Un’indagine sugli sconfitti | Il cinema di Bonifacio Angius

La poetica del regista sardo di Perfidia, Ovunque proteggimi e I giganti, tra grazia e disperazione, amore e speranza

Ho conosciuto il cinema di Bonifacio Angius per caso. Era un mercoledì sera, a Firenze, città in cui il regista ha iniziato la sua formazione nel settore. Angius era qui per presentare la sua ultima opera, I giganti, vincitrice del premio Elio Petri nel 2021 e unico film italiano in concorso al Festival Internazionale del cinema di Locarno nello stesso anno. Alessandro Stellino, direttore artistico del Festival dei Popoli, lo ha definito uno dei film italiani più potenti, tra quelli usciti di recente. Concordo. È un film che colpisce per la sua sincerità. Nell’urgenza di raccontare una storia che racchiude una reazione impulsiva al periodo storico che stiamo vivendo, I giganti trasmette l’amore del regista per il suo mestiere da ogni fotogramma. È qualcosa di palpabile.
Nei giorni seguenti ho recuperato tutta la sua filmografia. Non che sia lunga: conta tre film. O meglio «tre film e mezzo», come dice lui, includendo tra questi anche SaGràscia (2011), un mediometraggio che fa da raccordo tra gli esordi coi cortometraggi (2005-2010) e il passaggio al racconto lungo, nel 2014, col film Perfidia. Purtroppo SaGràscia è introvabile. Angius stesso, durante la presentazione, ha detto di averlo ritirato dalla circolazione. A posteriori forse non era soddisfatto appieno del lavoro. Da come racconta in alcune interviste, SaGràscia è un film di ispirazione felliniana, ma con linee narrative riprese da David Lynch. Qualcosa di distante dai suoi attuali film, che adottano un impianto narrativo classico e un naturalismo espressivo più marcato.
Anche i corti iniziali sembrano introvabili, ma dagli spezzoni recuperabili in rete si può intuire una certa volontà del regista di cogliere quel folklore estetico, linguistico e storico, che spesso ricorre nei racconti ambientati in Sardegna. Aspetto che nei film attuali viene abbandonato, in favore di un approccio più intimo e concreto, interessato sempre a raccontare l’individuo e il suo stare al mondo. Per questo le vicende dei film sembrano riprendere tematiche e personaggi già apparsi nei corti, come evidente in Perfidia, ma con un passo diverso.

Tutto è predeterminato
Perfidia (2014) è il primo lungometraggio di Bonifacio Angius, scritto insieme all’attore e amico Stefano Defenu, che ne è il protagonista. Come già nel cortometraggio In sa ia (2006), è centrale il rapporto padre-figlio. Nel corto vediamo un padre e un figlio che vagabondano per l’entroterra sardo: il padre cerca di insegnare al figlio come cavarsela nella vita, ma il figlio non vuole saperne di imparare. Si crea così una contrapposizione teatrale, marcata dalla struttura fiabesca della storia. Il tempo e i luoghi rappresentati sono infatti quelli di una Sardegna cristallizzata nell’immaginario storico-tradizionale della contrapposizione tra Stato (il Padre) e colonia (il Figlio).
 

La storia di Perfidia è ambientata a Sassari, ma la città non viene mai mostrata. Tutto è anonimo, e paradossalmente è questa assenza a rendere lo spazio opprimente


In Perfidia questa struttura svanisce, lasciando spazio al tetro grigiore della contemporaneità. Protagonisti del film sono Angelo (Stefano Deffenu) e suo padre Peppino (Mario Olivieri). Angelo è un trentenne disoccupato che si trascina dentro giornate inconcludenti. Dopo la morte della madre, è depresso e catatonico. Suo padre, un anziano pensionato, cerca di recuperare il rapporto mai avuto col figlio aiutandolo a trovare il suo posto nel mondo. Ma fallisce. Angelo è inadatto all’esistenza e ai rapporti umani, che al più idealizza nell’onirico, e si accompagna ad altri perdigiorno, portatori insani di rancore e sbeffeggio gratuito verso chi conduce una vita normale.
La storia è ambientata a Sassari (città natale di Angius), ma la città non viene mai mostrata. Non ci sono panoramiche da cartolina, tutto è anonimo, e paradossalmente è questa assenza a rendere lo spazio opprimente. L’asfittica aria della città non lascia scampo a chi la vive, incastrato in un presente privo di sbocchi, opportunità, perché tutto è predeterminato. Si va avanti solo per fortuna o raccomandazioni.

Uno spiraglio di speranza
Nel secondo lungometraggio Ovunque proteggimi (2019) il rancore e la disfatta di Perfidia assumono i contorni della rabbia e della voglia di riscatto. Il film racconta la storia di Alessandro, un cantante di mezza età che vive con la madre e tira a campare con qualche serata estiva presso sagre di paese e chioschetti sulla spiaggia. Quello di Alessandro è l’eterno tentativo di trovare un posto nel mondo facendo ciò che ama: cantare, indossando una bella camicia. Ma non basta. La sua è una musica anacronistica, e parla a un mondo che non esiste più. Persino chi condivide quel percorso artistico con lui, come il compare Gavinuccio, decide di smettere.
Alessandro si trova così solo, a covare odio. Questo sentimento però non si rivolge al sistema che l’ha generato, ma verso sé stesso. Perché Alessandro vive in un sistema che si autoassolve e tramuta il fallimento in una questione personale. Così, a seguito di una violenta crisi in piena notte in casa della madre, subisce un TSO e viene ricoverato. Durante il ricovero conosce Francesca, una ragazza mentalmente instabile ma decisa a uscire da lì, recuperare il figlio – che le è stato tolto dai servizi sociali – e fuggire a Barcellona. Alessandro decide di aiutarla in questa avventura, un po’ per riscattarsi, un po’ perché Francesca gli piace.
 

A differenza di Perfidia, in Ovunque proteggimi c’è una speranza, “una grazia” appunto


I due iniziano un viaggio attraverso una Sardegna fatta di asfalto e pianure bruciate dal sole, simile a quelle intraviste nei corti SaGràscia o In sa ia. Ma qui la dimensione onirica, coi suoi personaggi teatrali, lascia spazio a una realtà che ribadisce, chilometro dopo chilometro, qual è il posto di Alessandro e Francesca nel mondo: il posto di quelli incapaci di gestire sé stessi, figurarsi gli altri.
A differenza di Perfidia però, in Ovunque proteggimi c’è una speranza, “una grazia” appunto, seppur priva di compromessi. Alessandro fa notare a Francesca che l’unico modo per uscire da quella condizione di emarginati in fuga è adattarsi al sistema. Tornare sui propri passi, trovare un buon lavoro, prendere una casa in affitto, comprarsi un bel vestito, così quando i servizi sociali vedono che tutto va bene, li lasceranno vivere in pace, come una famiglia. Francesca non sembra capirlo, per lei conta solo raggiungere Barcellona col figlio. Alessandro è quindi costretto a proseguire il viaggio, ad assecondare il desiderio della donna, anche a costo di sacrificare sé stesso.

Né grazia né assoluzione
Ne I giganti (2021) è come se tutte i conflitti, le paure, le ostilità e i sentimenti negativi espressi nei primi due film convergessero per trovare una catarsi, provocando un’esplosione narrativa che trascina lo spettatore verso la miseria umana. La trama è semplice: cinque amici si ritrovano in un casolare di campagna per passare un devastante weekend tra droghe e alcol. Un cocktail che nel volgere di poche ore tramuta l’euforia in amarezza, scoperchiando un vaso di ricordi che si porta dietro rancori, sgarbi e torti, fatti e subiti. Fantasmi di un passato mai ben identificato, che trascina i cinque sull’orlo della disfatta e dell’autodistruzione.
Non c’è grazia e non c’è assoluzione. Solo l’umano, schiavo allo stesso modo del proprio autocompiacimento o del proprio malessere. Le due facce di una medaglia a cui il titolo del film, senza mancare di ironia, fa riferimento: persone che si sentono grandi, o che ambiscono ad esserlo, all’interno di un contesto conosciuto e protetto. Al di fuori si rivelano per ciò che sono: vittime di vizi e debolezze, ma bisognosi di grazia e amore.
Il casolare in cui I giganti è ambientato è uno spazio finito e claustrofobico, privo di movimento, e il film si regge tutto su dialoghi e recitazione, facendo emergere una delle peculiarità del cinema di Angius: quella di avere uno sguardo antropologico sulla condizione e gli spazi umani che mette in scena, a partire dal linguaggio.


Il mondo, il linguaggio
La lingua del cinema di Angius è un calco antropologico del mondo che racconta, ne è elemento essenziale prima che caratteristico. Senza la cadenza stanca e trascinata, gli intercalari sporchi, l’ironia sopra le righe, le pose strafottenti e la mimica di sfida tipiche della “maschera” sassarese, le storie di Angius non avrebbero la stessa profondità drammatica. Come vedere un film di Troisi senza napoletano, o di Benigni e Nuti senza toscano. O per essere più attuali: leggere le storie di Zerocalcare depurate dal romano. Sarebbe sciapo, forse anche banale.
E se nella rappresentazione filmica di consumo si sceglie quasi sempre di aderire a una sorta di “sardità pura”, univoca per ogni latitudine e longitudine della regione (dunque poco realistica come quella utilizzata, seppur con fini ironici, da L’uomo che comprò la luna di Paolo Zucca), nei film di Angius questo non avviene. La sua lingua non rappresenta il sardo in toto, ma una sfumatura, una variante meno plastica o artefatta. Questo gli permette di prendere le distanze da quel folklore estetico, linguistico o storico. I film di Angius non parlano di né danno voce alla Sardegna quale entità politico-culturale. Il fatto che siano ambientati nella terra in cui è nato è un puro “caso” geografico, e una necessità materiale. Ma non rifiutando caso e necessità, le storie ricalcano i luoghi da cui prendono vita, senza farsi carico di esserne una bandiera, ma semmai specchio. Come dice il regista stesso in diverse interviste, il suo è un cinema individualista, che ha l’obiettivo di raccontare la vita così come questa si sviluppa attorno a lui, né più né meno. È il racconto dunque a dare forma al film, non viceversa.


La fine di un ciclo?
I giganti sembra portare a compimento questo grande affresco narrativo degli esclusi, questa indagine sulle personalità sopraffatte dalla vita, iniziata dal regista otto anni fa, e portata avanti all’interno di una sorta di ipotetica “trilogia degli ultimi”. Dico trilogia perché i personaggi dei suoi film non chiudono il loro arco narrativo all’interno di una pellicola, ma sembrano reincarnarsi nelle successive, dando all’opera dell’autore sardo una sorta di continuità, o di ricorsività. 
Alessandro, il protagonista di Ovunque proteggimi, può essere l’approfondimento di Danilo, uno dei co-protagonisti di Perfidia, o ancora lo sviluppo dell’uomo solo e disperato al centro del corto Domenica (2016). Allo stesso modo, nel film I giganti, Stefano, uno dei protagonisti, sembra essere l’evoluzione di Angelo, il protagonista di Perfidia. Cosa ne è stato di lui, a seguito della morte del padre? E ancora Massimo, un altro dei cinque amici che si incontrano nel casolare de I giganti, ricorda Mario, il protagonista del corto Destino (2019).
 

I personaggi di Bonifacio Angius non chiudono il loro arco narrativo all’interno di una pellicola, ma sembrano reincarnarsi nelle successive, dando alla sua opera una sorta di continuità


Non è solo una questione pratica, data dal fatto che gli attori sono gli stessi, è proprio come se tra loro i film dialogassero, facessero emergere ora quel personaggio, ora l’altro, racchiudendoli in una grande storia di amore e disperazione sviluppata dentro un mondo selvaggio non per la natura che lo ricopre, ma per le relazioni tossiche e disarticolate che vi si sviluppano dentro, e che in un film come I giganti sembrano trovare compimento, catarsi. Non so cosa ci si possa aspettare dal suo prossimo film. A termine della presentazione a Firenze, Angius non ha anticipato molto, ma ha fatto una promessa, puntando il dito verso il pubblico. Ha detto che col prossimo lavoro sarebbe arrivato a Cannes.


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