Star Wars VII - Il risveglio della forza di J.J. Abrams

con Daisy Ridley, John Boyega, Adam Driver, Oscar Isaac, Harrison Ford

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, le guerre stellari di George Lucas vedevano la luce sul grande schermo della sala del Mann’s Chinese Theatre, a Los Angeles. Era il 25 maggio 1977. Oggi, 16 dicembre 2015, a trentotto anni di distanza da Una nuova speranza, J.J. Abrams raccoglie la sua eredità e porta al cinema il settimo capitolo della più celebre saga della storia del cinema: Star Wars – Il risveglio della forza. Ritornano Leila, Han Solo, Chewbacca, R2D2 e C3PO, ma Luke? A trent’anni dalla battaglia di Endor, vinta dalle forze della ribellione, Luke è scomparso e in sua assenza il Primo Ordine, emananzione post-imperiale del lato oscuro della forza, ha preso il potere nella galassia. Sul pianeta Jakku, deserto e arido come lo era Tatooine, si incrociano i destini di Poe Dameron (Oscar Isaac), pilota della Resistenza, FN-2187 detto Finn (John Boyega), stormtrooper convertito al lato chiaro, e Rey (Daisy Ridley), giovane autoctona cercatrice di rottami che trova il droide BB-8 e con esso la mappa che la guiderebbe al rifugio di Luke Skywalker. Mentre i tre, con l’aiuto dell’esercito della Resistenza, cercano di trovare il nascondiglio di Luke, il malvagio Kylo Ren (Adam Driver) è in cerca della mappa per conto del leader supremo Snoke, e si mette sulle loro tracce.

Un anno fa, terminate le riprese e con il film in fase di post-produzione, già una cosa era certa, che l’impatto culturale de Il risveglio della forza sarebbe stato enorme, superiore a quello di Avatar, Titanic e dei Batman di Nolan messi insieme. Durante le riprese ci si chiedeva se gli uomini e le donne della troupe, dal primo aiuto regia all’ultimo attrezzista, si rendessero conto della grandezza di ciò a cui stavano partecipando, e che su quel set, fin da prima dell’uscita del film nelle sale, ad ogni azione e ad ogni stop si stava compiendo, in diretta, la storia del cinema. Sicuramente se ne rendevano conto gli eserciti di appassionati che si sono chiusi in casa per rivedere le precedenti trilogie, trascinando con il loro entusiasmo gli indifferenti, i fan occasionali o addirittura chi di Star Wars non aveva visto neanche un minuto ed è stato costretto, per volontà propria o altrui, a recuperare il gap culturale guardandosi tutto d’un fiato i primi sei episodi della saga – ovviamente, per chi se lo stesse chiedendo, in rigoroso ordine di uscita da Una nuova speranza a La vendetta dei Sith. Un film per i ragazzi di ieri e di oggi, per i figli del ’77 che si innamorarono degli eroi di Lucas e che adesso, genitori, ritornano in sala per vedere lo stesso stupore negli occhi dei propri bambini. Proprio per la sacralità che circonda l’universo di Guerre Stellari, la nube di critiche non ha tardato (e continua ancora) a sollevarsi. Da quelli secondo cui, per un’infinità di ragioni, il film non sarebbe fedele ai precedenti, a quelli che, in un populismo becero in stile Salvini, qualunque cosa è colpa della Disney. Senza dubbio tutti si sono fatti e si fanno la stessa domanda: è riuscito J.J. Abrams a mantenerne lo spirito originale? Dopo Irvin Kershner, che girò L’impero colpisce ancora, Richard Marquand, dietro la macchina da presa ne Il ritorno dello Jedi, e ovviamente Lucas, Abrams è il quarto regista a dirigere un episodio della saga di Guerre Stellari. E una cosa Il risveglio della forza della regia di Abrams l’ha chiarita. L’energia scintillante affine al gusto del pubblico e il suo sguardo che non si nega le esigenze autoriali lo rendono l’uomo perfetto, nonostante le vuote battaglie degli integralisti, per rigenerare la saga, costretta dallo scorrere del tempo ad uccidere i propri eroi per crearne di nuovi.

Non tutte le critiche, certo, sono infondate. La riproposizione di gran parte degli schemi narrativi che caratterizzavano Una nuova speranza può suonare ripetitiva (quante morti nere devono esplodere prima che il lato oscuro capisca che costruirle è una pessima idea?) e la fallibilità del personaggio di Kylo Ren, la sua debolezza, stona al cospetto del ricordo dei Darth precedenti. Com’è possibile che Finn, semplice stormtrooper, tenga testa alla spada laser di un signore oscuro, che Rey lo metta in difficoltà senza aver mai conosciuto la Forza? E ancora, possiamo accettare in lei una dimestichezza così repentina nell’uso della Forza, dopo che Yoda e Obi Wan ci hanno insegnato quanto addestramento sia necessario per dominarla? Probabilmente no, e in questo la sceneggiatura di Lawrence Kasdan, Arndt e Abrams si è forse spinta troppo oltre. Ma quello che non si perdona a Kylo Ren è l’umana emotività delle sue reazioni, la fragilità di un Vader ancora in fieri. Eppure la rabbia goffa e isterica con cui distrugge i comandi a colpi di spada laser è la stessa con cui Anakin, mutato nelle fattezze ma nel profondo non ancora pronto a diventare Darth Vader, fa a pezzi i macchinari che l’hanno curato quando apprende della morte di Padmé nel finale de La vendetta dei Sith. Il dubbio di Ren è la sua debolezza, un dubbio fugato nell’atto stesso del suo battesimo oscuro – l’omicidio del padre. Una volta metabolizzato, libero dall’angoscia della scelta, quell’atto farà di lui il degno cattivo della nuova trilogia. Questo fa Abrams, prepara il terreno per le nuove storie della galassia di Lucas, per i futuri personaggi che la abiteranno: Kylo Ren il nuovo Darth Vader, Poe Dameron il nuovo Han Solo, mentre Rey, donna giovane e inesperta, e Finn, stormtrooper rinnegato, si inseriscono come elementi realmente innovativi delle nuove guerre stellari.

Dopo la piattezza visiva e narrativa della seconda trilogia, lo spessore dell’impianto scenografico di Rick Carter e la lucente fotografia di Daniel Mindel ridanno tridimensionalità a mondi popolati da personaggi in carne e ossa, che la regia brillante di Abrams mette in scena con un dinamismo elettrizzante. Dalla sequenza di apertura con la distruzione del villaggio su Jakku, con un’estetica che ricorda gli assalti negli war movies post 11 settembre come Green Zone di Paul Greengrass o Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, in cui gli stormtrooper per la prima volta sanguinano, si spaventano e muoiono come uomini, fino alle pirotecniche battaglie tra astronavi e alle fughe a bordo del Falcon, Abrams costruisce un cinema vitale capace di fare dell’azione il combustibile delle spinte emotive dei protagonisti. E proprio ai volti di quei protagonisti si affida la responsabilità di sorreggere l’intero universo di Star Wars: la preoccupazione scavata nelle rughe di Finn, che teme per la vita di Rey e non vuole farla partire; lo sguardo di Luke di fronte a Rey che gli porge la spada a cui è destinata; gli occhi di Han Solo, un uomo semplice sopravvissuto a cacciatori di taglie intergalattici, al congelamento in un blocco di carbonite e alle battaglie contro l’Impero, che si spengono insieme al sole prosciugato dal Primo Ordine, un padre, vittima pietosa di suo figlio, che cade nel vuoto abbandonando per sempre la galassia che l’ha visto protagonista.

È sui personaggi e sul loro racconto che Abrams lavora per riportare un alone mitico sugli “universi usati” di Lucas, facendo degli eroi della prima trilogia una leggenda della galassia. «Era la cosa che mi aveva colpito di più, l’idea che mettere in scena una storia ambientata quasi 40 anni dopo Il ritorno dello Jedi voleva dire avere una generazione per cui Luke Skywalker, Han Solo e Leila sarebbero praticamente dei miti». In questo mondo i paladini delle guerre stellari «sarebbero antichi e mitici come le storie di Re Artù. Sarebbero personaggi di cui potresti aver sentito parlare, o forse no. Personaggi alla cui esistenza potresti credere, oppure potrebbero sembrarti leggenda». Leggenda che colpisce in egual misura spettatori e personaggi, ad esempio nello squarcio onirico che si apre a Rey (splendida l'incarnazione di Daisy Ridley) quando la giovane, richiamata in un sussurro dalla spada laser degli Skywalker nei sotterranei del castello di Maz Kanata, viene colpita dalla visione del passato di Luke e del proprio futuro. È una delle sequenze più potenti del film, perché in quello scrigno che conserva la spada è custodita anche l’anima stessa di Guerre Stellari, che rivive nel presente rinascendo dalla memoria dei suoi appassionati, tra cui lo stesso Abrams. Eppure, all’uscita dal cinema, per lo spettatore cresciuto con le avventure della prima trilogia c’è qualcosa che stona, uno scarto inafferrabile, una distanza tanto impercettibile quanto fondamentale tra sé e il film, meravigliosamente fotografata dalle parole della critica Marzia Gandolfi:

C’è un piacere nell’attesa che qualche volta si completa nell’atto, qualche altra si perde con l’atto. Star Wars VII per me è stato un piacere ‘interrotto’. Il godimento del debutto a fine film ha ceduto il posto al disagio. Qualcosa non funzionava, che cosa aveva sbagliato J.J. Abrams? Dove era inciampato questo demiurgo dell’immaginario in equilibrio tra blockbuster e anima d’autore? In niente (o magari in tutto) il punto è un altro e sta altrove. Nello sguardo, nel mio e di quelli che come me erano bambini nel 1977. Perché Star Wars VII non si limita a celebrare una saga o a prendersi carico della sua eredità iconografica, il film di Abrams traduce abilmente il passaggio da una generazione all’altra, meglio il passaggio della cultura Star Wars da una generazione all’altra. Al comando c’è un fan, al centro una giovane donna, in linea coi blockbuster contemporanei. Con buona pace dei conservatori e di Freud, a questo giro l’isteria è appannaggio dell’uomo che soccombe alla donna nel primo duello misto della galassia. Rey è una giovane spettatrice di Star Wars cresciuta coi racconti dei grandi che favoleggiavano di principesse e cavalieri Jedi, di armi e di amori. E a ogni stazione della sua evoluzione fa esperienza di ciascuno di loro: Han Solo, Chewbecca, Leila… scoprendo non solo che “è tutto vero” (e questo i più grandi tra noi lo sanno bene), ma che lei stessa avrà un ruolo nella saga, che continua. Ed ecco il punto. Ecco la (mia) resistenza, ecco lo scarto, il salto nell’iperspazio a velocità della luce che Abrams ha realizzato risvegliandoci (con la forza) dall’illusione infantile di essere immortali. Perché il cinema di J.J. è tempo che scorre inesorabile sulla bellezza che aveva resistito a mille visioni (al cinema, in vhs, in dvd) e sui volti cari degli attori (di ieri), interrogandoli sull’ineluttabile finitezza delle cose. Quelle ordinarie e quelle straordinarie. 136 minuti è il tempo che mi ci vuole per portarmi a consapevolezza gli anni trascorsi e quelli che impiega Abrams (classe 1966) per riposizionare nel mondo la nostra generazione e inventare nuovi possibili percorsi per quella successiva. Percorsi in cui ‘lasciar andare’ i figli. Perché Star Wars VII è anche un grande romanzo familiare in cui due padri, uno in scena e l’altro in esilio, provano a svolgere il loro ‘compito impossibile’. Essere genitori ed essere al servizio dei talenti e delle inclinazioni (chiare o oscure) dei loro ragazzi, figli (in)giusti che (non) sanno diventare eredi di questo lascito. Han Solo, Leila, Luke Skywalker e noi, ex bambini seventees’, siamo testimoni. Tutto qui, tanto qui.
Non servono chiacchiere per spiegare il senso della vita che Han Solo trasmette con una carezza e Luke con la testimonianza silente della sua vita, arrampicata sulla scogliera di un pianeta lontano, lontano. Giù il cappuccio, i nostri eroi sono invecchiati (con noi) ma è nelle pieghe della loro vecchiaia che i bambini imparano oggi a leggere i sogni.


Come Kylo Ren uccide tra le lacrime il padre Han Solo, così Abrams è chiamato a liberarsi, non senza sofferenza, della pesante eredità del padre di Star Wars, a superarlo. A liberarsene non per allontanare da sé quest’eredità, ma per trasmetterla intatta dai padri ai figli, da una generazione all’altra di spettatori. Rey tende a Luke la spada che gli appartiene, ma l’anziano Jedi non la prende, perché in quel gesto è lei, inconsapevole, a stringere già tra le mani il testimone che l’assenza di Luke le ha consegnato. Per farsi tramite di questo passaggio, e riuscire laddove la seconda trilogia aveva fallito, il regista newyorkese ha bisogno di canoni su cui impostare il suo canto, solide fondamenta narrative su cui ricostruire il mito. E allora quegli ammiccamenti apparentemente vuoti e per alcuni fastidiosamente ripetitivi, quei richiami marcati alla trilogia originale diventano versi formulari di un grande poema epico lungo quarant’anni. Un poema cantato per immagini ma altrettanto potente, di cui Abrams si fa umile narratore rimettendo se stesso alla grandezza della storia che racconta. E come l’età classica ha nascosto tanti autori dietro la bianca chioma di Omero per narrare le gesta di Ulisse noi, per raccontare le imprese degli Skywalker, nasconderemo Lawrence Kasdan e Irvin Kershner, Richard Marquand e J.J. Abrams dietro gli occhiali rotondi di George Lucas.


«C’è stato un risveglio. L’hai sentito?»
USA 2015 – Fantasc. Az. 136’ ★★★

Grazie a Marzia Gandolfi e Emanuele Giusti
 


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