Vitruvio non abita più qui

Architettura e urbanistica nei tempi grigi dell'Expo

Qualche mese fa una cara amica ferrarese, ora fresca di laurea, mi ha raccontato una sua sconfortante esperienza. Scenario: giornata di presentazione delle aziende allo IUAV di Venezia, la prestigiosa università di architettura, design, teatro, moda, arti visive, urbanistica e pianificazione del territorio che dal 1926 sforna alcuni fra i migliori progettisti del nostro Paese. Sulla carta doveva essere una giornata dedicata a tutti i corsi di laurea dell’ateneo: invece, nessuno spazio è stato dato all’urbanistica e alla pianificazione territoriale, due ambiti completamente snobbati e persino ridicolizzati durante gli interventi di alcuni operatori del settore. La mia amica, sentendosi presa in giro nella sua professionalità, ha giustamente abbandonato il convegno.

Come sempre, è dai dettagli che si coglie l’umore generale. L’esclusione degli urbanisti dal “giro che conta” è un dato ormai strutturale in Italia, dove le amministrazioni locali affidano le sorti delle nostre splendide città d’arte ad architetti protervi, incapaci di calare l’opera nel contesto, smaniosi di lasciare la loro firma con palazzi in deroga a qualsiasi criterio di bellezza e utilità. Elementi primi e ultimi, assieme alla «solidità», di ogni edificio che si rispetti, secondo la teoria illustrata da Vitruvio nel De architectura duemila anni fa. L’abbiamo visto a L’Aquila, subito dopo il terremoto: da una parte l’abbandono totale del centro storico, luogo della vita autentica di una città, dall’altra la rapidissima costruzione di quartieri senz’anima dove le strutture, dopo pochi anni, già soffrono per la pessima qualità dei materiali, con infiltrazioni, crepe e pavimenti sconnessi. Eccole, le famose new town: cattedrali in un deserto di servizi, prive di luoghi di ritrovo, deprimenti dormitori dove la socialità è uccisa. E intanto, la ricostruzione procede a ritmo di lumaca.

Facciamo un salto all’indietro, nel 1941. Per l'Inghilterra è un momento drammatico: il paese, ormai al tracollo economico, si domanda che senso abbia proseguire la guerra contro Hitler. Il governo, alle prese con una crisi di sfiducia senza precedenti, si risolve ad affrontare di petto il malessere della popolazione, incaricando lord W. H. Beveridge di stilare un rapporto sulla situazione economica e sociale del paese. Il 20 novembre 1942, nella più antica democrazia del mondo che però non aveva avuto un suo New Deal, vede la luce il Rapporto Beveridge, nato per «indagare sul vasto raggio d’anomalie sorte come risultato della crescita a casaccio e a pezzi del sistema di sicurezza sociale nel cinquantennio precedente». In un Occidente martoriato dalla guerra, Beveridge propone una terza via rispetto al capitalismo radicale e al socialismo reale: il Welfare state, ossia lo stato del benessere, dove siano garantiti occupazione, sanità, istruzione, pensioni, norme anti-infortunistiche e sostegno al reddito, alla luce dei principi libertari della Carta Atlantica firmata l'anno precedente, dove si definiva la sicurezza sociale come «libertà umana essenziale». Colpisce, all'interno del Rapporto, un passaggio su tutti: il motto «occorre combattere lo squallore». Quello squallore che Beveridge identificava nelle file dei poveri alle mense generali, nei vagabondi senza meta dei quartieri malfamati, nelle industrie abbandonate in pieno centro città.
A distanza di decenni, lo squallore descritto da Beveridge non è affatto morto: ha solo cambiato aspetto. E ha assunto, per l’appunto, il volto delle periferie devastate dal cemento, delle città congestionate dal traffico, dei quartieri sfigurati da architetture deliranti e piani urbanistici criminali.

«Che cosa rappresentano, per l’arte del costruire, gli assiomi tramandati da secoli e oggi morti d’asfissia: i tre ordini architettonici, gli stili, il Vignola? Sono residui di civiltà tramontate, conservati nel nostro mondo contro ogni buon senso e divenuti ormai dei falsi testimoni». Parole di Le Corbusier, punto di riferimento per l’architettura del Novecento, tratte dal suo libro Maniera di pensare l’urbanistica (1945). Rileggerle oggi fa impressione: si avverte una fede cieca nel progresso, in un futuro dominato dal cemento. Eppure, le intenzioni erano buone; appena una riga più avanti, Le Corbusier scriveva: «Per formulare le risposte da dare ai problemi posti dal nostro tempo e riguardanti l’attrezzatura della nostra società, vi è un unico criterio accettabile, che ricondurrà ogni problema ai suoi veri fondamenti: questo criterio è l’uomo».

Settant’anni dopo, sappiamo che l’uomo è davvero il criterio non nelle brutte copie dell’unitè d’habitation realizzate dagli epigoni di Le Corbusier, bensì nei tre ordini architettonici, negli stili e nel Vignola. Ossia in quella millenaria tradizione del costruire dove ogni singolo edificio è pensato per resistere al tempo, dilettare lo sguardo, dialogare con il contesto. Ma soprattutto per essere vissuto, molto prima che alcuni parlassero di smart city, ‘città intelligenti’, convinti di aver inventato qualcosa di nuovo. 
Su questo si è espresso, con la consueta efficacia, l’architetto e antropologo Franco La Cecla in una recente intervista: «Espressioni come “Green City” e “Smart City” sono più che altro usate come slogan. Tutte le città potrebbero, e dovrebbero, essere green. Ma non bastano il verde pubblico e gli orti urbani per guadagnarsi l’etichetta di green city: fare un bilancio dei consumi in modo da ridurre le emissioni di CO2 significa compiere tutta una serie di azioni, come costruire con materiali diversi, coibentare, usare energie alternative […]. E soprattutto significa avere una precisa visione del futuro. Il mio timore è che possa prevalere una visione un po’ di facciata, in cui ci si curi dell’aspetto green delle città, tralasciando però la sostanza democratica del vivere in un contesto urbano. Una delle questioni fondamentali è, secondo me, la presenza della gente negli spazi pubblici: è importante che le persone utilizzino e vivano la strada, i marciapiedi, le piazze». Parole da scolpire sui muri, che sottintendono un discorso ancora più profondo: una città non è solo la somma dei suoi palazzi, bensì la storia che ha palpitato in essi e le esistenze che vi pulsano nel presente. Personalmente, me ne frego che Trieste, Genova o Roma diventino smart city, dove tutto è comodo e a portata di touch screen: la vita è nella stratificazione creativa, negli intonaci da restaurare, nello scontro con le persone, nella scomodità che aguzza l’ingegno, nelle botole che conducono sotto terra, nelle strade a senso unico dove finisci tuo malgrado e scopri l’impensabile. Il resto è roba per riviste snob, dove si oscilla dal minimalismo depressivo al priapismo progettuale.

E l’Expo 2015, la tanto decantata vetrina che dovrebbe ridare smalto al nostro Paese? Ancora una volta, le indagini della magistratura stanno svelando tangenti e appalti truccati. Tutti hanno condannato la corruzione, com’è giusto che sia, ma quasi nessuno ha evidenziato il vero peccato originale dell’Expo di Milano: la smania di edificare a tutti i costi, anziché usare gli spazi già esistenti riqualificandoli e costuire solo lo stretto necessario. Le Olimpiadi di Roma, nel 1960, si svolsero anche negli edifici costruiti dei Cesari: ancora oggi sono ricordate come le più belle dell'intero Novecento. Un esempio mai più replicato, purtroppo: malate di "eventismo", la politica e l'imprenditoria edile hanno devastato l'Italia. E Milano, puntualmente, si è venduta alle archistar; ma i grattacieli di City Life firmati Libeskind, Isozaki e Zaha Hadid, dispendiosissimi giganti omologati al grande discount dell’architettura contemporanea, non c’entrano nulla con il tessuto storico della città.

Il futuro del nostro Paese si gioca tutto sul ritorno alla saggezza che ha plasmato paesaggi, contrade e scrigni d’arte che il mondo intero ci invidia. Forse siamo ancora in tempo per invertire la rotta.


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