Racconti incendiari da una provincia senza nome

I traumi e i disturbi di una quotidianità soffocante in Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa di Francesca Mattei

Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è il libro d’esordio di Francesca Mattei e la prima opera italiana pubblicata da Pidgin edizioni. Si tratta di una raccolta di diciassette racconti, brevi e brevissimi, alcuni dei quali erano già stati pubblicati su riviste letterarie (tra le quali Verde Rivista, Clean Rivista, Malgrado le mosche e SPLIT) in forma leggermente diversa. Nonostante molti racconti non fossero pensati per far parte di un unico volume, è evidente una continuità tra le storie che fanno parte della raccolta. Il primo collante è lo stile: asciutto, essenziale e capace da una parte di nascondere i problemi e i disturbi delle protagoniste (quasi tutti i racconti sono narrati da una prima persona femminile) e dall’altra di smascherare la banale assurdità del quotidiano.
 

Nonostante molti racconti non fossero pensati per far parte di un unico volume, è evidente il collante di stile e di temi, nel tentativo di smascherare la banale assurdità del quotidiano


Il racconto in cui trionfa l’arte della dissimulazione è Smalto, dove, per tutta la durata del racconto, una ragazza con disturbi alimentari è interessata soltanto a darsi lo smalto. Le poche pagine che compongono la storia sono una danza tra il dottore che tenta in tutti i modi di parlare dei problemi della protagonista e la volontà di Sonia di ignorarlo e dipingersi le mani. Il dolore e il trauma non sono osservati con la lente della pietà o della compassione, non sono messi in risalto, ma vengono tenuti sullo sfondo e taciuti con pudore:
 

Dunque Sonia, stavo dando un’occhiata alla tua cartellina e ho notato che ultimamente i valori sono scesi di nuovo sotto, diciamo, sotto una certa soglia.
È il momento dell’anulare, scheggiato sulla punta come la mina di una matita. Il dottor Giorgio ha sfoderato la sua voce profonda e aspetta che gli risponda. Immergo il pennellino nella boccetta e spero che esca dalla stanza, perché finché rimane qui lui è quello sano e io sono quella da curare.


E se da una parte l’autrice vuole mettere in ombra il malessere e l’eccentricità dei suoi personaggi, dall’altra, grazie a frasi che sono fiammate improvvise, riesce a smascherare l’insensatezza della normalità. Il racconto Poco, pochissimo parla di una ragazza che tradisce il fidanzato, e si apre così: «Nella città in cui vive Vanessa non c’è la metro. Non c’è neanche il tram e gli autobus non circolano dopo mezzanotte. All’ora dei pasti le strade sono deserte e i pedoni camminano in mezzo alla carreggiata. Vanessa ci abita da quando è nata, il che significa da una vita». Per poi finire così: «L’alba illumina prima i tetti, poi i muri, poi la strada e infine li raggiunge. Vanessa strizza gli occhi, si alza aggiustandosi la gonna e torna a casa con entrambi i piedi dentro le scarpe». Sono descrizioni sintatticamente molto semplici e assurdamente banali: è tautologico dire che chi vive in un posto dalla nascita ci vive da una vita ed è chiaro che una persona torni a casa con entrambi i piedi nelle scarpe. Eppure sembra che queste poche parole diano una chiara impressione del modo in cui l’autrice mette in scena le sue storie, in bilico tra il reale e il surreale.

Un’altra caratteristica importante di Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è lo sfondo della provincia, già evidente nell’incipit di Poco, pochissimo. Tutte le storie sono ambientate in una provincia senza nome in un posto dove «si conoscono tutti e le voci girano e arrivano a chiunque, anche a chi non è interessato ad ascoltarle». Sono luoghi senza nome, probabilmente modellati su quelli vissuti dall’autrice, e l’unica coordinata spaziale che viene fornita al lettore è nel racconto che dà il titolo alla raccolta: «Mi trasferii nell’appartamento 2/D di via Cesare Alfieri in un giorno di settembre di circa due anni prima». Un’indicazione quasi destabilizzante da quanto è precisa, in netta contrapposizione con la vaghezza che contraddistingue gli altri racconti. Come succede con i disturbi dei personaggi, comunque, neanche la provincia viene giudicata o condannata, ma soltanto descritta. Se spesso la provincia è un luogo soffocante e dal quale è necessario fuggire per trovare un posto nel mondo, qui viene presentata come un’alternativa alla città, non migliore, non peggiore, ma diversa.
 

Ci spostiamo di pub in pub e nei bagni stendiamo una pista dopo l’altra, fino a che non abbiamo più niente da stendere e ricominciamo a bere. Le tedesche ci sfilano accanto ridendo e bevendo mojito e pensano che questo sia il paradiso. Vanno a ballare nelle discoteche sulla costa, dove entri solo se hai la camicia e magari qualche centone da spendere. Io e Marco ci scrocchiamo sigarette a vicenda e non so se ci stiamo divertendo. Quando i locali chiudono decidiamo di andare alla cementeria abbandonata.


I luoghi e le abitudini dei personaggi di Francesca Mattei, pur rimanendo vaghi per il lettore, nascono dalla realtà provinciale vissuta dall’autrice, come confermato da lei stessa in una recente intervista per la rivista Il mondo o niente: «Ho scritto tenendo sempre presente Massa [...] infatti ci sono delle cose, dei posti, dei bar o dei paesaggi che sicuramente chi vive a Massa riconosce, perché esistono: il carroponte, la cementeria dove vai quando finisci la serata perché non c’è più niente da fare, esistono veramente». Questo ancoramento alla realtà permette a chi conosce le zone rappresentate nel libro di ritrovare degli spaccati di vissuto familiari e, al contempo, l’indeterminatezza delle descrizioni garantisce a questi spazi un’universalità che non ci sarebbe stata altrimenti.

E poi, l’attenzione che viene riservata ai corpi. Il primo racconto della raccolta, Muta, mostra due vecchie amiche che si rincontrano dopo tanto tempo e decidono di farsi di funghetti al parco. Mentre una delle due parla dei suoi trami, inizia a staccarsi le pellicine attorno alle unghie fino a scuoiarsi per intero. Questo, quantomeno, è ciò che vediamo dal punto di vista della protagonista strafatta di allucinogeni. L’attenzione alla pelle, alla carne e alle ossa è una costante di tutta la raccolta e dà corpo alla narrazione, una fisicità che è espressione concreta dei disagi interiori provati dai personaggi. Se in Smalto l’interesse per il corpo viene usato per non parlare dei disturbi alimentari e in Muta un tic nervoso è portato alle estreme conseguenze, in Croste è l’autolesionismo a essere mascherato dall’attenzione al fisico: la protagonista infatti mangia le croste delle ferite che si autoinfligge. L’esordio di Francesca Mattei si distingue nel panorama letterario contemporaneo per il modo in cui tratta temi delicati e attuali, grazie a una capacità che sembra al contempo istintiva e ben ponderata di mettere su carta solo le parole necessarie per esprimere ciò che vuole dire. E l’inserimento perfetto all’interno di un catalogo come quello di Pidgin edizioni, che dà spazio a una narrativa poco esplorata in Italia, non fa che aggiungere valore a questa originale e brillante raccolta di racconti.  


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