Lo stile della Beat Generation: come una generazione di artisti ha influenzato la moda

Da controcultura a mainstream, breve storia dell'uniforme da giovane ribelle

Una volta William Burroughs disse che Sulla strada «ha fatto vendere un triliardo di Levi’s». L’iconico marchio di jeans è solo una delle tante industrie della moda che hanno beneficiato dall’aria trasandata e scontenta resa popolare dalla Beat Generation. Il gruppo di scrittori – tra cui Burroughs, Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Gregory Corso – era formato da tenaci anticapitalisti che si scagliavano contro il materialismo americano, diventati tuttavia icone di stile nel ventesimo secolo. Blue jeans, t-shirt bianche, giacche di jeans e borsoni di tela consunti erano fondamentali per una vita on the road, e diventarono presto l’uniforme per una generazione di giovani disillusi, che dopo la guerra non si riconosceva nei valori tradizionali. Gli scrittori Beat, insieme a protagonisti della controcultura come James Dean e Bob Dylan, furono i capofila di un modo di vestire che veniva associato all’alienazione e alla ribellione. Il movimento – una reazione alla società americana mainstream di metà secolo, che dava maggior valore al conformismo e al consumismo che all’individualità e alla libertà di espressione – manifestò i suoi valori anti-establishment attraverso i vestiti.
 

Gli scrittori Beat furono i capofila di un modo di vestire che veniva associato all’alienazione e alla ribellione


Negli anni Quaranta e Cinquanta, i look casual erano sicuramente più accettati rispetto al passato, ma ci si aspettava ancora che gli uomini in America indossassero giacca e cravatta al lavoro e durante la maggior parte degli eventi pubblici. Al contrario, il lessico sartoriale della generazione Beat affonda le radici in una funzionalità informale. Molti degli scrittori Beat erano poverissimi – Kerouac crebbe in una famiglia proletaria di immigrati a Lowell, nel Massachusetts, una città conosciuta per la sua industria tessile – perciò questo stile funzionale era frutto di una necessità e non di una scelta di stile consapevole. I loro guardaroba strizzavano l’occhio anche agli ambienti letterari e a musicisti jazz del tempo come Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Thelonious Monk, che facevano da colonna sonora al movimento. Lo stile raffazzonato di cui si sono fatti portatori continua a echeggiare anche oggi nei corridoi dei college.

Spesso le donne della generazione Beat non vengono ricordate, ma anche scrittrici come Diane di Prima, Joyce Johnson e Hettie Jones sono state delle pioniere per la moda della controcultura. Il loro stile era in antitesi con quello del New Look di Christian Dior, che nel dopoguerra aveva reintrodotto l’opulenza e una femminilità estrema nei vestiti da donna. Abiti stretti in vita e gonne ampie la facevano da padrone e diventarono modelli per la moda femminile degli anni Cinquanta. Ma le donne Beat abbinavano jeans neri, pantaloni a pinocchietto e gonne a tubino con camicette di seta e maglioni troppo larghi, in contrasto con la passione per le fisionomie a clessidra degli anni Quaranta e Cinquanta. Inevitabilmente, la cultura mainstream ridicolizzò e fece suo lo stile beat. Nell’immaginario comune “Beat” diventò sinonimo di “ridicolo” – lo stereotipo era quello di giovani pretenziosi con maglioni a collo alto neri che fumano e scrivono nei caffè francesi. Un’avvisaglia di quello che sarebbe stato considerato come stile beatnik dal pubblico generalista arrivò nel musical del 1956 con Audrey Hepburn, Cenerentola a Parigi. In una scena l’attrice balla vicino a un fumoso jazz bar parigino vestita di nero da capo a piedi, con dei fuseaux e un maglione dolcevita.
 

Inevitabilmente, la cultura mainstream ridicolizzò e fece suo lo stile beat


Allo stesso modo, nell’elegante classico della Nouvelle Vague del 1960 di Jean-Luc Godard, Fino all’ultimo respiro, Jean Seberg interpreta un’americana a Parigi che indossa pantaloni neri attillati, ballerine e una t-shirt bianca. Nel luglio del 1959, Playboy ospitò una “Coniglietta Beat”, l’attrice e pin-up Yvette Vickers, che raccontava ai lettori quanto amasse “guidare la sua Jaguar nel deserto solo per il gusto di farlo”.

Il termine “beatnik”, ottenuto aggiungendo il suffisso dispregiativo -nik (come in Sputnik) è stato coniato nel 1958 in una rubrica del San Francisco Chronicle dal giornalista Herb Caen. Caen scrisse «La rivista Look, preparando un paginone sulla Beat Generation di San Francisco (vi prego, NON UN ALTRO!) ha dato una festa in una casa di North Beach per più di 50 Beatnik, e non appena la voce si è sparsa ai quattro venti è apparsa una mandria di oltre 250 intellettualoidi capelloni». Kerouac odiava la parola “beatnik” e quando incontrò Caen in un locale lo implorò di smettere di usarla. «Ci stai umiliando e ci fai sembrare degli idioti. Non lo sopporto. Smetti di usare quella parola», diceva. Ma la parola e l’immaginario a essa associato erano nati per restare. Alla fine del 1959, il settimanale The Village Voice pubblicò una pubblicità per «noleggiare un Beatnik». Inizialmente solo uno scherzo, il primo annuncio recitava «Aggiungi un po’ di pepe alla tua festa a Tuxedo Park… Noleggia un Beatnik! Già forniti di Levi’s, camicie logore, sneakers o sandali (facoltativi). Sconti per chi si fa la barba, si lava, indossa le scarpe o si taglia i capelli. Disponibili anche donne Beatnik, abbigliate come gli uomini: completamente di nero». La pubblicità venne presa seriamente e chi dava feste in periferia cominciò a noleggiare i Beatnik per 40$ a serata. Furono molti i poeti, gli scrittori e gli artisti che si prestarono a questa pratica, dal momento che era un modo facile per fare soldi: fu così che il look dei beatnik si affermò nell’immaginario collettivo.
 

Kerouac odiava la parola “beatnik” e quando incontrò Caen in un locale lo implorò di smettere di usarla


Da allora questo stile è stato imitato e reinterpretato da studenti, artisti e fashion designer, anche se non tutti l’hanno fatto con la stessa onestà. Se la moda della Beat Generation si opponeva con decisione all’estetica di Dior che dominava le scene negli anni Cinquanta, la collezione uomo Autunno-Inverno del 2022 citava direttamente Sulla strada di Kerouac. Il direttore creativo e bibliofilo Kim Jones, che aveva già creato delle collezioni ispirate a Virginia Woolf e al Bloomsbury Group per Fendi, ha reso omaggio alla letteratura anche in questa stagione. Sugli abiti e sugli inviti alla sfilata campeggiavano le copertine delle prime edizioni di Sulla strada e Visioni di Cody. Il gigantesco manoscritto della versione originale di Sulla strada che Kerouac scrisse, com’è noto, in una folle venti giorni a base di anfetamine e caffè, è stato srotolato sulla passerella. Per quanto riguarda i vestiti, Jones voleva che la collezione fosse come «una valigia che ti puoi portare dietro in un viaggio in macchina». Per questo i classici blue jeans erano abbinati a t-shirt che raffiguravano le copertine dei libri, mentre maglioni cardigan, giacche di montone e pullover della squadra di football della Columbia University prendevano ispirazione dagli anni universitari dei Beat. La collezione ha ricevuto il benestare degli eredi di Kerouac e Jim Sampas, nipote di Kerouac ed esecutore testamentario delle sue opere, ha fatto da consulente a Jones per il suo progetto.

Non è la prima volta che la moda si è rivolta alla letteratura di metà secolo per trovare ispirazione, anche se spesso l’influenza è meno evidente; il look dei Beat è profondamente radicato nella nostra cultura ed è sempre maturo per nuove reinterpretazioni. La sua influenza si ritrova nella collezione di Dior autunno inverno del 2005, quando John Galliano ripensò l’uniforme dei beatnik in abiti di mohair bianchi e neri, berretti neri e stivali che arrivano alle ginocchia. Alla sfilata di Chanel pre-collezione autunnale del 2018, la donna beatnik è stata ancora una volta evocata con spessi abiti di lana e pantaloni alla marinara. Può stupire il fatto che brand di alta moda presentino collezioni ispirate a un movimento così anticonsumistico. Nel suo poema Urlo, Allen Ginsberg chiama la moda «il fracasso artificiale dei ferrei reggimenti». I personaggi di Sulla strada indossano per lo più vestiti semplici e logori. Kerouac porta spesso l’attenzione sull’abbigliamento dell’eroe del romanzo, Dean Moriarty, e scrive che «portava quei suoi abiti sudici da lavoro con estrema grazia, come se non fosse possibile farsene fare su misura di migliori da un gran sarto ma solo guadagnarseli dal Sarto Naturale della Gioia Naturale». Nonostante sulla strada facesse una vita molto ascetica, Kerouac era interessato all’abbigliamento delle persone almeno nella misura in cui gli raccontava qualcosa di loro.

Il fascino per l’abbigliamento dei cantanti jazz, dei contadini e dei cowboy compare lungo tutto il romanzo. Moriarty viene spesso paragonato a un cowboy, una figura che Kerouac usa per simbolizzare una libertà incontrollata e individualista. La sua prima impressione di Moriarty è quella di «un giovane Gene Autry [l’intrattenitore conosciuto come il “cowboy preferito d’America”] – pulito, coi fianchi sottili e un pesante accento dell’Oklahoma – un eroe con le basette dell’innevato Ovest». Al contempo i vestiti erano talvolta visti come un fardello, una necessità oppressiva per conformarsi alla società. «Voglio che entrambi facciate come me, sollevatevi dal fardello di tutti quei vestiti – pensateci, a cosa servono?» dice Moriarty, che appare spesso nudo o seminudo. I Beat indossavano i loro abiti finché non si sgretolavano. Il loro abbigliamento viene descritto come “malconcio”, “lacero” o “squallido”. Ma fregarsene era una presa di posizione.
 

Oggi come allora, quello che compriamo e quello che indossiamo ha un peso politico


Questo atteggiamento è arrivato fino ai giorni nostri e lo ritroviamo nello stile di studenti, scrittori e artisti che si vestono in modo indifferente e disinvolto – per di più la funzionalità di questo modo di vestire è ben vista in un’epoca in cui la sostenibilità è un elemento importante quando si parla di moda. Oggi come allora, quello che compriamo e quello che indossiamo ha un peso politico. Ridurre gli acquisti nel ventunesimo secolo è una scelta spesso motivata dall’ambientalismo, un’eredità della controcultura anticapitalista di metà secolo. Nell’epoca della fast fashion e dei miliardari del mondo tech, l’energia anti-establishment dei Beat conserva ancora oggi una certa urgenza. Ovviamente i nostri acquisti e le cose che indossiamo sono solo due modi di articolare questi sentimenti. Inoltre, le convenzioni sociali su cosa è accettabile e cosa no sono cambiate molto rispetto agli anni Quaranta. In ogni caso, lo stile della Beat Generation sopravvive, che sia nei campus universitari e nei caffè aperti la sera o sulle passerelle di Dior. Gli scrittori Beat possono non essere stati felici di essere definiti icone di stile, ma non si può negare l’impatto che hanno avuto fino ai giorni nostri sulla moda della gioventù, che sia bruciata oppure no.

 

 

Sophie Wilson è una giornalista britannica. Si occupa di moda e cultura e i suoi articoli sono apparsi su numerose riviste, fra cui Vogue, Vice e Literary Hub. Questo articolo è stato pubblicato su Literary Hub il 1/03/2022 How the Beat Generation Created the Uniform for Disaffected Youth  | Traduzione di Francesco Cristaudo

La citazione di L
Urlo è tratta da Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg (Mondadori, 1965), traduzione di Fernanda Pivano

La citazione da Sulla strada di Jack Kerouac è tratta dalla traduzione di Marisa Caramella (Mondadori, 2006)


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