A scuola di comunità

L’educazione attraverso la trasgressione e il pensiero critico nei tre saggi di bell hooks pubblicati da Meltemi

Forse più che per altre voci chiave nelle lotte di emancipazione, è difficile immaginare il lavoro di bell hooks disgiunto dal suo profondo intento comunicativo. Non solo, infatti, la stessa autrice – studiosa, scrittrice e attivista nera statunitense – si esprime più volte sulla necessità di portare la riflessione teorica sulla marginalizzazione e la razzializzazione oltre i confini della mera discussione accademica, ma è altrettanto dichiarato l’obiettivo di rendere fruibile e condivisibile il suo percorso con quante più persone possibile. È quasi una vocazione, che permea tutta la sua attività e che potremmo a buon diritto connotare come educativa, a patto però di intendere questo aggettivo proprio nella declinazione che hooks ha esplorato, sia nella pratica dell’insegnamento sia nella scrittura che l’accompagna. Due dimensioni esistenziali, che in lei sono da sempre interrelate.
 

Fin dall’infanzia, ero convinta che avrei insegnato e scritto. Scrivere sarebbe stato il lavoro importante, insegnare invece il lavoro “non-tanto-importante-ma-necessario-per-vivere”. Scrivere, questa era la mia convinzione di allora, aveva a che fare con il desiderio intimo e la gloria personale, mentre l’insegnamento riguardava il servizio, la restituzione alla propria comunità. Per i neri, l’insegnamento – l’educazione – era fondamentalmente un atto politico, perché radicato nella lotta antirazzista. In effetti, le scuole elementari per neri sono diventate il luogo in cui ho sperimentato l’apprendimento come rivoluzione.


Nell’istituzione scolastica, già da giovane alunna, hooks ha sperimentato quelle ambigue complessità della segregazione, tra impoteramento (empowerment) e limitazioni, che si troverà poi a vivere in altra forma quando siederà tra i banchi e in cattedra in aule nominalmente derazzializzate. Questo contesto biografico, esperienziale, che sostanzia il suo pensiero è anche ciò che lo rende capace di parlare a chiunque si trovi non già nella condizione di svolgere il suo stesso lavoro, ma ancor più dell’assumere consapevolmente la responsabilità educativa che ogni membro di ogni comunità ha nei confronti di se stesso e di quest’ultima.

Questo passaggio dal personale al politico è reso possibile dalla presenza viva di due costanti, che attraversano tutti i lavori dedicati da hooks all’insegnamento e che ne costituiscono il nucleo di senso: l’incarnazione e l’impegno. Trovarsi in un contesto educativo significa, infatti, in primo luogo essere presenti come corpo, come persona incarnata, di fronte, o meglio insieme, ad altri corpi di altre persone. Minimizzare, perfino ignorare, questa realtà così concreta da rendere in generale possibile qualcosa come una relazione, anche nell’educazione, è tuttavia una dinamica onnipresente, radicata nella dicotomia che fonda la cultura occidentale, per la quale ciò che è corporeo si trova sempre separato e contrapposto a ciò che sarebbe invece proprio della produzione spirituale. Una perversione prospettica che hooks decostruisce portando avanti l’analisi delle dimensioni reali del suo stare in classe e quindi anche in comunità, senza tralasciare di affrontare le questioni più disagevoli per chiunque creda che dal corpo si possa prescindere, come quelle dei privilegi di una corporeità non razzializzata o dell’azione dell’attrazione erotica.
 

Trovarsi in un contesto educativo significa in primo luogo essere presenti come corpo, come persona incarnata, di fronte, o meglio insieme, ad altri corpi di altre persone


Proprio per questo non è lecito sottovalutare la responsabilità che si associa alla relazione educativa, che, lungi dall’essere un’azione circoscritta e superficiale, muove sempre dalla e nella concretezza personale. È dunque necessario, secondo hooks, assumere consapevolmente i rischi connessi a una pratica che deve sapersi sempre umana, con tutto il rischio, la vulnerabilità e anche la potenzialità che ciò comporta. Se l’esperienza da cui muovono le sue riflessioni è quella del confronto con il razzismo non tematizzato e dello sforzo di portarlo nel reale nominandolo come verità, agendo di conseguenza, partire dall’aula e cioè dalle persone che la abitano diventa un insegnamento trasversale per chiunque si trovi ad avere a che fare con l’altro e voglia costruire un dialogo nel quale impararlo, impararsi e imparare insieme nuove prassi.

Nelle tre raccolte di saggi sul tema dell’insegnamento, pubblicate in Italia da Meltemi con traduzione di feminoska, hooks sviluppa questo approccio secondo diverse direzioni. Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà (2020) si concentra sulla dimensione del desiderio come motore tanto del percorso di crescita che accompagna qualsivoglia apprendimento, quanto del processo di emancipazione che dovrebbe così essere reso possibile. Importante per l’autrice è il riferimento alla pedagogia di Paulo Freire, con il quale scrive di aver instaurato un rapporto di profonda solidarietà. Solidali sono infatti nella ricerca di una possibile articolazione tra la consapevolezza del privilegio e la necessità di superarlo nella relazione educativa, riportando al centro la dimensione umana delle persone che vi si trovano implicate. Un percorso che non può essere compiuto cautelandosi nell’assunzione di un ruolo: l’insegnamento che pratica la libertà tocca e apre, coinvolgendo tutti, docenti e discenti insieme.
 

[…] ci sono momenti in cui l’esperienza personale ci impedisce di raggiungere la vetta e quindi la lasciamo andare perché il suo peso è troppo gravoso. E, a volte, la vetta resta difficile da raggiungere pur con tutte le nostre risorse, teoriche e reali, e tutto ciò che possiamo fare è lo sforzo collettivo di comprendere i limiti della conoscenza e di desiderare insieme un modo per raggiungere la cima agognata. Anche desiderare è un modo di conoscere.


Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza (2022) pone invece sin dal sottotitolo l’accento sulla speranza, come obiettivo della prassi pedagogico-educativa. Sperare significa aprire l’orizzonte del possibile per consentirne la sua trasformazione nel reale, significa cioè lavorare affinché il cambiamento possa avvenire. Rispetto alla prassi della trasformazione, l’insegnamento non è solo una specie di preparazione teorica, bensì ciò che permette di creare le condizioni necessarie e di apprendere, insieme, cosa si debba fare. Il concetto di comunità è in questo senso diverso dal semplice raggruppamento di individui, che può darsi in un’aula come in altri contesti, e assume piuttosto i connotati di una dimensione viva di cui prendersi cura. Qui è infatti dove il personale e il politico si incarnano nella concretezza reale dei soggetti, qui è dove avviene il riconoscimento reciproco che nutre le relazioni umane. Umane, e mai disumanizzanti, come Freire insegnava, e come hooks ci invita a mettere in pratica proprio laddove è più difficile farlo, suggerendoci di continuare a credere nel cambiamento altrui, anche per rompere quel meccanismo binario di oppressione, marginalizzante, che altrimenti non faremmo che rafforzare.
 

Uno dei poteri dei gruppi subordinati è quello di demonizzare coloro che occupano posizioni dominanti, comportamento che può essere funzionale a gestire la paura e l’ansia che di solito abbondano dove la cultura dominante è la norma, ma non è utile se il nostro obiettivo è agire per cambiare strutture e individui.


Nell’ultimo lavoro della trilogia sull’insegnamento (Insegnare il pensiero critico. Saggezza pratica, 2023), l’autrice riflette sull’educazione come spazio fondamentale per la costruzione e la sperimentazione del pensiero critico. Una pratica che implica la capacità sempre rinnovata di gestire la complessità e continuare a interrogarsene. Tutto il lavoro di hooks realizza ciò che, in questo testo, compare come un’ulteriore opportunità da mettere a frutto nel contesto della relazione educativa. In nessuna delle sue pagine si trova, infatti, quella semplificazione che spesso adottiamo nella realtà quotidiana: la consapevolezza della sua struttura complessa permea invece la sua riflessione, così come la pratica che racconta, proprio perché entrambe muovono dal relazionarsi all’umano. Rispetto alla dimensione della persona, alla sua concretezza e alla sua irriducibilità a qualsivoglia categoria, anche l’insegnante si trova sempre in una dinamica di apprendimento, di cui deve prendere coscienza per poterla abitare senza volerla esorcizzare nella pratica di dominio monologico a cui spesso l’insegnamento tenta. Se chi insegna deve anche sempre imparare, è allora necessario che sappia porsi da sempre anche in posizione di discente, come anche Freire sosteneva, insieme e non di fronte a chi accompagna nel percorso educativo.
 

Non possiamo fingere che le nostre voci abbiano tutte lo stesso peso, ma la condivisione dell’esperienza personale dei docenti può cambiare la prospettiva sul materiale assegnato, contribuendo a gettare le basi per costruire un’autentica comunità di apprendimento. Rendendoci vulnerabili, mostriamo ai nostri studenti che anche loro possono correre rischi, essere vulnerabili, avere fiducia che i loro pensieri e le loro idee riceveranno adeguata considerazione e rispetto.


Entrare in un’aula o anche solo entrare in dialogo con persone ignare dei meccanismi di marginalizzazione che contribuiscono a promuovere, cieche al proprio privilegio eppure pronte a difenderlo ogni qual volta venga messo in discussione, è l’esperienza di vulnerabilità che hooks ci consegna. A partire da qui si può imparare. Non solo nel senso che è così possibile apprendere qualcosa della razzializzazione, della sua complessità e delle pratiche per la sua decostruzione, ma proprio nella misura in cui qui si mette in moto una dimensione dell’esistenza che si configura come apprendimento permanente. È solo in questa apertura radicale che qualcosa come l’educazione, di sé e delle altre persone può darsi. Una dimensione in cui non è semplice tenersi e che pure hooks insegna come provare ad abitare.
 

Entrare in un’aula o anche solo entrare in dialogo con persone ignare dei meccanismi di marginalizzazione che contribuiscono a promuovere è l’esperienza di vulnerabilità che hooks ci consegna


La condivisione della sua vulnerabilità, del suo rischio, del suo personale risuona nello spazio politico della comunità di chi la legge come, insieme, il coraggio di essere e il coraggio di diventare. Essere nel ruolo che ci si ritrova ad agire, senza limitarlo a una specie di aspetto accessorio dell’esistere, ma assumendolo anzi davvero con tutto ciò che comporta, in termini di rischio, esposizione, fallimento, messa in discussione. Crescita. Perché non è possibile stare in nessuna dimensione dell’esistenza mortificandone la vitalità dentro un’etichetta, che sia professionale o individuale. Occorre piuttosto riconoscere e così accogliere il divenire che ci dà forma, che letteralmente fa quello che noi siamo, in ogni momento e ogni volta, in qualche modo, da capo. È con questa consapevolezza che hooks invita a entrare in classe, ma soprattutto a entrare in dialogo con l’altro, non mai solo come il ruolo che ci viene attribuito, ma sempre anche, anzitutto, come la persona che stiamo diventando. Per quanta paura faccia.
 

In copertina: bell hooks parla in un intervento all’Università del Wisconsin. Foto conservata dalla Madison Public Library


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