Ta’will | Ritorno alle origini

L’evanescenza della memoria e di un passato da cui non impariamo, un racconto dal concorso letterario Petrarca.fiv 2021

ORE 21:33

   Il calore di una mano sulla spalla mi fa aprire gli occhi. Sono davanti allo specchio.
   Come sono invecchiato male, rido e tu insieme a me.
   Non ricordo di essere arrivato qui con te, dico ancora, che ci fai nella mia stanza preferita? Sei venuta a lasciare qualcos’altro?
   Il tavolo è già stracolmo di fogli, cartelline, agende, ritagli di giornale, penne, porta penne, matite, tagliacarte e una calcolatrice. La lampadina del lume è fulminata, bisognerà sostituirla. Dietro la scrivania, la sedia in pelle verde e la libreria ordinata seguendo una logica ben precisa: un ripiano per altezza, uno per colore e uno messo a casaccio. Anzi tre ripiani di libri a casaccio.
   Sì, che scemo, hai ragione, questi sono in ordine alfabetico. A B C E H L M eccetera eccetera.
   Mi siedo sulla poltrona e sbircio tra i cassetti aperti. Lo sguardo va dritto su un quaderno aperto: qualcosa è scarabocchiato. Parole. Lo allontano, lo avvicino ma proprio non riesco a decifrare. L’abitudine mi fa battere la mano destra sul lato sinistro del mio petto per cercare gli occhiali. Non ci sono.
   Puoi leggere per me?, ti chiedo.
   Ta’wil, sento schiarirti la voce.
 

Ritorno alle origini.
Una nuova genesi dovrebbe cominciare dopo il diluvio universale che si è abbattuto su di noi. Purtroppo non è stata l’acqua, questa volta, a destabilizzare il mondo. Forse sarebbe stato diverso: alla fine si sarebbe trattato di aspettare che l’acqua ristagnasse e tutto sarebbe tornato come prima. Ma a scuotere l’impazienza di una normalità – che poi, quale normalità? – , gli animi e i torpori dell’ignoranza è stato ben altro di una semplice molecola di idrogeno e ossigeno. Un microrganismo ha provocato un’infezione che si è propagata a macchia d’olio, infettando la moltitudine e poi l’umanità intera. Un virus ci ha costretto a stare lontani, ci ha negato i più semplici e spontanei contatti. Ci ha obbligati a indossare mascherine per proteggerci da noi stessi. D’un tratto siamo diventati potenziali serial killer gli uni degli altri.


   Basta così, ti interrompo, devo aver avuto una bella immaginazione da giovane. Dovevo essere bravo come scrittore.
   Mi guardo intorno e in questa stanza ci vedo così tante cose.



ORE 21:38

   Mi alzo dalla sedia e giro lentamente su me stesso: c’è un lungo mobile in legno sotto la finestra. Sopra, fotografie incorniciate. In una ci sono io al centro tra i miei genitori fuori da un’antica struttura in pietra. È il giorno della mia laurea. Poi ce n’è un’altra di me in laboratorio, con alcuni ragazzi di cui non ricordo il volto. Indossiamo tutti un camice bianco. E poi c’è un’ultima cornice, la più grande, che ritrae me, una donna e due bambini.
   Sì, certo, so che quella bimba sei tu.
   Guarda tesoro, c’è ancora il vassoio della nonna con bicchieri di cristallo e le bottiglie di gin, rum, vino e bourbon. Cristo santo, ma questo televisore è ancora vivo? Quanti anni ha? Ma perché è ancora acceso? I due nello schermo non parlano. Non c’è volume. Ma non c’è bisogno di sentirli: è così chiaro quello che stanno facendo. Fanno l’amore. Rido un po’ in imbarazzo perché ci sei tu. Ma in fondo non sei più una bambina.
   Sì, tesoro. Leggi pure quello che hai in mano. Comincia da dove vuoi, mi piace ascoltarti.
 

La mia parte nel mondo affinché questa condizione si esaurisse il prima possibile e tornasse l’agognata normalità, credo di averla fatta. Ma oggi che tutto sembra essere tornato come prima – ma come prima quando? – mi chiedo: qualcosa è cambiato? Abbiamo imparato qualcosa? Impariamo sempre così poco da quello che ci succede. Come posso quindi pretendere che le storie di domani che leggerò sui libri, che ascolterò alla radio e vedrò al cinema, siano diverse da quelle di oggi, da quelle di ieri? È sempre stato così: facciamo finta di appellarci alla memoria del passato perché sia un monito per il futuro, perché non serva solo a ricordare ma a istruirci, a renderci uomini migliori. 


   Perché ti blocchi figlia mia? Vai avanti.
 

La verità è che non mi importa proprio niente della memoria del passato e delle storie future. La verità è che ho paura…


   La paura è un’emozione che non ho mai provato, sei sicura che sia io l’autore di questo scritto? Che poi, cosa sarebbe? Un diario?
   Sì, hai ragione, basta leggere. Diamo ancora uno sguardo a questo caos. Non credi che ci siano troppi oggetti in questa stanza. Sembra una specie di apocalisse o qualcuno che sia fuggito in pieno trasloco. Anche a terra sono sparsi scarpe, calzini, tute, c’è perfino una cassetta per gli attrezzi, chiavi dell’auto, papillon e cravatte, uno zaino, una scacchiera e un giradischi con un vinile sul piatto.
   Mi chino per spostare la puntina sul disco: una musica comincia a spandersi nell’aria. Nella stanza.



ORE 21:44

   Amo tanto passare del tempo in questa stanza. Sulla parete vicino alla porta c’è un quadro che ritrae il mare. Passo il polpastrello su un grumo di colore blu: sembra quasi una piccola scultura in basso rilievo. Che bello questo dipinto, ti dico.
   Che bello il mare. È una cosa così semplice da ricordare, il mare. Il suo moto ondoso no. E nemmeno la sua composizione. Acqua e Sali. Dovrebbero essere: cloruro di sodio – e il pollice tocca la bocca a indicare uno –, cloruro di potassio – ecco l’indice, il mio due –, cloruro di calcio e magnesio – medio e anulare, tre e quattro. Carbonati, solfati, nitrati e fosfati – l’altra mano resta sospesa e monca di due dita. No: ossigeno e anidride carbonica, completano il mio dieci. Formule. Nomi in realtà. Numeri. Un tempo sapevo anche come gli atomi legassero tra loro. Un tempo. Non ora.
   Però! Ero bravo con i pennelli! In un angolo in basso a destra del dipinto c’è una firma incomprensibile. Ho sempre avuto una pessima grafia. 
   No, non sono convinto che questa sia opera mia. In realtà non lo sono mai stato, convinto dico.
   Fuori dalla cornice c’è una targhetta bianca come quelle che si vedono nei musei. Per favore, mi leggi cosa c’è scritto?
 

Ta’wil, Ritorno alle origini, 2020.


    L’ho già sentito questo nome. Ma da dove viene questa musica? Ah sì, il giradischi.

 

ORE 21:46

   Tutti questi oggetti in questa stanza e questa musica, mi stanno facendo girare la testa. Sarà meglio che mi sieda. Ma perché te ne vai in giro con quel quaderno? Vieni accanto a me e leggimi qualcosa. Certo, continua. Inizia. Per me è lo stesso.

… ho paura. Un paio di giorni fa mi hanno diagnosticato l’Alzheimer in un stato molto avanzato. Tutti i miei ricordi diventeranno una bolla di sapone esplosa. Non avrò più memoria. Cosa sarà della mia storia? Io, biologo marino, un uomo di scienza, che ha pontificato su quella famosa memoria del passato tassello dopo tassello, d’un tratto – non so ancora bene quando –  smetterò di ricordare. Tutte le scoperte, tutte le mie pubblicazioni scientifiche andranno perdute in un angolo remoto della mia testa. O molto probabilmente andranno perse e basta. Resterò un nome su carta, un’immagine sgranata in alto a sinistra su un banalissimo e comunissimo portatile. Questo sarò per gli altri. Per me solo l’oblio. Subisco il più ingrato dei contrappassi.

 

Come posso non aver paura di non riconoscere tutto intorno a me? Come posso non essere incazzato con me, con i miei neuroni e con il mondo intero? Sì, lo ammetto, mi sono disperato. Sono stato chiuso nel mio studio per giorni. Non volevo vedere nessuno. Pure i miei figli mi stavano sul cazzo. Uno studia al dams e l’altra ancora non sa cosa fare della sua vita. Cosa lasceranno in questo mondo? Quale storia scriveranno? Poi mi sono arreso all’inevitabile e ho deciso che dovevo fare qualcosa per ricordarmi di me. Magari progettare un nuovo metodo che un giorno potrà essere adottato da tutti.

 

I miei sogni di gloria: evanescenza. Non posso salvare l’umanità e forse, anzi sicuramente, nemmeno me stesso, ma mi sono detto che quanto meno dovevo provarci. Così, sotto la doccia, in macchina, mentre correvo e anche mentre cagavo, ho pensato a cosa mi aspettava. Ecco, cosa mi aspetta: rivivere cose già vissute come fosse la prima volta. Un perenne ritorno alle origini. Mille e più nuove genesi.

 

Allora mi sono detto che forse, per la prima volta, tutto quello che annotavo su questo taccuino avrebbe avuto un senso. Così come lo avrebbe avuto tenere tutti questi oggetti qui dentro. E da quando questo pensiero ha preso spazio, ho cominciato a portare in questa stanza, la mia preferita, il posto dove ho dedicato quasi tutta la mia vita allo studio e alla ricerca marina, tutte le cose del mondo. O una parte. O comunque quelle che hanno fatto parte del mio mondo.

 

Ho ripreso dal ripostiglio il vecchio televisore a cassetta e ho inserito un porno degli anni Ottanta: voglio ricordarmi come si fa l’amore. Mi premurerò che qualcuno lo mandi a ripetizione. Ho sistemato qua e là le cose più disparate che ho trovato nel mio armadio, nel garage e nella stanza dei miei figli. Ho appeso finalmente al muro il quadro che mi regalò il mio amico marocchino Fouad. L’ho trovato giusto e mi ha dato l’ispirazione per queste parole.

 

Il suo titolo è Ta’wil che significa tornare alle origini in arabo e rappresenta il Mediterraneo, mi disse quando gli facemmo visita a Oujda non appena la pandemia fu domata e fu possibile viaggiare. È con l’acqua che la vita è iniziata, ripeteva sempre. Ho fatto mettere uno specchio perché possa vedermi. Ho perfino chiesto a mia moglie di lasciarci un pezzo di tiramisù che sono sicuro ammuffirà nel giro di una settimana ma lo sostituirò con un altro dolce o un altro pasto.

 

Io devo ricordare.     


   Basta così! Ti prego, ho elemosinato, è una tortura. Non ricordo niente di tutto questo. Sono io che ho scritto? Sono io che ho l’Alzheimer? Verso lacrime e singhiozzi.
   Non posso più stare qui dentro, ti dico, e mi alzo.


ORE 21:53

   Non so chi sono. So che ho raggiunto questa stanza e ho trovato te.
   In realtà è stato semplice arrivarci, ti dico, è dall’altra parte della camera da letto, mi è bastato solo attraversare il lungo corridoio.
   È bella questa stanza, ti dico ancora, ha qualcosa di familiare.
   Su una parete c’è un grosso dipinto e accanto, un grande specchio. Un’immagine è riflessa. La vedo: è quella di un uomo curvo. Aggrinzito. Dovrei essere io. Ma non mi riconosco. Non mi ricordo di me. Mi avvicino per osservarmi meglio. Il pigiama sgualcito. Gli occhi infossati, piccoli e azzurri: sono lucidi e arrossati, avranno pianto da poco. Il naso a patata. Le labbra sottili e un volto scalfito da rughe a profusione. Non c’è barba. Una mano, quella che dovrebbe essere mia, sfiora quella sagoma allo specchio. Sono io e non so chi sono.
   Chiudo gli occhi chiedendo aiuto al buio perché possa ricordare il mio nome. Il buio mi restituisce solo altro buio. E silenzio.

 

 

Scritto per il concorso Petrarca.fiv 2021 dal tema “Condividere il futuro”
In copertina foto di Suzy Hazelwood da Pexels


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