deputati, ad esempio, originavano dalla percezione orwelliana della società stalinista e dallo spettro di una guerra nucleare con le sue conseguenze sugli equilibri mondiali. E però Huxley, ne Il mondo nuovo, fu assai miglior profeta: la sua società dei consumi, contenta di essere sedata, fa molto ridere quando è Woody Allen a portarla al cinema ma nasconde i semi di una grande paura contemporanea: quella per gli effetti distruttivi, sulla tenuta dell’ordine costituito, di un malsano rapporto tra demografia e società, ovvero della contraddizione tra la quantità e la composizione della popolazione da una parte, i valori e i bisogni materiali della comunità dall’altra. Huxley minimizzava questi rischi istituendo la contraccezione universale e la fabbricazione in laboratorio degli elementi necessari alla comunità: umani alfa per le classi dirigenti, beta per i quadri amministrativi, e giù giù fino agli epsilon per i lavori umili, ciascuno fisicamente adattato alla sua funzione, grazie ai prodigi della scienza, nella fase embrionale dell’esistenza. Il tema anima pure Il seme inquieto (1962) di Anthony Burgess: la sovrappopolazione, contrastata con la sterilizzazione, la persecuzione degli eterosessuali e la promozione sociale dell’omosessualità, finisce per scatenare una dinamica di corruzione della vita associata dove ai freni malthusiani della guerra e della malattia è dato libero corso, con l’appoggio di un governo che volentieri soddisfa  le sue naturali pulsioni autoritarie.

Con geniale rovesciamento, invece, P.D. James affida a I figli degli uomini (1992) la visione di una civiltà schiantata dall’improvvisa e generalizzata infertilità della specie umana. In quest’ultima opera, e soprattutto nell’omonimo adattamento cinematografico di Alfonso Cuarón (2006), emergono alcuni dei temi che con più ferocia sono discussi ai giorni nostri, e che in parte avvelenano anche il dibattito sul referendum cui oggi i cittadini britannici sono chiamati. Quello di The Children of Men è un mondo sfinito e insicuro, dove flussi migratori incontrollati hanno contribuito al collasso del continente europeo e dove only Britain soldiers on anche grazie a severissime politiche d’immigrazione; dove la tenuta della società britannica contro l’aggressione di gruppi dissidenti (tra cui gli islamisti) è garantita, sì, ma al prezzo dell’abolizione della democrazia. Del resto, anche in V for Vendetta (1988-89), il graphic novel di Alan Moore e David Lloyd banalizzato per il cinema dai fratelli (ormai sorelle) Wachowski (2005), «l’Inghilterra domina», ovvero resiste mentre il mondo circostante brucia, grazie alla draconiana stretta del fascistissimo partito Fuoco Norreno.

In altre parole, negli ultimi decenni l’immaginario britannico, innestato su un tronco di apocalissi del domani, è stato percorso dal timore che possa succedere qualcosa (una guerra mondiale, una catastrofe dell’evoluzione, una corruzione repentina della società) tale da risvegliare gli istinti oppressivi a lungo sopiti in seno alla società britannica, e così favorire l’avvento di un governo autoritario che per mantenersi al potere faccia leva sulla propria capacità di assicurare ai cittadini sicurezza e prosperità relative, sì, ma tanto più preziose quanto più la civiltà tutt’intorno crolla. Non a caso, uno dei capofila dei Brexiteers, il tory Boris Johnson, ha paragonato l'UE a Hitler nel tentativo di spaventare ulteriormente l’opinione pubblica sui rischi corsi dalle libertà britanniche, e si è imposta l’immagine del Leave come di chi giustamente abbandona una nave che affonda. Margaret Thatcher, parlando di Europa e Gran Bretagna in un celebre discorso di quasi trent’anni fa, ricordò che «L’Utopia non arriva mai, perché sappiamo che non ci piacerebbe se arrivasse». Ancor meno piacerebbe la distopia, ma che arrivi o non arrivi è cosa in parte sottratta al nostro arbitrio.


Parte della serie Speciale Brexit

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