America Latina dei fratelli D’Innocenzo

con Elio Germano, Astrid Casali, Maurizio Lastrico, Carlotta Gamba, Federica Pala, Sara Ciocca

In concorso alla 78esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, America Latina è l’opera terza dei fratelli gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, romani classe ’88, dopo il bell’esordio de La terra dell’abbastanza (2018) e il successo di Favolacce (2020), vincitore dell’Orso d’argento alla miglior sceneggiatura a Berlino e di 5 Nastri d’argento tra cui la miglior sceneggiatura e il miglior film. Dalla periferia di Roma – prima Roma Est e poi le villette di Spinaceto – i gemelli si spostano a sessanta chilometri dalla capitale, per raccontare una storia di provincia ambientata nella solitudine di una casa isolata.
Massimo (E. Germano) è un rispettato dentista di Latina con una grande villa con piscina e una famiglia perfetta – la moglie Alessandra (A. Casali), che lo ama e lo completa, le figlie Laura (C. Gamba) e Ilenia (F. Pala), che disegnano e suonano per lui – e pochi amici tra cui il compagno di bevute Simone (M. Lastrico). La sua vita viene però sconvolta un giorno quando, scendendo in cantina, trova una ragazza (S. Ciocca) imbavagliata e legata ad un palo. Non riuscendo a ricordare il perché si trovi lì né a comunicare con la ragazza, che non parla, inizia una ricerca tra i suoi contatti e nella sua memoria per cercare di capire come sia finita nel suo scantinato.

Scritto dagli stessi registi, già autori dei loro primi due film e co-autori di Dogman (2018) di Matteo Garrone, il film poggia le sue fondamenta nel dialogo tra il volto di Elio Germano e le scelte visuali dei D’Innocenzo, che amplificano e distorcono gli spazi non tanto attraverso la scelta di ottiche o di inquadrature particolari, se non qualche asse inclinato qua e là, ma attraverso l’uso espressivo delle luci dell’abituale collaboratore Paolo Carnera (Il grande cocomero, ACAB – All Cops Are Bastards, Suburra), già direttore della fotografia de La terra dell’abbastanza e di Favolacce. Il rosso e il verde delle luci (e delle scenografie) in cui America Latina immerge lo spettatore contribuiscono a dare forza emotiva alla spirale di ossessioni in cui finisce Massimo, tra amnesie, pillole, alcol e scatti violenti, e restituiscono la sua confusione, il suo smarrimento. Da spettatori, condividiamo con lui la paura, l’incomprensione degli avvenimenti e i dubbi sul resto della famiglia e sull’amico Simone, che se prima rappresentano focolare e divertimento, passano poi a rappresentare l’oscurità e il complotto. I brusii, gli sguardi, le azioni poco chiare mettono in scena l’ambiguità dell’avvenimento scatenante – chi ha messo lì quella ragazza? chi è? ho fatto qualcosa che non ricordo? la mia famiglia sa? è colpa del mio migliore amico? – in una serie di domande ripetute tormentosamente che si trascinano per tutta la pellicola.
 

Da spettatori, condividiamo con Massimo la paura, l’incomprensione degli avvenimenti e i dubbi sul resto della famiglia e sull’amico Simone, prima focolare e divertimento poi oscurità e complotto


Le due sequenze più rappresentative, diverse per intensità e lunghezza, vestono appunto i colori del film: da una parte l’inquadratura a 90 gradi sul volto di Massimo coperto di gocce sotto la doccia, un ralenti tinto di verde, dall’altra il rosso dell’inquietante festa di compleanno, dove il protagonista ripete ossessivamente alla figlia di suonare più forte, per coprire le grida della ragazza in cantina. Oltre alle luci di Carnera, è funzionale a raccontare il gorgo in cui affonda Massimo la villa scenografata da Roberto De Angelis (Sulla mia pelle, Magari, Martin Eden), tra vetrate che amplificano i riflessi e la dimensione fantasmatica dell’abitazione, una piscina abbandonata che è tutt’altro che luogo di relax e uno scantinato semi-abbandonato, ricostruito a Cinecittà. Nella casa, la moglie e le figlie – le eteree Astrid Casali, Carlotta Gamba e Federica Pala – si muovono per le stanze vestite di bianco, col candore degli spiriti, alimentando l’idea del focolare domestico desiderato dal loro pater familias.

I mezzi espressivi dei D’Innocenzo, ancora una volta, ci sono tutti, ma a differenza dei loro primi due film America Latina appare debole e irrisolto, oltre a dar vita ad una serie di domande piuttosto centrali. Si può girare con disinvoltura un thriller in cui una sconosciuta viene ritrovata in cantina in mezzo alla spazzatura a tre anni dal successo globale di Parasite? Evidentemente sì, secondo i fratelli D’Innocenzo. Sembra scontato però che questo dispositivo si debba allora innestare su una struttura narrativa con un’identità forte, autonoma, ma la trama non si dipana in modo interessante né trova, in questo suo non dipanarsi, un’indagine particolarmente originale della psiche o delle motivazioni del protagonista. E ancora, in un film che sottintende una critica sociale all’idea di famiglia patriarcale – le figlie e la moglie di Massimo miti e devote sono evidentemente modellate sull’idea di famiglia ideale che il protagonista si è fatto – si può utilizzare poi una ragazza come mero strumento narrativo? Secondo i fratelli D’Innocenzo, di nuovo sì. E allora anche qui, se proprio si vuol fare, si potrebbe usare questo strumento in maniera più stimolante, dandole una personalità, un’azione, mentre la ragazza senza nome non si sposta mai dal suo ruolo di funzione, di pungolo narrativo che serve ad amplificare le ossessioni di Massimo e di conseguenza a mandare avanti la spirale degenerativa della storia. Semplicemente sta lì in cantina, come una bomba sotto il tavolo, un MacGuffin che non parla utile soltanto come meccanismo di suspense.
 

America Latina è un thriller psicologico di grande eleganza formale ma con una scrittura pigra, che si dirige senza troppe evoluzioni o guizzi verso un finale piuttosto prevedibile


Tolto uno spunto di detection mai sondato, soffocato il dramma intimo in un avvitamento visuale senza sfoghi, di America Latina rimane ben poco. Quello che resta è un thriller psicologico di grande eleganza formale ma con una scrittura pigra, che si dirige senza troppe evoluzioni o guizzi verso un finale piuttosto prevedibile. Un finale, peraltro, che non aggiunge niente ad un discorso già esplorato in modo approfondito dal genere nel suo periodo di maggior fioritura – a cavallo tra gli anni Novanta e gli anni dieci del Duemila, con capisaldi come Pi greco – Il teorema del delirio o Memento, The Others o Spider – e che sembra una stanca riproposizione del cliché in stile Il sesto senso. Anche il linguaggio registico, quando insegue gli stilemi del genere, appare stanco e derivativo (ancora le pillole e gli psicofarmaci? ancora i grandangoli sui volti nell’ombra? ancora gli occhi stralunati? ancora il finale con le luci e le sirene della polizia e il colpevole portato via in manette?) e francamente non al livello delle potenzialità dei registi romani. Certo, c’è il tema della famiglia patriarcale legato a quello della violenza maschile che aggiunge un livello ulteriore al film, ma sembra indagato un po’ poco per risollevare le sorti di una pellicola che, pur nel nobile tentativo di Elio Germano di portarla sulle proprie spalle, finisce inevitabilmente per cedere sotto il peso del suo formalismo.

 

«Vorrei che proteggessimo tutto questo»
ITA 2022 – Thrill. 90’ ★★


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