101 anni di orientalismo

Bernard Lewis e le responsabilità degli studiosi nello scontro di civiltà

Chi era Bernard Lewis? O meglio chi è e perché può essere l’uomo del secolo? Questo grande studioso dell’Islam e del Medio Oriente, infatti, è nato nei sobborghi di Londra il 31 maggio del 1916 da una famiglia ebraica ed è tuttora in vita nella sua casa di Princeton, New Jersey. Oggi, nel giorno del suo 101esimo compleanno, ne ricordiamo vita e miracoli per rispondere a una domanda: com’è possibile per un erudito professore universitario influenzare le opinioni e le scelte del grande pubblico e delle classi dirigenti?

1949. Nell’anno in cui l’Unione Sovietica fa esplodere la sua prima bomba atomica, Bernard Lewis ottiene la cattedra di Storia del Vicino e Medio Oriente presso la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Lewis si era innamorato della lingua ebraica preparando il Bar Mitzwah, ma da qui era passato all’arabo, l’altra grande “lingua orientale” studiata da generazioni di specialisti europei – gli orientalisti, stravaganti umanisti volti a est. Dopo la laurea Lewis si era dato anche a turco e persiano, per poi aprire il gran libro del mondo: nel 1937-38, mentre Hitler si annetteva tranquillamente i Sudeti, l’ebreo Lewis si imbarcava per il Medio Oriente, allora diviso tra le monarchie parlamentari di stampo britannico e le repubbliche à la française derivate dal crollo dell’Impero ottomano. Facevano eccezione il neonato Regno dell’Arabia Saudita e il Mandato britannico della Palestina, dove già si scontravano arabi e sionisti. Tornato a casa e conseguito il dottorato, Lewis fu chiamato a fare la sua parte nella Seconda guerra mondiale: lavorò per l’intelligence britannica, certo grazie alle sue competenze linguistiche. Negli anni durante e subito dopo la guerra, passati per buona parte in Medio Oriente, Lewis si sensibilizzò al problema del linguaggio politico e diplomatico dei Paesi arabi, della Turchia e dell’Iran, mentre un contributo alla propaganda radiofonica della BBC lo instradava ad una delle sue arti decisive: la scrittura per il grande pubblico. L’altra, invece, era la scrittura per il pubblico ristretto ma influente dei policymakers: nel 1953 Lewis teneva una lezione su “Communism and Islam”  alla Chatham House, sede del Royal Institute of International Affairs. L’obiettivo era illustrare il rischio che i Paesi di tradizione islamica, per via di alcuni aspetti essenziali della propria cultura, potessero farsi trascinare nella sfera d’influenza sovietica. Quell’anno a Mosca moriva Stalin e a Washington Truman lasciava il posto ad Eisenhower. La Guerra Fredda era ad un punto di svolta e il giovane Lewis, già segnato dalla lotta fatale tra democrazia e fascismo, sembrava esposto al suo dualismo ideologico e geopolitico tanto quanto alle sue dicotomie esistenziali.
 

Nel 1953 Lewis tenne una lezione su Communism and Islam in una sede del Royal Institute of International Affairs. L’obiettivo era illustrare il rischio che i Paesi di tradizione islamica, per via di alcuni aspetti essenziali della propria cultura, potessero farsi trascinare nella sfera d’influenza sovietica


1978. Mentre in Iran infiammano le proteste che porteranno alla Rivoluzione islamica, a New York si pubblica il saggio di un professore d’inglese della Columbia University: Orientalism di Edward W. Said, nato al Cairo da genitori palestinesi e poi emigrato negli USA. Riadattando vari dispositivi teorici, come il concetto di discorso e il nesso potere/sapere di Michel Foucault, Said ricostruiva in modo polemico (e difettoso) la storia dell’orientalismo, facendone al tempo stesso un corpo di conoscenze, professioni e istituzioni, uno stile di pensiero occidentale fondato su una concezione negativa della differenza, un discorso sistematico inteso a creare e rappresentare come inferiore l’“orientale”, specie il musulmano, per assoggettarlo. Quest’orientalismo, fiorito con l’invasione francese dell’Egitto nel 1798, per Said trionfava tuttora: così egli denunciava la connivenza tra gli studi occidentali dell’Oriente e il dominio occidentale sull’Oriente e chiamava gli specialisti ad assumersi la responsabilità di ogni scelta metodologica e giudizio di valore, ammettendo che la conoscenza non è mai “innocente”, ma sempre dipendente dal discorso che la esprime e dalle istituzioni che la sostengono. Ora, Said prendeva come esempio attuale proprio Bernard Lewis: questi descriveva la civiltà islamica come un monolite immutabile, incapace di sviluppo e variabilità, e per di più negava autonomia politica e intellettuale agli Arabi, intrappolati tra il declino della propria cultura e la mancata adesione alla modernità della dominante civiltà occidentale.
 

Secondo Said l’orientalismo incarnava uno stile di pensiero occidentale fondato su una concezione negativa della differenza intesa a creare e rappresentare come inferiore l’“orientale”, specie il musulmano, per assoggettarlo


Di quel dominio, s’intende, Lewis era complice grazie ai suoi testi e al suo insegnamento. A partire dagli anni Cinquanta aveva pubblicato grandi successi editoriali e studi di alto valore scientifico, nei quali associava, ad un’onesta flessibilità di giudizio, una preferenza per quanto nell’Islam contemporaneo assomigliava di più all’Occidente: in particolare il suo capolavoro, The Emergence of Modern Turkey (1961), risultava in un sincero elogio della capacità dei Turchi di salvare, modernizzare e occidentalizzare il paese. Nel 1974, trasferendosi da Londra alla Princeton University, Lewis era entrato nell’ambiente dei Middle East studies, una branca di quegli area studies che il governo degli Stati Uniti aveva assemblato nel dopoguerra per maturare le conoscenze necessarie alla gestione del proprio impero globale. Non meno di Said, Lewis divenne una presenza familiare e autorevole nella sfera pubblica americana, dove interveniva per toccare i temi sensibili dei rapporti tra Occidente e Islam. Nel 1976, scrivendo a proposito di “The Return of Islam”, metteva in guardia sulla re-islamizzazione della vita pubblica delle società mediorientali. Lewis annunciava così la piega futura della sua opera, forse resa più affilata dalla battaglia mossagli da Said e dai suoi seguaci post-colonial. Dal canto suo, Lewis aveva stroncato l’analisi storica di Said e ne respingeva le accuse: ancorché fallibile e parziale, la conoscenza dello specialista denotava comunque un buon grado di oggettività.

2003. Said è morto di leucemia da alcune settimane quando l’esercito degli Stati Uniti cattura Saddam Hussein. È il 13 dicembre 2003 e l’Iraq è occupato dalla coalizione allestita da George W. Bush per deporre il dittatore, accusato anche di sostenere il terrorismo islamista. L’anno prima una simile coalizione aveva invaso l’Afghanistan per punire il governo dei talebani della protezione offerta al responsabile degli attacchi dell’11 settembre 2001, Osāma bin Lāden. Il tutto aveva origine nella War on Terror, sorta di (controproducente) politica strategica proclamata dopo quegli eventi. Profondamente trasformati ma ancora in corso, entrambi i conflitti sembrano aver molto destabilizzato il Medio Oriente, specie nel saldarsi alle rivolte (“primavere”) arabe del 2011 e alla guerra civile siriana. La guerra al terrorismo sembra averlo piuttosto esacerbato che distrutto, favorendo così la diffusione, ogniqualvolta viene inflitta una strage all’Occidente, della locuzione scontro di civiltà, variamente interpretata come una battaglia tra Cristianità e Islam, Occidente e Islam, modernità e Islam. I tre termini positivi dello scontro si trovavano associati in un articolo di Bernard Lewis del 1990, la prima importante occorrenza del clash of civilizations, poi imposto al pubblico dal politologo Samuel P. Huntington. Nel momento in cui la dissoluzione dell’URSS privava gli Stati Uniti del proprio rivale, Lewis gliene approntava un altro – la civiltà islamica – dando una precisa spiegazione della sua rabbia contro l’America: non tanto ciò che gli Stati Uniti facevano, ma soprattutto ciò che erano, ovvero la fonte di ogni oppressione politica e corruzione morale, dava ai nervi ai musulmani. Non a tutti, però: Lewis riconosceva che il principale attore di quella lotta contro la modernità e il secolarismo (o il cristianesimo) che sostanziava lo scontro di civiltà, il fondamentalismo islamico, era largamente minoritario. L’Occidente, poi, poteva fare poco per governare il conflitto di orientamenti interno al mondo islamico, che doveva cavarsela da solo.
 

Nel momento della dissoluzione dell’URSS, Lewis approntava agli Stati Uniti un altro rivale – la civiltà islamica – dando una precisa spiegazione: non tanto ciò che gli Stati Uniti facevano, ma soprattutto ciò che erano, ovvero la fonte di ogni oppressione politica e corruzione morale, scatenava la rabbia dei musulmani


In pochi anni Lewis aveva cambiato parere. Forse preoccupato dall’inaspettata resilienza della Repubblica Islamica dell’Iran, così come dalla jihad proclamata «contro ebrei e crociati» da bin Lāden nel 1998, al volgere del millennio Lewis sosteneva sempre più la necessità di un’interferenza occidentale per sottrarre il Medio Oriente ai sostenitori locali dello scontro di civiltà: in libri come What went wrong?, scritto poco prima dell’11 settembre, e in alcuni articoli pubblicati subito dopo, Lewis rifilava al lettore la storia ben collaudata dei molti meriti che la civiltà islamica aveva conseguito nella sua remota epoca d’oro, del suo tragico fallimento alla prova della modernizzazione e della lotta tra Occidente e Islam che proseguiva ininterrotta da quattordici secoli. Con sempre maggior precisione, Lewis individuava nell’Iraq di Saddam Hussein il candidato ideale per un regime change che avrebbe innescato una reazione a catena in grado di portare al Medio Oriente democrazia e, soprattutto, libertà. «Bring them freedom, or they destroy us», dirà poi nel 2006. Il fatto che Lewis non disponesse solo di best-seller e importanti testate per diffondere certe idee, ma anche dell’ascolto di uomini chiave nell’amministrazione Bush, come il vice-presidente Dick Cheney, ha fatto parlare di una sua influenza diretta sulla guerra in Iraq (difficile da dimostrare e rigettata nella sua autobiografia). Ma perché Lewis, ormai vecchio ed emarginato da un’accademia per lo più conquistata dalle proposte di Said, si era davvero convinto di simili possibilità? Secondo alcuni, Lewis avrebbe visto in un Iraq democratizzato una potenziale ripetizione del mito della sua gioventù: la grandiosa transizione da una civiltà all’altra compiuta dalla Repubblica turca. Nell’Iraq del 2003, tuttavia, non c’è stato un Kemal Atatürk.

Bernard Lewis è rimasto una celebrità universale. Il suo lascito intellettuale, sia scalfito che esaltato dal disastro mediorientale e dalla recente trasformazione della Turchia di Erdogan, ottiene ancora stroncature e vasto plauso. Nell’introduzione a uno dei suoi più recenti libri, Lewis affermava: «Devo confessare di non avere mai avuto un grande talento per gli incarichi amministrativi: se avessi desiderato occuparmi di queste cose, mi sarei dedicato agli affari, in cerca di veri guadagni, o al management, in cerca di vero potere. Non sarei di certo rimasto all’università, dove né i guadagni né il potere sono veramente tali». In tal modo ammetteva una verità mal digerita da molti colleghi: gli accademici non hanno grande influenza sulla società. Grazie ai metodi e alle idee che per cent’anni hanno diffuso, la vita e l’opera di Bernard Lewis sono forse l’eccezione che conferma questa regola, e quanto più l’opinione pubblica e le classi dirigenti l’hanno accettata come norma del proprio pensiero e della propria azione tanto più quest’eccezione diventa importante.


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