Brexit: David Cameron, dentro o fuori?

I diktat del primo ministro inglese all'Unione Europea e il dietrofront europeista

Il 23 Gennaio 2013 il primo ministro David Cameron, ospite di Bloomberg, pronuncia un discorso. È mattina, ed evidentemente è ancora preso dal sonno della ragione. Vuole parlare del futuro dell’Europa, esordisce. In pochi passaggi enuncia tutta la propria avversione per un progetto di «prosperità, stabilità, un baluardo di libertà e democrazia» che stava smarrendo il proprio orizzonte. Dal momento che gli inglesi sono per loro natura «più pratici che sentimentali» nei confronti dell’unità europea, Cameron reclama un accordo migliore «non solo per il Regno Unito, ma anche per l’Europa». Niente di meno che un elegante diktat per il resto dell’Europa.
L’obiettivo di Cameron è recuperare i voti degli euroscettici. Dopo essere stato a lungo vago sul contenuto di quell’«accordo migliore», incalzato dagli altri 27 Stati, delinea una serie di condizioni imperative. Così nel febbraio scorso stringe un accordo con il resto del Consiglio europeo. La concessione più importante è il riconoscimento che il Regno Unito sarà escluso dalla clausola di «ever further integration» che rispecchia l’atteggiamento storico dei britannici nei confronti dell’unità europea: un continuo valutare in termini di costi e di benefici, di opt-out per garantirsi una posizione di privilegio rispetto a tutti gli altri. L’Unione Europea non era in condizione di poter dettare troppe regole.

Stando ai dati dell’ultimo Eurobarometro l’immigrazione è la prima preoccupazione per gli inglesi, indicata dal 44% degli intervistati. Non basta essere un'isola, non aderire all’Accordo di Schengen e controllare la frontiera su territorio francese. Al secondo posto, il terrorismo, un rischio per il 24% degli intervistati. Su questi aspetti Cameron ha fatto leva, ed ha ottenuto delle condizioni: dai sussidi per i figli di immigrati, indicizzati al costo della vita del Paese dove i bambini vivono, alla riduzione dei benefit dello stato sociale per i lavoratori del resto d’Europa (anche se in pochi concordano che questo potrà avere un impatto significativo nella riduzione dei flussi migratori), al mantenere la sterlina, fino al prevedere non meglio precisati trattamenti speciali per la finanza londinese.
Una volta siglato l’accordo, Cameron ha improvvisamente cambiato atteggiamento. Da quel momento ha cominciato a battersi per l’Unione Europea «con tutto il suo cuore e la sua anima». Peccato che non tutto il suo partito sia d’accordo: lo sono sedici ministri su ventidue. Se da una parte il primo ministro ritiene che l’UE abbia svolto un 
ruolo fondamentale nel portare la pace, dall’altra l’ex-Mayor di Londra, Boris Johnson, che anela alla successione nei Conservatives, la compara invece a Hiltler. Il governo, però, è ufficialmente schierato per restare nell’Unione Europea: lo testimoniano più di nove milioni di sterline spesi per stampare e recapitare ad ogni famiglia dei fascicoletti ufficiali in cui si invita a votare stay al referendum, con tanto di stemma del governo. Una cosa che in Italia avrebbe levato lo sdegno feroce dei maître à penser più raffinati.

Tra i laburisti non va di certo meglio: il nuovo Mayor di Londra, Sadiq Khan, si è schierato apertamente per lo stay in. Il leader dei Labour, invece, lo ha fatto un po’ più a denti stretti: la sua linea politica è ancora legata a quella di quarant’anni fa. Ma anche tra i laburisti in molti sono scettici sul legame con l’Unione Europea. Basti pensare all’orientamento della working class verso l’immigrazione, ritenuta un pericolo per l’occupazione dei britannici: alle ultime elezioni nazionali, il programma dei laburisti sull’immigrazione non sembrava proprio simile a quello a cui siamo abituati con la sinistra italiana. Libdems, invece, dopo la batosta elettorale di un anno fa, procedono in sordina, sebbene siano tutti convinti europeisti. E si affidano al leader del gruppo europarlamentare Alde e al suo frigorifero per fare campagna elettorale.

L’esito del referendum è ancora piuttosto incerto. Ciò che è sicuro è che il referendum stesso, se non il suo risultato, costituirà un rischioso precedente per l’Unione Europea. Ma anche per il Regno Unito stesso e il ruolo di Cameron, perché appare impensabile che possa continuare ad essere primo ministro una volta legato il suo ruolo così marcatamente all’accordo con l’UE. Sebbene il referendum abbia valore solo consultivo, sarebbe un suicidio politico se il parlamento ne contrastasse il risultato. A gettare delle ombre sul futuro del Regno Unito in caso di Brexit, però, c’è un altro fattore: quello dell’indipendenza scozzese. Complice il beneficio economico dei fondi di sviluppo europei che il Nord dell’Inghilterra e la Scozia hanno imparato a conoscere nel corso degli anni, Nicolas Sturgeon, la leader del partito indipendentista Scottish National Party First Minister della Scozia, ha già annunciato che nel caso in cui il referendum sancisse l’uscita dall’Unione Europea, questa sarebbe l’occasione per un altro referendum di indipendenza della Scozia. A questo si aggiungerebbe la ribalta dell’UKIP di Nigel Farage, euroscettica e nazionalista. Forse, non il migliore scenario politico possibile.


Parte della serie Speciale Brexit

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