Raccontare quello che conosco | Intervista a Bonifacio Angius

Il regista sardo autore di Perfidia, Ovunque proteggimi e I giganti e il suo cinema personale e istintivo

L’appuntamento è al ristorante Magno Gaudio di Pistoia, dove il regista Bonifacio Angius, ospite della seconda giornata del festival cinematografico Presente italiano, sta pranzando. È qui per presentare I giganti, film uscito in sala ad agosto 2021, e noi l’abbiamo raggiunto per completare il racconto del suo cinema, fatto di grazia e disperazione, amore e speranza.
Preso il caffè, Angius si congeda dai commensali e mi raggiunge. Insieme, ci spostiamo ai tavolini di un bar tabacchi lungo il corso pistoiese, ancora poco trafficato. Ci conosciamo parlando della città dove entrambi siamo nati, Sassari, e della città dove entrambi abbiamo vissuto, Firenze, sebbene per periodi, e in periodi, diversi. Ordiniamo una grappa liscia e un Lucano con ghiaccio. Lui accende una sigaretta, la prima delle tante che fumerà durante la chiacchierata. Io, che da poco ho smesso, sono tentato di farmene offrire una, ma resisto, e attacco con la prima domanda.

A oltre un anno dalla prima uscita in sala de I giganti, vuoi fare un bilancio del film e se vuoi del tuo percorso registico?
Dalla prima a Locarno dello scorso 14 agosto ad oggi, abbiamo girato quasi tutta Italia e siamo andati anche fuori: in Francia, in Spagna, in Portogallo, negli Stati Uniti. Anche in India e Brasile. Quindi il bilancio de I giganti è più che positivo. E ora voglio solo guardare avanti, dedicarmi ad altri progetti. Anche se I giganti è un film a cui tengo molto, sono contento di averlo fatto, perché è un film sincero che mette in scena le mie paure.

È anche un film nato per caso: prima della pandemia stavi lavorando a Confiteor, una sorta di autobiografia che doveva completare il discorso tematico iniziato con Perfidia, poi con le chiusure la lavorazione si è bloccata e hai tirato fuori I Giganti, che a me è sembrata la conclusione perfetta del discorso aperto dalle tue prime opere. È dunque un film che avresti fatto comunque, anche se non ci fosse stata la pandemia?
Non so se l’avrei girato. Probabilmente no, e sarebbe stato un peccato. Però non vorrei che lo si consideri come la conclusione di un percorso. Non era nelle mie intenzioni. Io volevo fare un film che fosse lo specchio di un momento in cui tutto sembrava perduto, dove bisognava giocarsi l’ultima occasione, dire le ultime cose o tenerle nascoste per sempre, e così ho fatto. Effettivamente è un film che crea confusione nei miei progetti, e rispetto ai precedenti non saprei dove collocarlo, non come conclusione però.

Hai ripreso la lavorazione di Confiteor?
Confiteor è giunto alla quarta stesura. Abbiamo riformulato il cast e presto partiremo a girare. Ho poi in cantiere altri progetti. Uno si chiama Blue Elephant, e racconterà di un rapinatore nel nord est italiano. Sarà un film d’azione ma ci sarà anche il melodramma. Un altro è un film a episodi che parte dal corto Destino, a cui si aggiungeranno nuove parti che andremo a girare con un cast di attori che non posso anticipare ora. E poi sto scrivendo un documentario, nel senso di una pellicola che vuole documentare quella realtà che il decoro non vuole che vediamo, senza manipolarla. Niente interviste o storie di personaggi, ma vorrei lasciare che siano le immagini a parlare, a cogliere quella realtà sommersa, nascosta, che vive parallela alla nostra. L’idea è quella di andare alla ricerca di affreschi di uomini e donne ai margini, dal Giappone all’America, per poi tornare in Europa, in Sardegna, e creare un film fatto di sole immagini, come fosse il cinema riportato agli albori, che prova a mettere in scena l’eccezionale.

Hai tanti progetti insomma, questo mi fa piacere perché smentisce quanto avevi detto in una vecchia intervista, rispetto alla pandemia, cioè che per te è stato un momento difficile, durante il quale hai pensato che non saresti più riuscito a realizzare film. Come ti senti oggi?
Il fatto che abbia tanti progetti non significa che li realizzerò, ma sto lavorando molto. Rispetto a prima, oggi mi sento più cauto. In questo senso, dalla pandemia sono cambiato. I giganti è stato un film di reazione, animalesco, che mi ha svuotato, mi ha spinto a uno sforzo di cui, quando giravo, non mi ero accorto, ma oggi sì. Dopo averlo chiuso, ha fatto seguito un periodo stancante, quasi depressivo, dove le batterie si sono esaurite. Da allora sto cercando di recuperare, e di essere anche più pianificatore e meno impulsivo, di non lanciarmi in un’impresa senza averla strutturata bene, col rischio di trovarmi esausto alla fine. Quindi sì, lavoro tanto, non mi fermo – in questo mestiere non ti puoi fermare sennò sei perduto –, ma sono cambiato, soprattutto nell’approccio al lavoro.

Mentre parliamo, la via riprende vita, e va riempendosi sempre più di persone, ma soprattutto ragazzi e ragazze. Età media forse sedici, massimo diciotto anni. Chi a piedi, in bici, su monopattini elettrici o motorini truccati. In coppia o in gruppo. E tra il loro vociare e le saracinesche delle attività che si alzano per accogliere i clienti, ho il timore che il frastuono della città copra la registrazione. Non accade, per fortuna.

Sempre in un’intervista hai detto che I giganti è piaciuto molto ai giovani, e la cosa ti ha scaldato il cuore. Come ti rapporti con le nuove generazioni?
Io penso di essere abbastanza trasversale. Non credo ci sia un’età giusta per apprezzare i miei film. Semmai, rispetto alle nuove generazioni, il problema è capire come arrivare a loro. Perché una volta che ci arrivi sono in grado di apprezzare le cose. I ragazzi di oggi hanno sete di conoscenza, solo che sono rintronati di informazioni…

Vuoi dire che sono bombardati di contenuti e che perciò è difficile, per chi crea prodotti, essere intercettato?
Sì, questo è uno dei problemi, ma non solo. Io ho insegnato, e negli occhi dei miei alunni ho visto la stessa energia che avevo io alla loro età, solo che oggi sembra esserci un crescente disinteresse e una perdita di fascinazione verso quella che è la realtà in favore del virtuale, del fasullo, e anche del superficiale.
 

Le nuove generazioni sono consapevoli, sono certo che loro sanno che esiste una distinzione tra reale e virtuale, ma sembrano non avere l’urgenza di cercare la verità


Probabilmente le nuove generazioni sono consapevoli di questa cosa, anzi, sono certo che loro sanno che esiste una distinzione tra reale e virtuale, ma è come se non avessero gli strumenti per approfondire questa distinzione… perciò restano impotenti, sembrano non avere l’urgenza di cercare la verità, di scavare oltre il velo della finzione, accettano le cose per come sono. Forse i giovani d’oggi sono consapevoli, ma anche rassegnati… è un discorso lungo e complesso.

Torniamo al tuo cinema allora. A me piace definirlo antropologico, perché riesce a cogliere una dimensione culturale precisa, che dà spessore e credibilità a quella narrativa. Da regista, come costruisci questo sguardo?
Io parto dal raccontare quello che conosco, non ho mai pensato di raccontare il luogo in cui vivo: semplicemente perché ci vivo, sono focalizzato lì. Quello che faccio semmai è cercare di essere spontaneo, di mostrare un’umanità viscerale, onesta, sincera, rispettosa dei personaggi che inscena. E questo più che metodo, direi che è istinto. È quella dimensione ludica del cinema che ti permettere di essere te stesso, libero di non omologarti al mercato audiovisivo, ma di cercare una sorta di autenticità. Ma la mia autenticità non è diversa da altre. Ogni luogo ha la sua autenticità, che si riflette nel modo in cui si racconta.

Michele Manca (Andrea), Stefano Manca (Piero) e Riccardo Bombagi (Riccardo) in I giganti (2021) di Bonifacio Angius, anche attore nella parte di Massimo, sdraiato a destra

 

Tu infatti dici che le tue storie non sono legate al luogo, ma sono universali. È vero, però ho la sensazione che se tu fossi nato da qualche altre parte, le tue storie non le avresti raccontate alla stessa maniera. E in questo giocano un ruolo importante gli attori che scegli. Penso ad esempio ai fratelli Manca, arrivati al grande pubblico come cabarettisti (Pino e gli Anticorpi), mentre nel film I giganti hanno un ruolo drammatico
Anche qui è tutto istintivo. Io osservo molto le persone, e il loro volto, l’espressione, mi suggerisce un mondo su cui ricamare una potenziale storia…  è tutto immediato, quasi ludico. Con gli attori cerco di entrare in sintonia parlando al loro personaggio, cioè mi rivolgo a loro come se mi stessi rivolgendo direttamente al personaggio che interpretano. Diventa così un gioco. A me piace dirigere in questo modo. Io nel set sto sempre gridando, urlo alle luci, all’attore, alla scenografia. Il set è il mio mondo, il mio giocatolo, dove so che non mi può succedere niente.

E gli attori sul set si affidano del tutto a te?
Sì, si affidano totalmente. Non ho mai lavorato con un attore o un’attrice che mi ha remato contro. Certo, c’è stata qualche difficoltà con qualcuno che non capiva appieno il ruolo che doveva fare, ma non mi incavolavo, stavo lì a spiegarglielo, a dargli i giusti input per coglierlo. Solo una volta mi è capitato di arrivare a un passo dal cacciare un’attrice dal set, ma poi non è successo, perché anche lì alla fine ho trovato la chiave per farla rendere come volevo. Coi fratelli Manca invece ci conoscevamo già. Sono due attori molto preparati, con una importante formazione tecnica alle spalle, che gli permette di adattarsi a più ruoli, che vanno oltre il cabaret per cui sono conosciuti. E in futuro voglio certamente coinvolgerli in altri progetti.

Parlando in redazione di questa intervista, ci dicevamo che quando a un regista chiedi di parlare di regia, lui parla e parla. Ed effettivamente, ora che siamo entrati nel vivo della chiacchierata, mi sembra che Angius parli con più leggerezza, come se non si sentisse più nel gioco delle parti fatto di domanda e risposte tra intervistatore e intervistato. Si accende così la terza, o forse la quarta sigaretta di questo incontro, ho perso il conto, e mi mostra lo zippo con stampato sopra il volto di Maradona, chiedendomi di dichiararlo nell’intervista. Si è tolto persino gli occhiali da sole, che fino ad ora aveva tenuto su.

Giro in maniera molto classica. Non amo il virtuosismo. Mi piace avere una messa in scena pulita e cristallina. Le cose a cui tengo di più sono la scenografia e la fotografia, non al movimento. Ad esempio la camera a spalla la uso solo se strettamente necessario. Oggi invece si usa anche troppo, sarà perché con il movimento crei quella giusta confusione che può coprire una scarsa resa attoriale o una mancanza di contenuti nel racconto. Io invece amo mettere in scena delle belle immagini, ferme, pittoriche, che nel montaggio creano una continuità scenica lineare. È il mio stile, e non ho intenzione di cambiare.

Preferisci quindi lasciar parlare la storia anziché la sua messa in scena
In linea di massima sì, ma non voglio condannare i registi che usano molto la camera a spalla o il movimento. Ci sono registi virtuosi che mi piacciono, ma ci sono anche registi che col movimento non fanno altro che infiocchettare storie che non hanno un cazzo da dire. Per me uno che ha stile è Scorsese. Ma il suo è uno stile fatto di grandissima tecnica. Anche Sergio Leone. Lui diceva che fare un film è cercare di fare meno errori possibile. Ecco, con la camera a spalla coprire gli errori è più facile che con la camera fissa. Come lui, io cerco di far meno errori possibile nella messa in scena, ma non circoscriverei il mio cinema solo a questo. Io cerco soprattutto storie vive, che pulsano. Spesso invece guardo queste produzioni d’oggi, e mi sembrano piatte.

Che rapporto hai col cinema contemporaneo? Vai al cinema, o sei abbonato a qualche piattaforma di streaming? Qual è l’ultimo film che ti ha lasciato qualcosa?
Come tutti, guardo anche io le proposte delle piattaforme. Ma il cinema contemporaneo, a parte qualche eccezione, mi deprime. Gli autori che mi piacciono o sono morti o molto vecchi. Il cinema di oggi ha poco coraggio. Gli attori sembrano più commercialisti che artisti. Vedo tutto nero, se posso essere sincero. Mi fa paura vedere verso che direzione sta andando il cinema indipendente, e si tende un po’ troppo facilmente a sopravvalutare le opere, anche con i premi…

Credo sia una cosa tipica di oggi. In una feroce guerra dell’attenzione, qualsiasi cosa butti sul mercato la devi vendere come imprescindibile, strepitosa, imperdibile, creando delle aspettative che poi si scontrano con una realtà diversa
Non credo sia solo quello. Io non mi aspetto di vedere capolavori ogni volta che vado al cinema. I capolavori sono cose rare. Mi aspetto solo di vedere un buon film, e il più delle volte non mi capita.
 

Io ho deciso di seguire la mia strada, di fare i film come piacciono a me, partendo da quello che mi circonda e mi influenza


Mi spiego. Magari il film è anche bello, ma è un cinema fatto da persone che non hanno una predisposizione artistica ad osare, andare oltre… io alla fine ho deciso di seguire la mia strada, di fare i film come piacciono a me, partendo da quello che mi circonda e mi influenza.

C’è altro, oltre la tua vita, che influenza il tuo cinema? C’è ad esempio qualche libro da cui vorresti trarre un film?
Sì, c’è un libro di Salvatore Mannuzzu, La ragazza perduta, di cui mi piacerebbe fare una libera trasposizione cinematografica, e su cui sto lavorando. Mentre un altro libro che mi ha colpito molto è Limonov, di Emmanuel Carrere. Quando l’ho letto, ho deciso anche io di scrivere un romanzo, a cui sto già lavorando ed è quasi pronto.

Puoi dirci qualcosa?
Come i miei film, sarà qualcosa che nasce dalla mia vita. Racconterà una storia con salti temporali tra passato e futuro, e sarà racchiuso tra un prologo e un epilogo, che daranno una coordinata alla storia.

Come la voce fuori campo che apre e chiude i tuoi film
Sì, è una cosa che mi è sempre piaciuto usare, crea una cornice alla storia, ma nel libro mi sto prendendo nuove libertà, cioè sperimento cose che col cinema non posso facilmente fare, come esplorare l’inconscio dei personaggi. Infatti ora mi sa che torno in albergo a scrivere. Sto cercando di scrivere una quindicina di pagine al giorno, e adesso che ne stiamo parlando mi hai ricordato che oggi devo ancora farlo.


 

Leggi qui l’approfondimento di Salvatore Cherchi sul cinema di Bonifacio Angius  Un’indagine sugli sconfitti 


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