Storia di mia moglie di Ildikó Enyedi

con Léa Seydoux, Gijs Naber, Louis Garrel, Sergio Rubini, Jasmine Trinca

Nel cuore degli anni Venti, Jakob Störr (G. Naber) è un esperto e intransigente capitano di navi mercantili che decide di prendere moglie in un momento in cui sente la sua vita inappagata. La modalità è alquanto inconsueta e rispecchia la corazza algida dell’uomo, che fa spesso della sua risolutezza uno strumento di potere. Sulla scia della provocazione di un amico, la proposta di matrimonio viene infatti fatta senza molti fronzoli alla prima donna che entra in un caffè e la seducente Lizzy (L. Seydoux) accetta quasi per gioco. Corpo sinuoso, portamento elegante e sguardo inafferrabile da donna fatale della Belle Époque, sarà lei con la sua libertà a ribaltare i ruoli di potere della vita coniugale, a scapito della gelosia e delle frustrazioni sempre più incontrollate di Jakob.
 

Storia di mia moglie è il debutto in lingua inglese di Ildikó Enyedi e la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo del connazionale Milàn Füst (1942)


A seguito dell’Orso d’Oro vinto a Berlino nel 2017 con Corpo e Anima, la regista ungherese Ildikó Enyedi torna dietro la macchina da presa con Storia di mia moglie, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo del connazionale Milàn Füst (1942), presentata in anteprima alla 74ª edizione del Festival di Cannes. Debutto in lingua inglese della cineasta, Storia di mia moglie è un’opera sontuosa e, per stessa ammissione della Enyedi, è «un film sull’amore, la passione, l’avventura e i mille colori della vita», un film intenso che forse si sfilaccia proprio nel cercare di restituire la densità letteraria tramite l’operazione di adattamento al grande schermo. Le oltre 400 pagine del romanzo si traducono, pur con i dovuti ammorbidimenti dello script, in quasi tre ore filmiche punteggiate da sette capitoli (o “lezioni”) e la narrazione diventa inevitabilmente prolissa.

La tortuosa complessità del flusso di coscienza dell’opera di Füst ripercorre la storia di una coppia di sposi ma, nel romanzo come nel film, si fa scheletro di una dimensione più ampia, che si interroga su come l’uomo vive e dovrebbe vivere la propria fragile esistenza al mondo. La ricerca di Jakob, che prova a dimenarsi nel rapporto coniugale e a capire la provocante Lizzy, è dunque rivolta a una più profonda comprensione della vita, i cui misteri fuggono via veloci e incontrollabili dietro il volto oscuro della moglie. «Nel mondo del mare non ci sono forse, quando affronti un problema devi risolverlo. Quello che Jakob impara attraverso il rapporto con sua moglie Lizzy è che si deve abbracciare e amare questa sorta di qualità della vita effimera e irraggiungibile. Quindi, in un certo senso, con umorismo, passione e colpi di scena, Lizzy funziona come un’insegnante Zen», afferma la regista nell’intervista pubblicata da Cineuropa.

Il mare e gli esseri viventi che lo popolano – dagli animali che lo abitano naturalmente, agli uomini che cercano di navigarlo – portano con sé concetti in bilico quali superficie e profondità, ingovernabilità e controllo, e si fanno quindi metafora delle insidie della vita fin dalle primissime immagini del film, in cui dei cetacei dormienti fluttuano come dei pesanti monoliti in caduta nelle profondità marine, mentre la nave del capitano Störr procede sulle onde in tempesta. «Se avessi un figlio che cosa gli direi per accoglierlo in questo mondo?», chiede in fuori campo Jakob, come se parlasse a se stesso in una sorta di diario di bordo mentre la macchina da presa procede verticalmente dagli abissi alla superficie. «Forse semplicemente descriverei una sera sulla mia nave, questo pesante mercantile ben costruito, che da un momento all’altro può diventare un fragile, minuscolo guscio, paragonato alle forze del mare intorno a lui», prosegue. «Gli racconterei del costante essere vigili verso le incostanti onde che facilmente possono toglierti la vita, senza alcuna cattiva intenzione. Gli racconterei del nostro vivere che cerca di controllare l’incontrollabile».

La razionalità, il rigore, le regole e l’esperienza permettono a Jakob di avere il controllo in mare, di prevedere e risolvere problemi di qualsiasi entità con lucidità e fermezza, anche quando persino i suoi uomini mostrano preoccupazione rispetto a decisioni apparentemente azzardate – come nell’intensa sequenza del film in cui, dopo l’improvviso incendio a bordo, il capitano ordina un inatteso e pericolosissimo avanti-tutta per raggiungere velocemente un banco di nubi e consentire alla pioggia di spegnere le fiamme salvando la vita di tutti. Ma quando si ritorna alla terraferma, fra le mura domestiche e le nubi questa volta create dall’irriverente fumare di Lizzy, il controllo di Jakob scivola via in maniera sconveniente fra balli sinuosi e corpi avvinghiati nella passione, sospetti e ambiguità, bugie e livore: «È inutile aspettare che la vita sia in armonia con te, l’armonia della vita la devi accettare, sennò la vita ti punisce», dice la donna al marito.
 

Ildikó Enyedi muove con maestria la sua macchina da presa rievocando il sapore di un’epoca, tenendo in costante tensione rigore e leggerezza, epicità e sobrietà, passione e tenerezza


Il mondo di Jakob è un mondo di uomini – lui stesso lo definisce «questo mio mondo di uomini» –, specchio di un’intera epoca certamente improntata al maschile ma in cui le donne regnano velatamente con la loro misteriosa sensualità e la loro raffinatezza. La Belle Époque ha infatti lasciato in eredità gli echi dell’immagine della femme fatale che con la sua seducente eleganza è diventata musa ispiratrice, nell’arte come nella vita. I fiorenti strumenti di espressione artistica, come la fotografia e il cinema, contribuiranno a diffondere nell’immaginario collettivo la figura della donna ammaliatrice, dalle labbra carnose e dallo sguardo magnetico, che incanta e strega l’uomo in balia dei suoi fuochi. È in questo stesso contesto storico di sensualità ed eleganza che Ildikó Enyedi muove con maestria la sua macchina da presa, portavoce di uno sguardo registico che riesce a rievocare il sapore di un’epoca, tenendo in costante tensione rigore e leggerezza, epicità e sobrietà, passione e tenerezza, quasi a riflesso della tensione e delle caratteristiche dei suoi protagonisti, Jakob e Lizzy. Altrettanto efficaci nel restituire questa costante trazione, gli attori Léa Seydoux e Gijs Naber, abili nel servire il film con i loro corpi e i loro volti, due interpreti potenti che, facendo leva sulla reciproca naturale fisicità, ritraggono sullo schermo l’armonica dissonanza che identifica il rapporto dei due sposi: sospesi, com’è nel naturale destino dell’uomo, tra corpo e anima.

Nella dimensione corale in cui spesso si sviluppano le loro vicende spicca poi il ruolo dello scrittore Dedin, interpretato da un perfetto Louis Garrel, contraltare snob e sfaccendato che corteggiando la bella Lizzy mina fino all’esasperazione la serenità di Jakob, facendo emergere ogni sua taciuta insicurezza. Ma al centro c’è sempre lei, che non accetta prepotenze, ordini o imposizioni, nemmeno sul come amare gli uomini. «Non mi hai mai corteggiata», rimprovera a Jakob, «ti ho amata a tal punto da voler morire per te», le risponde; «e adesso non più?», ribatte lei, «non più» è la risposta del marito. Lizzy si limita a sussurrare un «che peccato», ma poco dopo una lacrima scorre silenziosa sul suo viso, la lacrima di una donna forse assai più fragile di quanto ostenti.
 

«Jakob Störr sono io», dichiara la cineasta ungherese, identificandosi con quell’uomo gentile e al contempo iracondo, che cerca di controllare l’incontrollabile


Storia di mia moglie è dunque un viaggio nei sentimenti più intimi, l’omaggio autentico di una regista dalla sensibilità garbata a uno scrittore amato fin dagli anni dell’adolescenza, un tentativo dichiarato di portare gli spettatori nelle profondità emotive di un personaggio letterario attraverso il filtro magico delle immagini del cinema. La mano di Ildikó Enyedi è sapiente e rispettosa, scrupolosa nei dettagli ma mai invadente, e cerca di dare al pubblico la libertà di ricucire i significati del film e di accedere alle «montagne russe delle emozioni» originarie del romanzo di Milàn Füst con la propria autonomia e immaginazione. «Anche se per me si tratta di un film profondamente personale, la somma totale degli elementi che sento come importanti da raccontare sarà compresa unicamente attraverso questo gigante goffo dal cuore grande che è Jakob Störr. Jakob Störr sono io», dichiara la cineasta ungherese sulle pagine di CameraLook, identificandosi con quell’uomo gentile e al contempo iracondo, che cerca di controllare l’incontrollabile: abile timoniere in mare ma naufrago sulla terraferma.

 

 «Non è forse questa la vita, sopravvivere tra una tregua e un’altra?»
GER-UNG-ITA 2022 – Dramm. 169’ ★★★½


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