Un Paese irriformabile

La bocciatura del TAR delle nomine ai vertici dei musei e l’Italia dell’autoreferenzialità

«Il mondo ha visto cambiare in 2 anni i musei italiani e ora il TAR Lazio annulla le nomine di 5 direttori. Non ho parole, ed è meglio». Il ministro dei beni culturali, Dario Franceschini, si affida a Twitter per esprimere laconicamente tutto il proprio stupore, in neanche 140 caratteri. Il TAR del Lazio, accogliendo due distinti ricorsi, ha di fatto annullato l’esito del concorso previsto dal decreto legge sulla cultura con cui si intendeva selezionare i direttori dei maggiori musei e parchi archeologici nazionali. Improvvisamente, i direttori divengono usurpatori, e da vincitori del concorso passano a perdenti al cospetto della giustizia amministrativa. Visto che 7 di quei 20 direttori nominato sono stranieri, la figuraccia assume prontamente dimensione transnazionale.
L’obiezione maggiore mossa dal TAR è proprio questa: la partecipazione al concorso di cittadini non italiani, benché dell’Unione Europea. Richiamandosi all’Articolo 38 del Testo unico sul pubblico impiego, in cui si stabilisce che sono riservati a cittadini italiani i posti di lavoro che «implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri» e che «attengono alla tutela dell’interesse nazionale», il TAR nota che il concorso non derogava in modo esplicito alla norma. Ma non basta: i giudici amministrativi si profondono in una dovizia di critiche alla procedura utilizzata, che definiscono «magmatica», e ne criticano finemente i parametri. Adesso, a meno che il Consiglio di Stato non accolga il ricorso presentato dal MIBACT, la nomina dovrà essere annullata.
 

C'è un'Italia di provincia che si oppone fermamente al cambiamento. Quella che ad ogni tentativo di riforma tira fuori la Costituzione che «tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione», e poi fa finta di ignorare che per preservare il patrimonio culturale servono soldi e competenze gestionali


«Quel concorso è stato condotto malissimo, ai limiti della farsa» chiosa Tomaso Montanari, da sempre ostile per principio a coniugare il concetto di profitto a quello più aulico di cultura. Gli fanno eco gli esclusi – ma sarebbe più eloquente chiamarli trombati – del concorso. Si rallegrano, perché ancora una volta ha vinto l’Italia di provincia. Un’Italia che si oppone fermamente al cambiamento, costi quel che costi. Quella che di fronte a qualsiasi decisione presenta un ricorso. Quella che in nome della conservazione è disposta a sacrificare la reputazione. Quella che ad ogni tentativo di riforma tira fuori la Costituzione che «tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione», e poi fa finta di ignorare che per preservare il patrimonio culturale servono soldi e servono competenze gestionali.

L’autoreferenzialità condanna l’Italia a rimestare con disgraziata nostalgia nel passato. In questa celebrazione perversa dei cavilli del diritto si cela l’immobilismo, la refrattarietà a prendere atto che i tempi cambiano, e che le rendite di posizione sono deleterie. La sentenza del TAR lo conferma, sottolineando come, prima di andare a cercare direttori di talento all’estero, si sarebbe dovuto procedere a una «verifica della presenza o meno all’interno dell’amministrazione di risorse umane interne in possesso dei requisiti professionali richiesti». Proprio tra quegli esperti burocrati di lungo corso che non si sono accorti di un vizio legale esiziale all’interno del bando di concorso. Abbiamo bisogno di talenti, non di incompetenti. Di quelli ce ne sono già abbastanza. Soprattutto, l’esultanza di quanti si ergono a paladini della difesa del nostro patrimonio culturale stride con la dura realtà della statistica. Quando si guarda ai dati più che all’idealismo, si capisce la portata dell’innovazione. In meno di due anni, quei due direttori stranieri, trattati fin dal momento della loro nomina come degli invasori, hanno impresso una svolta alla gestione di beni che prima di allora erano stati estranei a qualsiasi logica aziendale. Perché se la cultura non è un fatto di élite, allora il numero di visitatori conta. Un esempio per tutti dovrebbe bastare: Mantova e Paestum, agli antipodi, ma entrambi accomunati da due nuovi direttori, cittadini comunitari, ma non italiani. In meno di due anni, applicando logiche di gestione responsabile, sono riusciti a raddoppiare il numero dei visitatori. Più visitatori significano anche più introiti: nel 2016, a Paestum gli incassi sono aumentati del 99%, a 78 milioni di euro lordi, dai 39 milioni dell’anno precedente. Anche a Mantova gli incassi sono quasi raddoppiati, segnando un aumento del 46%. Avere più introiti consente di avere più risorse da spendere in cultura. Ma questo i paladini della storia dell’arte non lo dicono.
 

Mantova e Paestum, con due nuovi direttori, sono riusciti a raddoppiare il numero dei visitatori in meno di due anni. E più visitatori significa anche più introiti: a Paestum gli incassi sono aumentati del 99%, a Mantova del 46%


Poi c’è la volontà del diritto romano di normare tutto, ogni singolo aspetto. Intanto, la corruzione dilaga, e l’Italia sembra essere messa peggio del Ruanda, della Georgia e del Botswana, almeno stando alla classifica di Transparency International. Così si contesta che le selezioni non siano avvenute in una sede fisica ma in videoconferenza, nonostante ne siano disponibili le registrazioni, e si critica che si sia tentato di adottare parametri ulteriori rispetto al semplice titolo di studio per scegliere i candidati. Il giudizio di una commissione di esperti di tutto il mondo, che ha preso in esame le richieste dei candidati, valutandone pubblicazioni accademiche, esperienze lavorative, capacità informatiche, abilità linguistiche, conoscenza del patrimonio culturale italiano e dell’organizzazione del Ministero, non può essere migliore di un algoritmo che seleziona in base al titolo di studio. Per queste stesse ragioni, negli appalti si preferisce l’offerta al massimo ribasso, piuttosto che quella economicamente più vantaggiosa: in pochi all’interno della pubblica amministrazione sono disposti ad assumersi la responsabilità di un intervento, quando sanno che la giustizia potrebbe accusarli, scegliendo un cavillo tra i tanti, di avere commesso qualche danno erariale o aver eluso la concorrenza.
L’Italia sembra essere irriformabile. Il caso dei direttori dei musei è solo l’ultimo di una serie di episodi che ridicolizza l’intero Paese, e fa svanire la credibilità nei nostri confronti. Se, nel Paese con il più alto numero di siti Unesco, un bando per trovare i direttori delle istituzioni museali e archeologiche più prestigiose pubblicato sull’Economist e reclamizzato in giro per il mondo può essere annullato con disinvoltura e zelo da un giorno a un altro, c’è da chiedersi come un qualunque investitore potrebbe scegliere di spendere risorse in un Paese che ne avrebbe disperato bisogno per cercare di rilanciarsi e uscire da una crisi permeante. La credibilità dell’Italia è compromessa da tempo agli occhi degli investitori. Forse sarebbe il caso di cominciare a essere più affidabili.

 

Nella galleria fotografica i grafici a proposito dell'Area Archeologica di Paestum
dal 01/04/2012 visitabile solo con biglietto del relativo Circuito quando entrambi gli Istituti componenti sono aperti


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