L’eredità oscurata. Un viaggio in Europa nelle terre delle proprie radici ebraiche

Un’ebrea americana racconta il suo viaggio sulle tracce dei propri antenati in Germania e Norvegia

Per ingannare il tempo in attesa del traghetto notturno diretto a Bergen, in Norvegia, io e Joe, il mio fidanzato, abbiamo esplorato una piccola ansa della costa danese. Era primavera ma c’era un freddo glaciale, e il vento pungente e salato del Mare del Nord sferzava i nostri volti scoperti. Appena più a nord di Hanstholm, ci siamo imbattuti in un bunker abbandonato a ridosso di un boschetto. Sono rimasta colpita da questo relitto della Guerra che, costruito abusivamente vicino all’oceano, assomigliava a un fuggitivo di un’altra epoca. Attorno non c’era nessuno e una profonda sensazione di terrore mi ha preso allo stomaco, come se stessi facendo qualcosa di sbagliato, o come se Hitler stesso potesse apparire da quell’oscura entrata con indosso l’uniforme e la svastica rossa sul braccio. Solo qualche giorno prima eravamo passati da Norimberga e Buchenwald. In Germania ho guardato negli occhi persone che mi avevano trattato con gentilezza e mi sono chiesta se i loro genitori fossero stati nazisti.
 

Da bambina, l’Olocausto mi disorientava e affascinava. In quel momento, da giovane adulta in Germania, mi sentivo più triste per i tedeschi che per una storia che non aveva avuto effetto sulla mia vita in modo significativo


Avevamo accompagnato dei ragazzi australiani dall’ostello all’Area dei raduni di Norimberga e, mentre leggevo i graffiti e guardavo quella sterile pietra grigia, uno di loro si è avvicinato al leggio in cemento e ha alzato un braccio facendo il saluto romano, come nei vecchi cinegiornali. Mentre lo guardavo, sconcertata e arrabbiata, ho notato i denti di leone che crescevano tra le massicce tribune grigie: la natura cominciava a reclamare lo stadio. Essendo un’ebrea americana, nella mia vita ho partecipato spesso a conversazioni in cui si parlava di evitare la Germania o di non comprare prodotti tedeschi. Spesso, nella mia famiglia, questi discorsi li facevano i parenti stranieri e chi apparteneva alla generazione dei miei nonni. Sedevamo su un divano morbido, la CNN accesa in sottofondo, qualcuno diceva qualcosa riguardo al Libano, qualcun altro paragonava gli estremisti arabi ai tedeschi, e qualcuno infine borbottava «Nazisti del cazzo». Da bambina, l’Olocausto mi disorientava e affascinava. In quel momento, da giovane adulta in Germania, mi sentivo più triste per i tedeschi che per una storia che non aveva avuto effetto sulla mia vita in modo significativo. Nella maggior parte dei paesi che io e Joe abbiamo visitato, essere una turista, andare per musei, chiese e castelli significava che, lasciando il paese, potevo farmi un’idea della sua lunga storia e di cosa era cambiato negli anni. Ma in Germania veniva riproposto solo l’ultimo secolo, più e più volte, come una sorta di ammenda che non sarà mai sufficiente.
Norimberga è anche una città fondata prima della fine dell’undicesimo secolo, con mura spesse che circondano il suo centro per tenere lontani gli invasori; ha dato i natali ad Albrecht Dürer, artista e matematico del Rinascimento, e vi si trova il primo distretto a luci rosse che ho visto in Europa. L’Area dei raduni, invece, mi sembrava una coscienza sporca in bella mostra, avrei voluto andare ancora più indietro nel tempo.

I nazisti credevano al motto «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi, e lo avevano imposto ai loro prigionieri nei campi di lavoro e sterminio. Mi sono sempre sentita in imbarazzo a leggere questa frase, perché mi sembrava che potesse avere senso. Ovviamente, i tedeschi la intendevano letteralmente, mentre io, fin da giovane, la interpretavo più come una fatica metaforica. Mi tornava alla mente anche davanti all’Area dei raduni, al forno crematorio a Buchenwald, all’entrata del bunker nazista in Danimarca, mentre guardavo quell’orrore senza battere ciglio. Dopo aver fatto amicizia con i tedeschi e aver scoperto che c’era molto di più in quel paese oltre a Hitler, mi sono sentita meglio nei confronti di quell’oppressione che mi avevano insegnato a provare ma che non avevo fatto mia. Mi sono sentita libera dalle catene a cui inconsapevolmente la mia famiglia mi aveva legata. La fatica nel valutare quanto piangere, quando girarmi dall’altra parte o quando lasciare il forno crematorio mi hanno permesso di capire che il mio amore per Berlino era accettabile e che poteva piacermi il cibo tedesco. Avevo attraversato una sorta di rito di passaggio, che mi ha permesso di vedere oltre le atrocità che quel paese continuava a mettermi davanti.
 


L’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald


Il bunker era una grossa struttura circolare sotterranea, sopra la quale, al livello del suolo, avrebbe dovuto esserci un grande cannone rivolto verso la Norvegia. Mi sentivo troppo a disagio per entrare. Se non ci fossero stati i nazisti o qualche scheletro, di sicuro ci sarebbero stati dei ratti. Joe è entrato, ha descritto il percorso attorno al cerchio e l’anticamera all’esterno dei saloni principali. Dentro era umido e buio, i resti delle fondamenta erano sul pavimento e sui muri c’erano graffiti illeggibili. La postazione dei cannoni, l’unica parte che potevo vedere dall’esterno, era ampia venticinque metri e profonda cinque: mi sono immaginata cosa si potesse provare a caderci dentro. Joe è entrato nella postazione dei cannoni dall’interno del bunker, mentre io, seduta sul bordo, facevo penzolare le gambe. Mi ha sorriso, ha detto che dovevo andare con lui ed è sparito attraverso un’altra porta.
 

Mi ero sentita in dovere di visitare l’Area dei raduni, i campi di concentramento, le casematte naziste di Brno


Il tempo che abbiamo passato nel bunker è stato un tempo sospeso, un momento d’attesa. Attesa del traghetto e di visitare un nuovo paese e le sue regioni; attesa della guerra in Iraq, che era cominciata qualche giorno prima; attesa di mettersi in viaggio per davvero. Volevo percepire l’essenza di quei luoghi così come avevo fatto in Romania e in Grecia. Volevo che il cibo avesse il sapore di questo paese, che i panorami fossero perfetti. Il bunker non era niente di tutto questo, era cemento corroso, un ulteriore esempio di ciò che eravamo già stati costretti a vedere in Germania. Mi ero sentita in dovere di visitare l’Area dei raduni, i campi di concentramento, le casematte naziste di Brno, ma non mi sentivo in dovere di entrare in questo bunker umido, e non mi sembrava di fare un torto al mio popolo sedendo con le gambe penzolanti nella postazione dei cannoni. Se non altro, il bunker ha rappresentato per me una sorta di conclusione in una storia di sofferenza. Ero disposta a essere in così tanti altri posti che mi sentivo in diritto di rinunciare a questo.

Abbiamo guidato fino al punto d’incontro a Bergen, dove Erik, un lontano zio di Joe, ci aspettava con altre quattro persone, teneva in mano un cartello con la scritta FOSS, il cognome che lui e il mio fidanzato condividevano. Siamo scesi dalla macchina e Joe ha stretto la mano a Erik, che ci ha presentato agli altri, alcuni cugini e le loro famiglie. C’era una ragazzina, capelli biondi e occhi grandi, che si è girata verso sua madre e ha detto qualcosa che io e Joe non abbiamo capito. Gli altri sono scoppiati a ridere finché Erik, cercando di riprendere fiato, ha tradotto: «Ha detto che non riesce a credere che gli americani siano così belli». La madre della ragazzina si è girata verso di noi sorridente: «Non sapeva cosa aspettarsi».
La tensione che si accumula viaggiando è la stessa che si ha quando ci si trasferisce in un posto nuovo. Ci trovavamo in un perenne circolo vizioso, passavamo dal sentirci a nostro agio al disagio; a volte ci sentivamo immediatamente a casa, altre ci sentivamo sottosopra. Queste montagne russe emotive dei primi mesi erano ricche di adrenalina, piacevoli, erano la ragione per cui eravamo partiti. Verso la metà di marzo, dopo quattro mesi di viaggio e senza alcun biglietto di ritorno, questa routine aveva cominciato a stancarmi. Volevo un po’ di stabilità, poter stare in un solo luogo e avere un letto comodo per un lungo periodo di tempo. Mentre pensavo a questo sul traghetto, o quando ridevo insieme ai norvegesi, non sapevo che sarebbe stato proprio Erik a offrirci quello di cui avevo bisogno: un nostro appartamento e la voglia di farci da guida.
 

La tensione che si accumula viaggiando è la stessa che si ha quando ci si trasferisce in un posto nuovo


Viaggiando ho imparato che quello di cui si ha bisogno ci viene concesso al momento giusto. Quando volevo smettere di visitare chiese, abbiamo trovato un posto dove fare snowboard; quando avevo bisogno di lasciarmi alle spalle la storia della Germania nazista, ci siamo imbarcati per la Norvegia; quando mi sono stancata dei musei, mi trovavo ad Amsterdam. Oltre a offrirci abbondanti colazioni e uno spazio tutto per noi, Erik è stato ben felice di accompagnarci per la città. Sapeva cosa volevamo fare, dove volevamo andare e ci guidava, ci ha insegnato la storia della città e parlato dei personaggi famosi che ci avevano vissuto. Il suo inglese era perfetto. Nessuno si era preso cura di noi in questo modo da quando avevamo messo piede in Europa e la nostra amica Susana ci ha portato per una settimana a visitare la Costa del Sol. Lasciare le redini del viaggio a qualcun altro è stato un piacere, e abbiamo lasciato a Erik il controllo di tutto.

Durante il nostro terzo giorno a Bergen, Erik ci ha portati fuori città per visitare la fattoria della famiglia Foss. La parola voss in norvegese significa «cascata», e vicino a un fiordo a nord di Bergen si trova la Foss voss, sulla proprietà di un allevatore di mucche, proprio dietro la stalla. Il contadino ci ha ospitato nella sua cucina, ci ha offerto del lefse, e del tè alle erbe. Ho dimenticato le storie che ci ha raccontato, ma ricordo i pannelli di legno della casa, il volto segnato dal tempo del contadino, la delicatezza con cui si occupava delle mucche. Stavo accanto a una di loro e l’ho guardata negli occhi, inspirando l’odore del letame. Fuori la pioggia cadeva leggera, rendendo il colore delle piante di un verde ancora più vivido. Lasciare la stalla è stato come entrare a Oz agli inizi della primavera, quando le piante crescono rigogliose.


Lungomare di Bergen


La storia della mia famiglia, a differenza di quella di Joe, non è molto lunga. Non potrebbe essere altrimenti dato che i miei bisnonni sono stati perseguitati e costretti a lasciare la Russia. E cosa ci resta di tutto questo? Uno shtetl bruciato? Il ricordo della violenza? Questa differenza di appena qualche generazione tra le nostre esperienze mi ha fatto sentire più lontana da Joe. Ho pensato ai suoi antenati che lavoravano in questa fattoria, che accudivano le progenitrici delle mucche nel fienile, dando sicurezza alle proprie famiglie, cullandole nei meandri del nord Europa. Cosa sarebbe successo ai miei antenati se fossero rimasti in Russia o nell’est Europa? In quel momento ho sentito tutto il peso delle mie origini ebraiche e la tristezza che si accompagna al non conoscere le città dei miei antenati, alla certezza che se fossero rimasti sarebbero morti, ai pochi beni che hanno tramandato. Ho sentito anche la forza del privilegio di essere bianchi, cristiani, europei. Joe mi pareva un vichingo che vogava verso il futuro senza permettere che niente intralciasse il suo cammino, sicuro che quello fosse un suo diritto.
 

In quei posti ho sentito che il mondo si stava assumendo le proprie responsabilità, mentre cercava di educare, scegliendo di creare una coscienza collettiva moralmente necessaria


Stare lì, di fronte a quella cascata, con quest’uomo, mi ha scossa in modi in cui il bunker, i campi di concentramento e l’Area dei raduni non avevano fatto. In quei posti ho sentito che il mondo si stava assumendo le proprie responsabilità, mentre cercava di educare, scegliendo di creare una coscienza collettiva moralmente necessaria. Ma in quel momento stavamo guardando una storia personale e la consapevolezza che la mia fosse stata intenzionalmente oscurata mi ha devastato, benché continuassi a sorridere guardando la Foss voss. Volevo poter andare in Russia, vedere lo shtetl, immaginare una capanna piena di bambini e paura, perché quello era reale. Volevo conoscere i parenti che non incontrerò mai, il prozio o il cugino, insomma la controparte di Erik della mia famiglia, la persona che ci avrebbe portato in giro, dicendo: «Qui è dove ci siamo nascosti durante i pogrom, e là è dove abbiamo seppellito i bambini».

 

In copertina: bunker a Brno. Fotografia di Michal Klajban 

Erica Sklar è un’autrice statunitense. Ha scritto per The Summerset Review, Barely South, Blue Earth Review. Questo articolo è stato pubblicato su The Summerset Review | Inverno 2014 ► Legacy  | Traduzione di Valentina Pesci


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