Un anno di cambiamento

Sull'Italia a 365 dall'insediamento del governo Conte. L'editoriale del nostro numero a tema Cambiamento

«Il presente contratto è sottoscritto: dal Signor Luigi Di Maio, Capo Politico del “Movimento 5 Stelle”, e dal Signor Matteo Salvini, Segretario Federale della Lega». Firma qui. Con questa dicitura veniva siglato il Contratto per il Governo del Cambiamento, 29 punti programmatici che certificavano l’accordo tra i due partiti per il governo Conte, che giurò il 1° giugno 2018. L’anello che suggellava il matrimonio tra 5 Stelle e Lega, un matrimonio con poco amore e tanto interesse, riprendeva nel suo lessico la carica positiva del cambia verso renziano trasformandolo nel cambiamento gialloverde. Una parola dalle connotazioni positive che nell’idea stessa di chi saliva al potere – i 5 Stelle in particolare – doveva rappresentare la propulsione che questo governo avrebbe dato all’Italia.

365 giorno dopo, il panorama che si è creato è persino più tossico di quello di partenza. Il paese arranca, le promesse non vengono mantenute, i toni del conflitto sono sempre più aspri. Il cambiamento tanto annunciato in effetti c’è stato: non è stato però una progressione positiva, ma una perdita di comunità, tutele, libertà, diritti. L’elezione di Salvini ha sdoganato la sua retorica violenta portandola dai banchi dell’opposizione a quelli del governo, ha legittimato l’idea stessa di violenza, sfociando nei cittadini in una reazione simile a quella che si era scatenata dopo l’elezione di Trump: aggressioni fisiche e verbali, spedizioni punitive, pestaggi e omicidi a sfondo razziale. L’elezione di Di Maio ha sdoganato definitivamente l’incompetenza, la capacità di dire tutto e il contrario di tutto ogni giorno e senza conseguenze: Renzi per lo stesso comportamento sarebbe stato punito severamente, e in effetti lo è stato, alle urne – bastarono uno o due episodi eclatanti per guadagnarsi il soprannome di “Pinocchio” e un tale astio dalla base del Movimento e del Paese da rovesciare il suo governo.

La combinazione di queste due modalità di far politica (se di far politica si può parlare) è la più limpida applicazione pratica del bispensiero, dove due tesi in evidente contrasto convivono serenamente agli occhi del potere. La retorica di questo governo non è soltanto violenta, è inattaccabile, perché l’impunità del bipolarismo ideologico pentastellato, applicata ai contenuti leghisti, rende ogni forma di opposizione vana: alla politica si risponde con gli slogan, ai fatti con le opinioni, a ogni rivendicazione con il benaltrismo. E noi, assuefatti a questa retorica, veniamo sbattuti da una questione all’altra senza la possibilità di affrontare alcun tema con la dovuta attenzione, senza poter afferrare la complessità della situazione politica e sociale che stiamo vivendo.

In questo panorama disorientante, con questo numero sul Cambiamento abbiamo voluto fermarci un attimo per riflettere per quelle che sono per noi le questioni più importanti, gli anelli che compongono la catena che alimenta il malessere del paese e rischia di comprometterne il futuro. La xenofobia, il razzismo, l’ambiente, la disoccupazione fino alle donne continuamente umiliate nei loro diritti e nelle loro autodeterminazioni – Salvini che mette alla gogna ogni donna che protesta con tanto di fotografia, Pillon che rimette in discussione l’aborto. «Sarà sempre più difficile uscire di casa. Le donne giovani voi le vedete quando hanno la sicurezza di muoversi in gruppo presentando un grande fronte comune: la manifestazione a Verona. Le altre non ci sono», scrive Violetta Bellocchio in Ne resterà soltanto una (di cui Not ha pubblicato in anteprima un estratto). «Troppo lontane, troppo isolate, il master, non sono niente, resterò per sempre una schiava a mille euro, il fidanzato che pretende la password del telefono, l’eroina del #metoo detronizzata nell’arco di un giorno».
 

Quel vecchio mondo che ci teniamo tanto a spazzare via, per sostituirlo con uno nuovo perfetto e intoccabile, non fa che aumentare l’atomismo sociale dei nostri tempi


Quel vecchio mondo che ci teniamo tanto a spazzare via, per sostituirlo con uno nuovo perfetto e intoccabile, non fa che aumentare l’atomismo sociale dei nostri tempi. «Cineclub e cineforum per i nativi digitali sono parole desuete, archeologia del cinema, ricordi polverosi nei racconti dei nonni», scrive Francesco Grieco in Vecchi e nuovi schermi tricolore, «questi luoghi di socializzazione, quando non venivano fondati in totale autonomia, nascevano come attività parallele, di formazione culturale, in seno a sezioni di partito, agli oratori parrocchiali o alle associazioni studentesche. Tutte istituzioni che oggi scontano in maniera evidente una scarsa partecipazione alla vita pubblica, una contrazione della vita sociale, incoraggiata anche dalle politiche cosiddette “antidegrado” di molte amministrazioni comunali». Una vita che diventa solitaria per gli adolescenti di oggi e gli adulti di domani, un paese di «laureati che fanno i babysitter, supplenti per pochi giorni in scuole a decine di chilometri da casa, menti brillanti rifiutate al dottorato che si affannano a girare l’Italia nella speranza di vincere una borsa», nelle parole di Giovanni Bitetto in Appunti per un lavoro che non c’è
L’isolamento porta individualismo e l’individualismo crea isolamento, in una spirale da cui è difficile uscire. E come dice Silvia Seminara in Clima infuocato, «il problema è proprio questo: la soglia tutt’altro che metaforica del pianerottolo, l’atteggiamento che cambia nell’istante in cui la si varca, lo scarto tra dentro e fuori, privato e pubblico». Il surriscaldamento del pianeta grida all’emergenza e lo trattiamo con fastidio, fingendo che non ci riguardi, ma il nostro futuro ci riguarda eccome e molto più da vicino rispetto a quello che eravamo abituati a pensare. Lo dicono i giovani nelle piazze dei Fridays for Future, lo chiedono con una coscienza trasparente, frutto di un libero pensiero che è più complesso e profondo di quello di tanti adulti che appiattiscono il reale su un discorso binario di convenienza. È successo a Palermo, con gli studenti di un istituto superiore che in una presentazione associano il decreto sicurezza di Salvini alle leggi razziali e alcuni membri del governo che si attivano per far sospendere la loro professoressa, rea di non aver vigilato su di loro, come un poliziotto dell’esecutivo. Come si chiede Davide Cherubini in La mala eduzione, «quale sarebbe allora l’insegnante che questo tipo di politica vuole proporci? Un ispettore dello Stato deposto al controllo e all’ottenimento del corretto allineamento del pensiero?».

Sembra proprio questa l’intenzione del governo a trazione Salvini, che per primo si accanisce sul rispetto, sull’educazione, sul linguaggio, in un meccanismo retorico che persino nella condanna dell’attentato di Luca Traini, un atto riconducibile alle sue stesse politiche allarmistiche, riesce a strumentalizzare l’avvenimento per i propri scopi: «quel tale (non pervenuto) che ha fatto quella tal cosa (non pervenuta) in quel tal luogo (non pervenuto) ha commesso un errore strategico, ma in fondo è comprensibile». La rimozione dei dati e la giustificazione degli atti che Vanni Veronesi analizza in La strage delle parole scopre il cortocircuito dell’anti-politicamente corretto, che alimenta il discorso d’odio usando toni tanto violenti da confondersi con la violenza stessa, «perché a forza d’iperboli, di paradossi e d’ironie» scrive Raffaele Alberto Ventura sempre parlando del caso Traini «il linguaggio di molti militanti leghisti «normali» era diventato del tutto indistinguibile da quello di uno che, contrariamente a loro, tiene una calibro .9 nel cruscotto della macchina ed è pronto a impugnarla per davvero».
 

Che fare adesso che il razzismo si può chiamare buonsenso, adesso che l’erosione feroce dei diritti diventa “Governo del cambiamento”?


Che fare quindi? Adesso che «il razzismo si può chiamare buonsenso, l’odio per i negri è un diritto dell’uomo comune, il conflitto sociale è una guerra tra chi vuole il bene dell’Italia e chi non lo vuole», come sottolinea Lorenzo Masetti in Uomini contro, adesso che «i nazionalisti sono “sovranisti”, l’erosione feroce dei diritti diventa “Governo del cambiamento”, i fascisti diventano “alt-right”», come dice Matteo Pascoletti in Il parassita che c’è in te? Agire, prendere posizione, riaffermare la disumanità di una politica che ragiona soltanto sul binario dell’interesse personale e nazionale, dell’interesse economico e identitario: non è una battaglia politica, è una battaglia etica prima di tutto. Noi abbiamo scelto di agire mettendo insieme tutti questi tasselli, perché l’uno accanto all’altro ci raccontino ciò che siamo e ciò che (forse) rischiamo di diventare. E a guardare l’immagine che si forma diventa sempre più chiaro che questa battaglia etica è utilitaristica, persino. «Cause we’re only as strong», cantavano i Genesis, «yes we’re only as strong, as the weakest link in the chain». Se spezziamo l’anello più debole della catena non ci sarà più niente a tenerci insieme, e cadremo tutti.

 

 

La copertina di Cambiamento è firmata da Davide Bart Salvemini
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L'Eco del Nulla N.7 - Cambiamento

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